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domenica 29 dicembre 2013

[Quattro anni dopo] Dormire davanti a Dio

Ieri sera, parlando con una carissima amica, le raccontavo del personaggio che preferisco nel presepe. E' l'unico ad esserci sempre - eccezion fatta, ovviamente, per i protagonisti. E' il pastore dormiente. E' un piccolo specchio per me, innamorato del sonno e non sempre corrisposto.

Mi sono sempre chiesto come sia possibile dormire davanti a Dio. Insomma, seppur con il tipico understatement che caratterizza Gesù, stava accadendo qualcosa quella notte. Si muovono stelle nel cielo, la notte è piena di voci di angeli, caravanserragli pieni e carovane che si avvicinano. Il pastore, però, infischiandosene di tutto quello che c'è attorno, dorme. Dorme: et Verbum caro factum est. Dorme: e accade l'evento cruciale della storia del mondo. Dorme.

Poi ci sarà il biblista che ci dirà che il sonno è la reazione umana tipica sulla soglia delle teofanie (per esempio il sonno di Adamo, di Giacobbe, o del terzetto degli Apostoli prima della Trasfigurazione).

Poi ci sarà lo psicologo che ci dirà che la rivelazione ha come scena fondamentale il mondo onirico.

Poi ci sarà il filosofo (anzi c'è, Jean-Luc Nancy, "Cascare dal sonno") che scriverà: "Io casco dal sonno e, al tempo stesso, mi cancello in quanto 'io'. Io casco in me e me cade in sé. Non è più io, è sé, che non fa altro che tornare a sé. Di qualcuno che riprende coscienza (...) si dice che 'torna in sé'. Ma in realtà, torna alla distinzione dell''io' e del 'tu'. Torna al distacco dal mondo"

Va bene. Tutto giusto. Per me, se nel presepe c'è il pastore addormentato, è come se ci fossi io.

December 29, 2009 at 10:56am


venerdì 27 dicembre 2013

Il carato estinto. Invito all' Algor Danza

Confesso: ho sognato anch’io di diventare un diamante. Ho accarezzato l’idea di trasformarmi in carato, da quando ne ho appreso la concreta possibilità.

Venite con me, oggi vi porto in Svizzera. Oltre Lugano (città di banche e di eutanasia dove puoi andartene con un’iniezione letale in un appartamentino vista lago con la moquette e le stampe naif alle pareti – e sarà da indagare questa affinità strana tra Svizzera e morte), andiamo oltre Bellinzona, risaliamo insieme la strada a nord-nord-est fino a Coira/Chur, a Cuira l’antichissima città, che vide popolazioni umane fin dall’età della pietra, distesa com’è nell’alta valle del Reno. 

Fa un po’ freddo, prendiamo qualcosa da bere? Entriamo al Giger Bar. 




E’ un bar voluto e costruito da Hans Ruede Giger, scultore surrealista e simbolico nato qui e noto per essere l’autore di Alien, ma anche per aver immaginato i biomeccanoidi, creature composte da carne umana inembricata con metalli e meccanismi. Avreste preferito magari una cioccolata calda in centro, in una pasticceria grisonnaise, al caldo di una stube? Fidatevi, è meglio stare qui al Giger, nella sperduta zona industriale, qui, seduti su queste sedie fatte di ossa. Conviene stare qui, per il discorso che dobbiamo fare. Cosa prendete?

Perché poi dobbiamo visitare Algordanza, in Ringstrasse 34. Cosa vi viene in mente sentendo questa parola? A me viene in mente algos, dolore, e poi anche algor mortis, cioè il raffreddarsi del cadavere dopo la morte, e tutto questo associato al danzare. Ebbene, Algordanza (www.algordanza.com) è un’azienda, un gruppo internazionale presente in Austria, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Corea, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Messico, Monaco, Olanda, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Thailandia e Stati Uniti d’America. Se portiate le ceneri del vostro caro defunto, loro prima le catalogano, le protocollano, le identificano; poi le analizzano – per verificare che si tratti di ceneri umane; poi da esse estraggono, attraverso procedimenti fisico-chimici, il carbonio; poi trasformano il carbonio in grafite, che a sua volta sottopongono (con macchine di produzione russa) a una temperatura di oltre 2500 gradi e a una pressione pari a sessantamila volte l’atmosfera terrestre: in questo modo la grafite – in settimane di trattamento - si tramuta in diamante; poi il diamante grezzo viene tagliato e pulito secondo le vostre indicazioni; poi viene eseguito un controllo della qualità, e viene redatto un certificato riportante i dati di purezza, taglio, peso, colore del diamante, nonché l’attestazione del legame tra quel diamante e le ceneri del vostro caro defunto; poi, su richiesta, viene incisa sul diamante un’iscrizione con un potente laser; infine vi viene consegnato in una scatolina personalizzabile. Algordanza ha finito il suo compito, per cui si farà pagare bene. Del resto perché un diamante si formi in modo naturale, nel grembo della terra, cotto al fuoco della terra stessa, sotto l’immane pressione delle montagne, ci vogliono milioni di anni, e poi deve essere strappato alla madre dalla violenza della miniera. E’ quindi congruo pagare qualcosa per ottenerlo in modo tanto semplice. Potrete fare del diamante l’uso che vorrete: tenerlo lì, per guardarlo; oppure incastonarlo in un anello, in una collana, in un orecchino, o in una cavigliera, o magari utilizzarlo per un piercing all’ombelico.


Sì, Algordanza, sì. Trasformami in diamante. Adorna di me il pendaglio di una Devadasi, che mi tenga sulla sua pelle color ambra mentre danza il Bharatnatya davanti al Signore Shiva, mentre io sfrango diffrango e rifrango le luci delle lampade in milioni di riverberi. Mettimi al centro di un puro cerchio d’oro portato al dito dalla mia amata di sempre. O a tempestare la base di un calice da messa, elevato al cielo mattina dopo mattina da pallide mani sacerdotali. O ancora meglio, vendimi, vendimi, fammi costare caro, fammi passare di dito in dito, di collo in lobo, rendimi desiderio di donne, rendimi dono di uomini, rendimi eredità concupita. Oh Algordanza, come sembra preferibile questa sorte, questa allucinazione di luce, rispetto al realistico e chissà se prossimo giacere immerso nei propri liquami in un involucro di zinco, nel buio gelido di mattoni e di marmo, con fuori fiori di carta polverosi e una finta candela elettrica, mentre dentro il corpo si trasforma in cuoio teso su ossa o in viscida cerea sostanza saponiforme.

Sì ma. Davanti a me, su una poltrona del Giger Bar dove il mio piccolo Geist des Erzählung mi ha, e ormai vi ha, trasportato, è seduta A. A ha occhi chiari e mente chiarissima. Parlare con lei è come bagnarsi in un lago alpino di cui non riesci a vedere il fondo, nonostante l’assoluta trasparenza dell’acqua. Una mente adamantina, diamantina, tanto per rimanere in tema. Mi piace paragonarla alla lama affilatissima di una katana di samurai che – immersa e tenuta immobile in un ruscello – taglia in due un petalo di fiore di loto trasportato dalla corrente: tanto differente dalla mia, che penso fatta di metallo volgare, buono a forgiarci un badile arrugginito a forza di rovistare nel fango della contemporaneità, di vangare l’orto, di scavar fosse da morto – ancora in tema – per magari solo per caso trovare un modesto tesoro. Insomma, A. A dice: Mi piacciono i gioielli, ma quel diamante non saresti tu. Ma come. No, insiste A, e mi spiega pazientemente che il Carbonio sarà anche alla base della vita, ma nel girotondo chimico con Idrogeno e Ossigeno, per prima cosa. E poi il caro estinto più che nel Carbonio è del DNA, una molecola resistente, tenace. Che è certamente presente nel liquame, nella pelle fatta cuoio, nella carne saponificata, nelle ossa, e forse anche nelle ceneri e da quel DNA ti si potrebbe magari clonare: ma certo non è nel diamante sintetico. Il diamante non contiene alcuna orma chimica di quel che eri da vivo. Sì, i suoi atomi che hanno fatto parte del tuo corpo, ma il tuo sudario biologico, il lenzuolo molecolare che pietose veroniche deporranno nella cassa, è tutta un’altra cosa. 

Le dico: A, non so. Hai ragione, il diamante è molto più lontano dalla vita della putrefazione. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior, cantava De André invaghito di una prostituta genovese. Tuttavia mi sembra comunque un destino la atomizzazione, se non altro quando il Sole diventerà una gigante rossa e divorerà il pianeta nel suo infuocato ingrandirsi. Il punto mi sembra un altro. Trasformarsi in gemma è allettante, ma quando l’angelo suonerà la tromba per l’adunata finale e i corpi verranno chiamati alla resurrezione, ho l’impressione che – imprigionati nel reticolo cristallino ottaedrico o dodecaedrico o esaciottaedrico o rombododecaedrico – i miei atomi farebbero tanta fatica a districarsi l’uno dall’altro per ricomporsi nella mia forma secondo l’innamorato volere di Dio. E’ vero però che esiste tutta una teologia delle gemme. Adesso sto per dilungarmi in un excursus che forse annoierà A, ma non voglio che possa annoiare voi, quindi saltatelo pure e mentre parlo bevete il vostro cocktail Giger.

[Penso al pettorale del giudizio indossato dal sacerdote Aronne (Ponesque in eo quattuor ordines lapidum: in primo versu erit lapis sardius et topazius et zmaragdus; in secundo, carbunculus, sapphyrus et iaspis; in tertio, ligyrius, achates et amethistus; in quarto, chrysolitus, onychinus et berillus. Inclusi auro erunt per ordines suos. Habebuntque nomina filiorum Israhel, duodecim nominibus celabuntur, singuli lapides nominibus, singulorum per duodecim tribus – Esodo 28). La stessa Gerusalemme Celeste, che in Apocalisse san Giovanni vede descendentem de caelo, a Deo, paratam sicut sponsam ornatam viro suo, è sorprendentemente minerale (Et erat structura muri eius ex lapide iaspide, ipsa vero civitas auro mundo simile vitro mundo. Fundamenta muri civitatis omni lapide pretioso ornata. Fundamentum primum iaspis, secundus sapphyrus, tertius carcedonius, quartus zmaragdus, quintus sardonix, sextus sardinus, septimus chrysolitus, octavus berillus, nonus topazius, decimus chrysoprassus, undecimus hyacinthus, duodecimus amethistus. Et duodecim portae duodecim margaritae sunt per singulas, et singulae portae erant ex singulis margaritis. Et platea civitatis aurum mundum tamquam vitrum perlucidum ). Nel Nome della Rosa, quando siamo già al sesto giorno e ci sono un sacco di morti ammazzati alle spalle, e tutto si apparecchia alla fosca apocalisse finale, l’Abate Abbone, conversa con il novizio Adso sulle virtù spirituali delle gemme, facendogli sfolgorare ipnoticamente davanti agli occhi il suo meraviglioso anello. Ricalcando Ildegarda di Bingen – onnisapiente monaca medievale, corteggiata e sdoganata dalla new/next age per i suoi interessi cosmonaturalistici che i moderni scambiano per tendenze panenteistiche, nonché per il suo tendere al benessere del corpomente (è la madre della cristalloterapia) più che al punire la carne fomite di peccato – l’Abate decanta la virtù delle pietre preziose. Ogni gemma racchiude in sé acqua e fuoco. Tuttavia il demonio rifugge, abomina e disdegna le pietre preziose, che ridestano nella sua mente il ricordo del loro originario splendore, quando ancora egli rifulgeva della gloria concessagli da Dio, e nel contempo scaturiscono dal fuoco che danna la sua stessa esistenza, dice Santa Ildegarda, che in un inno meraviglioso chiama Maria splendidissima gemma. Ma ancora prima, nella storia, l’Abate si dimostra un teologo delle gemme, e argomenta che se ogni creatura – anche la merda o il millepiedi – indica la via della risalita causale verso il Padre delle Luci, quanto più le gemme, che sono luce condensata, possono additarla chiaramente.]

L’excursus è concluso, prestatemi attenzione adesso. Sto dicendo ad A che la resurrezione dei corpi continuo a immaginarmela ingenuamente secondo la visione delle ossa aride di Ezechiele 37, col grido profetico su di esse: ed ecco che quelle ossa cominciano a muoversi, gli scheletri cominciano a comporsi, crescono i nervi, la carne, e la pelle (et ecce commotio, et accesserunt ossa ad ossa unumquodque ad iuncturam suam, et ecce, super ea nervi et carnes ascenderunt, et extenta est in eis cutis desuper). Ma i corpi sono come zombie, disanimati, il profeta deve aumentare l’intensità del suo grido, che adesso è un urlo spaventoso, finché viene convocato lo spirito che finalmente possiede quei corpi e li fa rivivere (et ingressus est in ea spiritus, et vixerunt, steteruntque super pedes suos: exercitus grandis nimis valde). Insomma, e se i miei atomi in quel momento sono incatenati nella rigida geometria del cristallo, anziché distesi in forma d’ossa sulla polvere della valle di Iosafat? Riusciranno ugualmente a trasformarsi in carne che possa fremere di nuovo al soffio? A sorride. Se Dio conosce ogni stella e la chiama per nome, conosce certo per nome ogni atomo, ogni particella subatomica, e perfino il suo famigerato bosone. Accorreranno, stai tranquillo, da ogni parte del cosmo. Il cristallo non sarà un problema.

Qui però interviene C. Ma non è come pensate. Gli atomi dell’universo sono finiti, sono stati componenti di molti esseri diversi. A chi apparterranno alla fine? C ha ragione: ciascuno di loro è stato mattoncino di innumerevoli forme di Lego, costruite e distrutte dal Bimbo Divino nel suo gioco creativo. E cosa avverrà? Le forme si contenderanno i mattoncini? I patterns lotteranno l’uno contro l’altro onde avere la materia necessaria ad esistere ancora?

Non è possibile. Risorgerà un unico corpo cosmico. Saremo gli uni negli altri, gli uni dentro gli altri. Un singolo atomo sarà contemporaneamente parte di un fiocco di neve, di un barattolo, di un ammonite, di una libreria Ikea modello BORGSJÖ, di un’onda marina, del becco di un piccione di san Marco, di un ciottolo di fiume, dell’anello di zucchero formato dal boccale di birra di un tifoso olandese in un pub di Glasgow alla vigilia di Celtic Ajax il 5 novembre del 2013, di sterco liquido di bovino terrorizzato mentre viene macellato, della vetta del monte bianco, del muro occidentale a Gerusalemme. Di un diamante Algordanza. Del cervello di chi inventò e fondò Algordanza. Di Hans Ruede Giger. Dell’abside della cattedrale romanico-gotica di Coira. Di te che leggi e che ora hai dentro un sentimento che non comprendi bene. Degli occhi chiari di A. Dei capelli scuri di C. Di me.

E di Te, oh, forse di Te , certo di Te.

giovedì 19 dicembre 2013

Il discorso del Re

Per chi parlava? A chi si rivolgeva con quel suo linguaggio gestuale incomprensibile a tutti – e credevano fosse per i sordi, ma i sordi lo capivano meno degli altri -, chi è che serviva, con quel volto impenetrabile, serissimo, tutto compreso nella sua funzione? Per chi, e volendo dir cosa, quell'uomo si toccava fronte, labbra, cuore? Chi era che sedeva nello stadio, e aveva mandato quel traduttore, apparentemente a mediargli le parole degli Importanti della Terra?



Muore Mandela e il mondo si ritrova nella com-unione e nella con-divisione, nelle con-doglianze e nella con-vivialità. Muore uno statista, un simbolo, un guerriero, un profeta, un rivoluzionario, un capo, una speranza, muore l' icona delle icone (come titola un giornale irlandese), muore un gigante, una nera luce, un padre, un apritore di sentieri, un logo tardomoderno, un nobel-per-la-pace , un santo, un'ispirazione per l'umanità, muore Madiba.

Il web lo celebra, lo piange, lo esalta, il suo solo volto compare su milioni di profili, e anche sul mio, sì, anche io, che mi faccio punto d'orgoglio di non unirmi alle campane delle concelebrazioni social mediatiche, anche io pubblico su Facebook una sua immagine - pur se triste: lui a letto, con quel pallore particolare che appare sulla faccia dei neri, lui cupo, lui solo, e i colori freddi di uno schermo digitale in un angolo, chissà. Poi però la cambio subito, mi sposto sull’allusivo, e metto la foto di un elefante morto, immenso, disteso su un fianco, con un giovane indiano che gli cosparge il capo di fiori colorati e di burro fuso: perché l’India è così, nascita o morte, gioia o dolore, bellezza o orrore, uomini animali piante sassi, è sempre il dio che bussa alla porta, e credo che anche l’Africa sia un po’ così, e forse specialmente il Sudafrica in cui ci sono tanti indiani, così che perfino il Mahatma è venuto da lì. Forse nessuno lo ha capito che era una foto per Mandela. O magari qualcuno sì.

Perché infatti, la commemorazione, il memorial service, lo sappiamo tutti com’è andata. C’era il popolo ma c’erano anche i vip. C’era il Principe Carlo d’Inghilterra con accanto l’invisibile fantasma della Madre Immortale che gli sbarra la strada al trono, poi c’era l’Ultimo Re di Scozia, al secolo l’attore Forest Withaker, e c’era Oprah – poteva non esserci? – e la bellissima attrice afrikaneer Charlize Theron, e Bill Clinton, e Bono degli U2, e George Bush, e tanti presidenti e capi di stato, c’era perfino Letta, e Obama che naturalmente diventa anzitutto primo miracolato di san Madiba e stringe la mano a Raul Castro, poi protagonista di un gossip divertente: si scatta un selfie sorridente e malandrino con l’affascinante primo ministro danese Helle Thorning-Schmidt, provocando l’immediato protrudersi del labbro inferiore di Michelle, e infine un saggio scambio di posti fra loro.

Ci si immagina la security. I cecchini su ogni tetto coi loro mirini reticolati e i puntatori laser. I marcantoni in completo nerofumo con i Rayban e l’auricolare a spirale che chissà mai cosa gli dicono. I metal detector che scannerizzano ogni cosa che passa. Le perquisizioni minuziose. I documenti da presentare, controllare, verificare. Insomma, ci si immagina una fitta ragnatela anti-intrusione. Ed ecco che questo signore se ne fa un baffo della sicurezza, e si mette calmissimo accanto ai Potenti. Nessuno lo ferma, nessuno gli domanda nulla. E traccia in mondovisione gesti incomprensibili nell’aria. Rivolti a chi? E cosa diceva?

Fatto è che, con tutta probabilità, una coorte invisibile era stata mandata dall’alto – o dal profondo, ché non è diverso – a ricondurre Madiba nel luogo ove ogni conflitto tace, e ove anche la pace non è che una parola senza senso. Ma in quel luogo si entra nudi, bambini, smascherati. Combattere ad alta voce è da coraggiosi – scrive la Dickinson – ma so più valoroso chi si appunta dentro al petto la Cavalleria del Dolore. Quelli che vincono, e le nazioni non vedono, quelli che cadono, e nessuno li osserva, i cui occhi morenti nessun Paese gratifica di uno sguardo patriottico. In incorporea schiera, nelle loro uniformi di neve con gli elmi piumati,  - mentre il loro messaggero disegnava nel silenzio un discorso rivolto solo a lui - pietosamente spogliavano il defunto di ogni ruolo, gli toglievano dalle rughe ogni espressione di circostanza, lo liberavano da ogni personaggio, lo alleggerivano di ogni premio, lo affrancavano da ogni simbolo, lo sollevavano da ogni virtù di rappresentanza, lo aiutavano a deporre ogni peso – perfino da quello di dover essere colui che portava il bene e la pace nel mondo. E volete la traduzione del famoso discorso dei segni? Eccola. Dunque diceva:” Rolihlahla, Combinaguai,  è venuto il momento di mollare tutto, di dimenticare l’isola e la cella e il palazzo, e i ventisette anni e i ventitre anni, e l’apartheid, la rivolta e il trionfo, l’ingiustizia e la giustizia, la violenza e la pace, e l’arcivescovo Tutu e il presidente De Klerk e perfino il compagno di galera Ahmed Kathrada, e le mogli e le figlie e l’amore e i litigi e le separazioni, e il tuo paese arcobaleno ancora straziato e insanguinato, dimentica tutto, Combinaguai, è venuto il momento di lasciar andare tutto, ti è perdonato il tuo male (che è facile per Dio), ti è perdonato il tuo bene (che è più difficile perfino per Dio), a te - che tanto hai perdonato e convinto al perdono - è perdonato anche il tuo perdonare, ti è perdonato l’esserti considerato master of your fate, ti è perdonato l’esserti ritenuto captain of your soul [e qui gli elmi piumati hanno ondeggiato appena, e ciò perché gli angeli ridevano di un riso di cristallo, tanto assurde erano quelle parole, come fa l'anima ad avere un capitano], non sei Invictus, sei solo Rolihalhla, Combinaguai e ora devi lasciarti vincere”. Ah, c’è voluto tempo per convincerlo. La svestizione è stata lunga: Nelson Mandela, Presidente dell’African National Congress, Presidente del Sudafrica, Sakharov Prize for Freedom of Thought, Международная Ленинская премия, Nobel Prize for Peace, Istitutore della Truth and Reconciliation Commission, Balì di Gran Croce dell’Ordine di San Giovanni, Presidential Medal of Freedom degli Stati Uniti d’America, Bharat Ratna – ovverosia Gioiello dell’India - , Liberatore della Città di Soweto. Ma alla fine tutto è stato abbandonato, Combinaguai ha potuto finalmente andare, mentre sotto la pioggia assistevano, attente e intense, le anime ancestrali dell’Africa.

Leggo proprio adesso sul giornale che il signor Thamsanqa Jantjie il gesticolatore è uno schizofrenico con trascorsi criminali. La celeste schiera ha voluto vergare nell’aria il discorso del Re utilizzando – come pennello vivo – uno intriso del sangue e della follia dello sterminato, misterioso continente.

To fight aloud, is very brave—
But gallanter, I know
Who charge within the bosom
The Cavalry of Woe—

Who win, and nations do not see—
Who fall—and none observe—
Whose dying eyes, no Country
Regards with patriot love—

We trust, in plumed procession
For such, the Angels go—
Rank after Rank, with even feet—
And Uniforms of Snow. 


Combattere ad alta voce è da coraggiosi
Ma so più valoroso
Chi si appunta dentro il petto
la Cavalleria del Dolore.

Quelli che vincono, e le nazioni non vedono,
Quelli che cadono, e nessuno li osserva,
I cui occhi morenti nessun Paese
Guarda con amore patriottico.

Crediamo che – in piumata processione –
per coloro gli angeli procedano,
schiera dopo schiera, con passo cadenzato,
e le uniformi di neve.

Emily Dickinson


domenica 8 dicembre 2013

"Se nourrir des inscriptions, des tracés instinctifs" - Art Brut a Verona

Presento una mostra d'arte. Alla Gran Guardia di Verona. Dove - se verificate - è in corso "Verso Monet. Il paesaggio dal Settecento al Novecento". Con opere di Poussine, Lorraine, Van Ruisdael, Van Goyen, Hobbema, Canaletto, Guardi, Bellotto, Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, Caillebotte, Degas, Manet, Van Gogh, Gauguin e Cézanne. Però io non presentavo quella. In un grande stanzone dal soffitto altissimo, illuminato con faretti assieme troppo forti e troppo deboli che lo fanno assomigliare alla biglietteria di una stazione ferroviaria, un gruppo di amici generosi e cari immolano i loro giorni prenatalizi alla causa di un ciclo di incontri sulla condizione carceraria (http://www.verona-in.it/wp-content/uploads/2013/12/FRATERNITA-tra-murales-manifesto-1.jpg). Al centro della sala, la ricostruzione filologicamente fedele di una cella per quattro persone, in cui si può entrare e assaggiare la claustrofobia, moderata: perché la ricostruzione non ha il soffitto, e perché è fatta di legno caldo e non di intonaco sordido. Ai lati tanti cavalletti e tanti quadri, dipinti da detenuti e da detenute che han frequentato un corso di Pittura. Questa è la mostra che devo presentare: qualche decina di persone, mentre a qualche metro ce n'è una lunga fila in attesa di vedere i Grandi Maestri, e in piazza Bra impazzano gli ormai onnipresenti mercatini di Natale.

Inizia l' "evento". Un po' di musica: Renato dei Kings. I Kings, hanno inciso con la Durium i Kings. Cinquant'anni fa.  Renatodeikings. Viene così presentato: Renatodeikings unmitounaleggenda. Non scherzo. Morandi, Dik Dik, Equipe 84, Jimmy Fontana (il mo-ooondo, non si è fermato mai un mome-e-e-e-e-nto). Musica che si sentiva quando ero appena nato. renatodeikings si esibisce appollaiato su una postazione da one-man-band - senza che gli venga fatta neppure la carità di un abbassamento di luci - con davanti un amplificatore e un pc su cui scorrono, tipo karaoke, le parole delle canzoni. Poi in serie vengono lette: una poesia bellissima di un detenuto di Volterra, una conversazione con Ho Chi Minh, una terribile lettera di Gramsci, e viene recitato - benissimo - un monologo in romanesco sul carcere di Alessandro Mannarino. "E ora si presenta la mostra d'arte". Tocca a me. Sono nel posto giusto, altro che i sussiegosi paesaggisti della porta accanto...

Quel che segue è la trascrizione del mio intervento:

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Non sono un artista, non sono un critico, non sono un intenditore d’arte, e non so neppure disegnare. Inoltre non sono un giurista, non sono un operatore o un volontario nel carcere. E questa è una mostra di arte realizzata in carcere. Rimangono quindi per me piuttosto misteriose le ragioni per cui Arrigo ha voluto che fossi io a presentarla.
Il mio ‘avere a che fare’ con l’arte è comune a tanti: frequentarla, come e quando posso, in modo ingenuo, non colto, non raffinato, fa parte dei modi di nutrire la mia vita, come direbbero i saggi del Daoismo. Proprio qualche giorno fa mi trovavo in Università e ho sentito proprio nel corpo che mi mancava la bellezza, proprio la bellezza artistica, ed era una sensazione strana, di deprivazione, come se mi mancasse lo zucchero o i sali minerali e facessi fatica a camminare. Allora ho lasciato lì le cose che avevo da fare e mi sono precipitato a Palazzo Reale (che a Milano è il luogo dove si tengono le principali mostre), e non sapevo veramente neppure cosa andare a vedere, poi ho scelto Rodin, e per qualche ora mi sono abbeverato alle sue forme, ai marmi che lui rende luce liquida.
Il mio ‘avere a che fare’ con la Giustizia si limita all’aver condiviso – fin quasi dal suo inizio, in Italia – l’esperienza della mediazione, e particolarmente di quella fra reo e vittima. Di avere visto e ascoltato tante storie, di avere visto e ascoltato tanti volti, tante parole, di avere incontrato tanta sofferenza, di essere stato testimone di tante trasformazioni. Ho con incoscienza accettato la proposta così, senza pensarci troppo: mi metterò davanti a queste immagini, provando a essere vuoto. Come accade in mediazione: il mediatore siede con il reo e con la vittima, silenzioso, impotente, vuoto, inutile, solo “testimoniando” quel che avviene tra coloro che la sofferenza e talvolta la tragedia di un conflitto tengono legati l’uno all’altro.
Sì, proverò a mettermi così davanti a questi quadri, con gli occhi e la mente e il cuore vuoti, lasciando che i colori e che le forme entrino, tocchino, commuovano, scompiglino, turbino, chiamino, richiamino, piangano, ridano, danzino, pretendano, gridino: sì, gridino. Dando loro spazio, lo spazio che chiedono, lo spazio che meritano. E’ ciò che faccio quotidianamente in mediazione, con quelle particolari opere d’arte, tutte rivelanti la mano di un artista ignoto ma divino, che sono gli esseri umani.

Ho raccontato della mia piccola esperienza di deprivazione di bellezza.
Nel 1912, cento anni fa, il pittore allora ventunenne Egon Schiele fu arrestato e rinchiuso per 24 giorni nel carcere di Neulengbach, vicino a Vienna. L’accusa era di aver sedotto una ragazzina quattordicenne e di aver esposto materiale pornografico in un luogo accessibile ai minori. Dopo la sua morte (morì a 28 anni) venne pubblicato il suo diario relativo alla permanenza in carcere, su cui da sempre pesano dubbi di autenticità, ma in questo momento a noi non importa.



Scrive Egon Schiele:

Finalmente! – Finalmente! – Finalmente! – finalmente un sollievo alla pena! Finalmente carta, matite, pennelli, colori per scrivere, per disegnare. Le ore confuse e desolate erano un tormento, quelle ore uguali, informi, noiosamente grigie, che dovetti trascorrere tra mura fredde e nude, spogliato di tutto come un animale
Un uomo più debole interiormente sarebbe subito impazzito e anch’io sarei diventato pazzo se avessi dovuto continuare ancora a lungo in quello stato di continua ebetudine. Perciò, nella condizione in cui mi trovo, sradicato con violenza dal mio terreno creativo, con dita tremanti inumidite nella mia saliva amara, mi sono messo a dipingere per non impazzire del tutto. Servendomi delle macchie dell’intonaco ho creato paesaggi e teste sulle pareti della cella, poi osservavo il loro lento asciugarsi fino a impallidire e sparire nella profondità del muro, come fatti sparire dall’invisibile potenza di una mano incantata.
Ora per fortuna ho di nuovo il materiale per disegnare e scrivere; mi è stato restituito perfino il mio pericoloso temperino. Posso dipingere e così sopportare ciò che altrimenti sarebbe stato insopportabile. Mi sono sottomesso e umiliato per averli, ho chiesto, pregato, mendicato, avrei anche piagnucolato se non ci fosse stato altro modo 

Dentro da pochi giorni, Schiele sente acutamente la deprivazione, che nel suo caso non riguarda solo la fruizione della bellezza, ma la possibilità di generarla, di crearla.
Nel Diario ci sono parole molto chiare a proposito dell’assurdità e della disumanità della detenzione, ma non voglio impigliarmi in questo. Vorrei piuttosto riportare altre frasi.

Ho dipinto il letto della mia cella. In mezzo al grigio sporco delle coperte un’arancia brillante che mi ha portato Vally è l’unica luce che risplende in questo spazio. La piccola macchia colorata mi ha fatto un bene indicibile.

Io sono incarcerato, rinchiuso – non mi posso muovere, non posso far nulla – e fuori è primavera, la terra scusa e umida spande il suo profumo, la linfa sale, si dischiudono i primi fiori! Vorrei fare un giro a piedi verso prati pieni di fiori variopinti e sotto arbusti fioriti ascoltare il canto di piccoli e graziosi uccelli dagli occhi luccicanti come gemme incastonate o gocce di smalto colorato.

Ho sognato Trieste, il mare, posti lontani. Nostalgia, ardente desiderio! Per consolarmi mi sono dipinto una barca panciuta e colorata come quelle che dondolano sull’Adriatico. E con essa la nostalgia e la fantasia possono veleggiare in mare aperto, verso isole lontane, dove uccelli rari scivolato tra alberi inimmaginabili e cantano. Oh, mare!

Ecco, di frasi come queste, scritte dagli autori a commento delle loro opere, ne troverete molte. Gli autori che qui espongono – indipendentemente dal loro talento che, lo ripeto, io non sono in grado di valutare – sono tutti in spirito confratelli di Egon Schiele, nel senso che hanno attraversato come lui questo genere di esperienza.

Quando un mediatore ascolta un conflitto, cercando di sentire nel profondo le persone che ha di fronte nelle parole e oltre le parole, a volte restituisce con una brevissima frase quel che ha sentito.

1. In questi quadri io ho sentito la vita e la morte. Che sono questione di vita o di morte.

Cerco di spiegarmi. Ciascuno di noi, forse, ha una vecchia zia, e forse disgraziatamente qualcuno di noi è una vecchia zia con l’hobby della pittura. Senza far niente di male, mentre i nipoti sono altrove, riempiono le ore vuote dipingendo sulla tela l’albero di melo nel giardino. Poi – ahimé – lo regalano a Natale e tu devi fingere di apprezzarlo. Che vuoi, ho l’hobby della pittura, ho fatto anche il corso del Comune, dice fiera la vecchia zia.

Qui c’è un corso e c’è la pittura: ma non si tratta di un hobby, di un passatempo. Si tratta – semmai – di una passione (nel senso duplice di sentimento intenso, potente trasporto e di sofferenza), di qualcosa che sporge sull’anima e che chiede di essere dato alla luce, alla forma, al colore. Il maestro Caldana [l'insegnante del Corso] è stato ostetrico (ossia colui che sta davanti – ob-stare – per servire) di questi parti creativi, educando, esortando, incitando, seguendo, trepidando.

C’è un travaglio e c’è un parto, perché in gioco – come nel caso di Egon Schiele – c’è la propria vita anche da rinchiusi. L’alternativa è generare o diventare folli.



2. Poi, ho sentito coraggio.

Il coraggio di esporsi intimamente agli sguardi, pur attraverso la mediazione tipica della creazione artistica. Ognuno di questi quadri è un gettare la maschera. L’arte, grande mediatrice, ci consente di entrare in contatto intimassimo con l’autore. Non è un caso che la categoria di empatia sia nata appunto nell’ambito dell’estetica, a descrivere il sentimento che si prova davanti a un’opera d’arte. Ma l’empatia è anche l’attitudine specifica del mediatore.
Il coraggio del denudarsi esige, da parte di chi guarda, un assoluto rispetto. Mi permetto di suggerire: non guardate questi quadri come si farebbe a una normale mostra. Accogliete invece nel rispetto il denudamento delle anime che si manifesta in forme e colori, e custoditelo nel vostro cuore. Osservate i dipinti, ma lasciatevi anche guardare dentro da loro. Un’opera d’arte è capace non solo di essere guardata, ma di guardare. E il coraggio di denudarsi non sopporta spettatori, ma esige coinvolti: persone cioè capaci di denudarsi a propria volta.

3. Poi, ho sentito la possibilità della libertà.

Tra le tante, tutte bellissime, frasi che accompagnano queste opere, ne cito – considerato il tempo a disposizione – solo una (ma vi esorto a leggerle tutte):
Ragazza con capelli neri: Ti avevo persa entrando in cella, ma ti ho ritrovato al corso di pittura.
E’ una frase semplice, ma di tale profondità che è difficile aggiungere qualcosa. Chi è chiuso in carcere perde tutto il prima (per usare un’espressione di Adolfo Ceretti)– e abbiamo sentito il grido di Egon Schiele – e in questo caso ci viene detto che è l’amore ad essere perduto, l’amore per o di una ragazza dai capelli neri. Ma ancora una volta l’arte ne media il ritrovamento, così che pur nella reclusione chi ha scritto questa frase ha compreso che non gli è negata la via della profondità, e che seguendo questo cammino tutto, in qualche modo, è ridato, restituito, ridonato, riparato, anche l’amore perduto della ragazza dai capelli neri.

Cosa fare dunque noi, che artisti non siamo? Pur non detenuti, ciascuno di noi ha dentro di sé il medesimo grido: di vita-e-morte, di coraggioso desiderio di denudarsi e finalmente esistere come noi stessi, di libertà. Forse dobbiamo metterci alla ricerca di un nostro ostetrico, non necessariamente il maestro Caldana, non necessariamente la pittura. E anche se non abbiamo alcun talento – come me, per esempio, che non ho alcun talento artistico – rimane il compito di rendere arte la propria vita.



Scrive la filosofa veronese Adriana Cavarero:

Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. “Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?”, si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere. il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso? 

E Picasso, in modo meno ingentilito della baronessa Blixen, scriveva: Se si segnassero su un foglio tutti i punti per i quali sono passato e li si unisse con un tratto, forse si otterrebbe un Minotauro.

Minotauro o cicogna, rimane per tutti il compito di dipingere con i pennelli del proprio corpo, anima, spirito, con i colori delle proprie emozioni e dei propri valori, un disegno che spesso rimane misterioso a noi medesimi (si cade, e si inciampa, ma retrospettivamente ci si accorge che proprio questi sono i punti di espressione del disegno, e talvolta i suoi punti di bellezza).

Proprio in questi giorni ci è dato di contemplare il disegno meraviglioso composto dalla lunga, intensa, oso dire felice vita di una persona che ha trascorso gran parte di essa chiuso in una cella di due metri per due a Robben Island. Quest’uomo è Nelson Mandela, che – sul livello in cui parlo, che non è quello delle personali responsabilità – è confratello degli uomini che con coraggio esprimono loro stessi pur reclusi nelle esteriori prigioni, e di tutti noi che tentiamo di esprimere noi stessi con la vita, pur reclusi nelle nostre interiori prigioni.

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Ci sono poi altri interventi: studiosi di diritto penale, un gesuita.

L'evento finisce: ma Renatodeikings non si tiene, recupera la posizione e si lancia in un personale e solipsistico autokaraoke. Gente un po' spersa. Freddo fuori, e anche un po' dentro. Proprio vicino alla porta questo quadro. Un detenuto ha preso il lenzuolo con cui un suo compagno di galera si è impiccato, ne ha tagliato una striscia, ne ha fatto un quadro, una sacrasindone di non risorti, o non ancora, e accanto i nomi e le date.


martedì 3 dicembre 2013

Indechiffrable - Una storia perversa

Questa è una storia in cui chi indossa l’armatura è più vulnerabile di chi ha solo un golfino. E’ una storia in cui le immagini dicono il contrario delle parole, ma tutte e due dicono in fondo la medesima cosa. E’ una storia in cui le labbra parlano in un modo ma baciano in un altro. E’ una storia in cui corpi, intenzioni, speranze vivono capovolte e muoiono dritte. E’ una storia in cui Ares e Afrodite si scambiano le parti, ma la loro prole rimane sempre la stessa. E’ una storia in cui per comprendere il comportamento di una contestatrice ventenne bisogna chiedere a un vecchio rabbino chassidico del settecento. E’ una storia in cui uno stolto mercante vende per pochi soldi il Fiore di ogni Fiore e alla fine guadagna ciò che nessun altro ha avuto mai. E’ una storia perversa.

“Quel che hai scritto è orribile, sì, orribile. Disgustoso. E, se proprio devo dirla tutta, anche un po’ perverso.” Perverso? dico pensando al mio cinguettio serale, e ora sono le tre di notte. “Perverso. Un gesto è fatto per esprimere un sentimento e viene usato per dire il suo opposto: e questo, anziché respingerti, ti eccita. Sì, perverso. Ti sarebbe piaciuto anche il bacio di Giuda.” Fingo di prendermela ma sotto-sotto gongolo. E’ perverso gongolare quando ti viene detto che sei perverso?

[Mi sarebbe piaciuto anche il bacio di Giuda. Vero, mi piace. Mi piace che non abbia usato uno schiaffo per far capire alla canaglia quale fosse il Maestro. Mi piace perché è uno che non sa fare buoni affari, baciando. Judas, mercator pessimus / osculo petiit Dominum / ille ut agnus innocens / non negavit Judae osculum. Giuda, pessimo mercante, chiese un bacio al Signore, ed egli – agnello innocente – quel bacio non glielo negò. Non gli ha negato il bacio, Da nessun altro il Signore fu baciato, se non i piedi, da Maria. Mi piace perché alla fine, pur mercator pessimus, guadagna quel bacio, come  la donnina qualunque (ma ottima mercantessa) che con un bacio al matto ottiene un disegno di Antonio Ligabue – guardatelo su http://www.youtube.com/watch?v=B5kAhWA-Bko da 8.35 in poi, anche se non c’è l’audio – ed è diverso e forse opposto ma sempre questione di baci estorti e doni immeritati.]

L’accusa di perversione trova il suo fondamento su un mio tweet. Un commento alla foto in cui la ragazza militante no-tav cerca di baciare il poliziotto in equipaggiamento antisommossa, e il commento diceva: Solo io trovo più sexy il "bacio d'odio" che il bacio pacifista? Come ormai tutti sappiamo, lei non era una figlia dei fiori, non aveva forse mai sentito la canzone dei Giganti (Mettete dei fiori nei vostri cannoni perché non vogliamo mai nel cielo / molecole malate, ma note musicali che formano gli accordi / per una ballata di pace) e non voleva portare a compimento quanto accaduto a Washington nel 1967, a Isfahan nel 1979, a Seul nel 1987, ancora a Seul nel 1993, a Giakarta nel 1998, a Seattle nel 1999, ancora a Washington e a Montréal nel 2000, ad Halifax nel 2002, a Losanna e a Cancun nel 2003, a Kiev e a Brunswick nel 2004 a Baku e a Beirut nel 2005, a Lione nel 2006, a Rostock e a Islamabad nel 2007, in Minnesota e a Atene nel 2008, a Londra nel 2009, a Roma e a Toronto nel 2010, a Madrid e a Sanaa nel 2011, tutto un dolce rosario di fiori colorati infilati nelle canne dei fucili, cosparsi sui caschi e sugli elmetti e inghirlandati attorno alle bandoliere e alle baionette, no, non voleva superare tutti in un Valdisusa 2013 offrendo il fiore della propria bocca. Voleva al contrario esprimere disprezzo e odio. Almeno così ha dichiarato lei. E giù centinaia e centinaia di battute di commentatori e cronisti e corsivisti a dire che peccato, che tristezza, che delusione, come sarebbe stato più bello, più giusto, meno perverso – appunto - se.

Fossi in loro ci andrei piano con una che si chiama Nina De Chiffre, e come tale fin nel nome è indechiffrable.

E’ la situazione tutta ad essere indechiffrable. Un jackpot di simboli, a partire dal trivellone che sventra la montagna, uno stupro geologico. Il potere maschile romano contro la fiera dolcezza valsusina, occitana, provenzale, montanara; il cantiere contro le montagne innevate, le ruspe contro la Sacra di san Michele e l’abbazia di Novalesa; i camion contro l’aria pura di montagna.

Poi c’è questa ragazza di vent’anni, ninadechiffre in arte Jasper Baol, che nel suo profilo Facebook pubblica foto belle e intriganti, e tra di esse una in cui, nuda, esce dalla spuma marina (aphros): tanto per dichiarare ufficialmente e quasi anagraficamente che è una dea, e quale dea. Si avvicina a un poliziotto venticinquenne dal volto angelico e mite, alto, immobile, catafratto di nero e di blu. Prova a baciarlo, e non riuscendoci a causa della celata, si inumidisce le dita di saliva e – passando sotto la visiera – gli bagna le labbra. Lui chiude gli occhi. E anche lei li ha chiusi. Perché in certi momenti, lo sappiamo bene tutti, gli occhi si devono chiudere.

Ma questa è la prima parte: che dice di un gesto che, per sé, sarebbe imparentato con tutti gli altri gesti floreali, da Washington a Sanaa, solo un po’ più intimo. Ce n’è una seconda. Fatta di parole sibilanti, perfide. Può anche essere che la ragazza si sia pentita del suo trasporto, un po’ troppo ad alta velocità, visto che è di trasporti che si parla e si contesta. Io però non credo. Le parole cattive sono solo l’altra faccia della caccia d’amore, servono a creare quella differenza di potenziale tra i poli perché possa scoccare la folgore erotica. Il bene puro non è amore, è ideologia

[Quando fu vecchio, Rabbi Moshe Haim Efraim (che era niente di meno uno dei figli di Israel ben Eliezer aka Baal Shem Tov, fondatore del Chassidismo) decise di lasciare la città di Sedilkow e di trasferirsi a Mesbiz. Per non farlo andare via i preposti decisero, durante un'assemblea, di aumentargli lo stipendio. Quando lo seppe, egli disse: "Vi ringrazio, perché so che in questo modo voi volete fare una cosa buona per me. Il mio principio però è quello di accettare il bene solo se a esso è legato anche un po' di male. Questo perché al mondo non vi è vero bene, se assieme non c'è anche un po' di male. Ditemi, c'è del male in ciò che avete deciso di fare? " I preposti non trovarono niente di negativo. In seguito a ciò, Rabbi Moshe Efraim andò ad abitare a Mesbiz.]

E infatti il cristianesimo, rispetto a questo punto, un po’ a rischio lo è. Io sono molto grato a quegli evangelisti che ci hanno narrato – per esempio – di quando Gesù si commuove (Iesus ergo fremuit spiritu et turbavit se ipsum, dice quando si trova davanti alla tomba dell’amico Lazzaro: che va onorato non in quanto risorto, ma in quanto pro-vocatore del pianto divino). Oppure di quando si arrabbia (Iesus, cum fecisset quasi flagellum de funicoli, omnes eiecit de templo). Commozione turbamento collera. Meno male. Sperimentando e agendo queste emozioni, le divinizza: quod non est assumptum, non est sanatum, secondo quanto insegnano i Padri a partire da Massimo il Confessore. Occhio al Gesù troppo buono, perché non salva un sacco di cose. Il Buddha di certo non è un bonaccione, ma non si commuove e non si arrabbia, è empatico senza scomporsi, e in effetti trovo il Buddha theravada un po’ a tinte pastello per i miei gusti; il buddismo ah lo preferisco contaminato con l’induismo hard boiled, in cui i Bodhisattva appaiono anche terribili, incazzatissimi, zannuti e unghiuti e danzano furibondi sui cadaveri nudi degli amanti. Mi pare fosse Lanza del Vasto a dire che un dio indiano se non sbrana, se non sbudella, se non taglia un po’ di teste, se non fa qualcosa di splatter, insomma, non può aspettarsi che la gente lo veneri e lo onori e cosparga di burro fuso, fiori e zafferano il suo lingam. Brahma, che pure è il principio cosmico supremo, non ha templi da nessuna parte. Non ha fatto nulla, a parte essere appunto il principe e amarsi narcisisticamente, tanto si ama da farsi spuntare millanta teste per guardarsi (la più alta della quale verrà appunto mozzata dal buon Shiva, dio invece amatissimo e veneratissimo).

Ma torniamo alla nostra indechiffrable Afrodite no-tav.
Ascolto un’intervista alla radio, un programma condotto da due giornalisti da battaglia, bravi a rendere pulp tutto quello che toccano. Lei no però, non ce la fanno. Lei è molto più pulp di loro.
“ Come sta?”
“Questo non è affar suo”, risponde, e la sua voce è veramente di carta vetrata.
“Lei ha detto: Nessun messaggio di pace, anzi questi porci schifosi li appenderei solo a testa in giù, dopo quello che è successo a Marta, la mia compagna molestata e picchiata
“Vero. E quindi? Ad appenderli per il dritto morirebbero.”
“E invece a testa in giù?” cerca di stare al gioco l’interlocutore.
“C’era un riferimento, ma non mi aspetto che lei lo capisca”
“Come Mussolini a piazzale Loreto…”
Silenzio prolungato. Non ha capito nulla. Eppure il giornalista appartiene al popolo ermeneutico per eccellenza, quello stesso del Baal Shem Tov per intenderci. Piazzale Loreto? Ma questo lo penserebbero tutti. E poi a piazzale Loreto mica vengono appesi vivi, i due. Andiamo. Io sarei andato a cercare piuttosto nella Philosophie du Boudoir. Avrei immaginato una pratica di bondage estremo. Perché ridurre subito una magnifica risposta (ad appenderli per il dritto morirebbero) a ideologia? Ma si sa, io sono perverso.
“Precisamente” sbadiglia alla fine lei. Ha ragione: non ha senso sprecare queste perle. Sia dato al cretino quel che vuole. Comportarsi come una sex worker? Ma se lo sanno tutti, fin dai tempi di Pretty Woman, che le sex workers fanno qualunque cosa except kissing on the mouth.

Poi certo, ci sarà anche stata veramente un po’ di voglia di morte. L’ indechiffrable è Afrodite, ma Afrodite Areia, sposa di Ares, guerriera anch’essa. E si sa come si chiamano i figli: Phobos (paura), Deimos (terrore) e secondo alcuni anche l’iti-mega-fallico Priapo. Poi anche Armonia.

Inoltre il povero ragazzo è in armatura. “Alle dame si consiglia – dice Agilulfo, il Cavaliere Inesistente di Calvino – come la più sublime emozione dei sensi, l’abbracciarsi a un guerriero in armatura.” (Every woman adores a Fascist, / The boot in the face, the brute / Brute heart of a brute like you  direbbe in altro modo – non fiabesco e terribile – la poetessa Sylvia Plath) “Bravo” continua in Calvino la vedova Priscilla “lo vieni a insegnare a me!” poi si arrampica su di lui e prova uno dopo l’altro tutti i modi in cui un’armatura può essere abbracciata. E quando l’intrepida Bradamante se ne innamora a sua volta, e i commilitoni la pigliano in giro “Ma se lo spogli nudo, poi, che acchiappi?” lei ribatte “E non credete che io sia talmente donna da far fare a qualsiasi uomo ciò che deve fare?

Ecco, “talmente donna da far fare a qualsiasi uomo ciò deve fare” E cosa deve fare un uomo? Per prima cosa, naturalmente, esistere. Indechiffrable così tanto donna – a dispetto delle e grazie alle sue parole anche ostili -ha reso esistente il Cavaliere Inesistente. E contemporaneamente l’ha spogliato. Insomma gli ha restituito il corpo.

Qualche giorno dopo sono andato a vedere la mostra di Rodin a Palazzo Reale, quei marmi liquidi e luminosi. C’è il celeberrimo Bacio. Quei due, sospesi tra esitazione e travolgimento, sprigionano il loro splendore sulla soglia della dannazione. E, se il Dante poeta vien meno di pietade, il Dante teologo (come direbbe il De Sanctis) li spedisce all’Inferno.

C’è un po’ tutto in quel bacio, in ogni bacio, a saperlo sentire. Tutto un concilio di dèi gloriosi, dispettosi, solenni, feroci, malandrini, terribili, languidi, misteriosi, splendenti, tutto un concilio di dèi, specie quando viene convocato da due ragazzi bellissimi messi dai divini giochi di Dio su parti avverse a far scoccare scintille. Di vita, di morte, di miracoli.




lunedì 25 novembre 2013

[Un anno dopo] Eros in esametri ultraortodossi - "La sposa promessa"

November 25, 2012 at 4:32pm

Tel Aviv non si vede mai. Se non si sapesse che si è lì, non si capirebbe. Potrebbe essere un quartiere di ebrei hassidici di dovunque nel mondo: a Parigi, a Chicago, a Gerusalemme. Tel Aviv, la città della spensieratezza israeliana, del lungomare, della musica, della cultura d'avanguardia, dell'amore, e del tentativo di dimenticarsi che si è ebrei, non si vede mai. Una volta si sente: quando, dalle finestre aperte sulla strada, entra il rumore dei woofer e delle risate di Purim. No, Tel Aviv non si vede mai, ma non per questo non c'è, anzi, ciò che non si vede e si cerca di non vedere è inevitabilmente rimosso destinato a ritornare: laddove chi vive a Tel Aviv è forse più 'ebreo' degli ebrei di Gerusalemme.

La diciottenne Shira vive nell'enclave hassidica di Tel Aviv, appunto, dove se una ragazza a ventun anni non è sposata sia lei che il padre si cominciano a preoccupare seriamente. Non essere sposate, non essere state 'prese' da qualcuno, è un'umiliazione che si sconta ogni giorno: ed è il caso della cugina Frieda, bella ragazza dai capelli rossi (che, essendo non sposata, non copre col tichel), un 'diamante' di tenerezza che però nessuno sembra volere: ciò scava di giorno in giorno sotto i suoi occhi delle rughe di sofferenza (ad ogni festa tutti le dicono 'che tu sia la prossima' e non accade mai), e che alla fine però sarà presa anche lei da un anziano vedovo dallo sguardo buono. In quel quartiere gli uomini indossano lunghi cappotti neri, tallit con tzittzit e gli shtreimel, caratteristici cappelli di pelo di certi askhenaziti oppure larghi borsalini neri, mentre le donne hanno calze spesse e coprenti e gonne a pieghe ben sotto il ginocchio, e camminano cinque passi dietro agli uomini. Tutto orbita attorno al rapporto con un D-o onnipresente e incomprensibile, che pervade le esistenze suscitando una devozione folle e danzante che però è chiamata ad esprimersi attraverso osservanze letterali e apparentemente nevrotiche. Proprio questa è, a mio parere, la chiave del film. Una passione travolgente può essere declinata nella metrica rigorosissima delle osservanze hassidiche. Eros non soltanto non è cacciato, ma assume precisamente quel ritmo per cantare il suo canto. Nonostante i colbacchi, i veli, i cernecchi, nonostante le prescrizioni, nonostante le famiglie invasive fino all'assolutamente inverosimile.

Shira, accompagnata dalla madre Rivka (campionessa mondiale del double binding e del ricatto affettivo), intra-vede il suo promesso sposo mentre sceglie uno yogurt in un supermarket kasher. E' un bel giovane biondo, dai lunghi payot ben arricciati. I grandi occhi della ragazzina si illuminano, e la madre è contenta. Solo il padre temporeggia. Fatto è, che l'Onnipervasivo ha altri progetti. Ester, la sorella maggiore di Shira muore dando alla luce il piccolo Mordechai. I parenti siedono in lutto, le comunità li visita e gli augura Hamakom y'nachem etkhem b'tokh sha'ar avelei tziyon viyrushalayim, [L'Onnipresente vi conforti fra i dolenti di Sion e di Gerusalemme], mamma Rivka si spupazza il neonato e se ne innamora. Il lutto finisce, e il contesto preme perché Yochai - il padre del bimbo - si risposi. Si fa strada l'idea che sposi una antica sua conoscenza e vada ad abitare in Belgio. Trema la nonna alla sola prospettiva di perdere il nipotino, e pur di evitarla farebbe tutto, sacrificherebbe tutto. In questo caso la vittima è pronta e vicina: proprio Shira, che viene proposta al più maturo Yochai.

Più oltre non spingo il racconto, perché non c'è. C'è invece - appunto - un magistrale cogliere la trama delle passioni sull'ordito delle osservanze, l'accadere del desiderio, della paura, del subbuglio, delle farfalle nello stomaco, dello slancio, della ritrosia, della tristezza, della solitudine, della separazione, della distanza e della vicinanza: e tutto secondo passi di danza tassativamente regolati. Ogni tanto qualche perla. Shira che suona la fisarmonica per far danzare i bambini in un asilo, e, smarritasi improvvisamente nel sentire il dolore, vira senza accorgersene in una melodia struggente. Un vecchio Rebbe dalla barba bianca, a cui la famiglia si rivolge per dirimere la questione, e che cita Nachman di Breslav ove dice che il Signore id D-o si compiace se nell'arco di una vita un uomo riesce a dire una parola autentica, e che lascia ad attendere tutti per dare consigli a una vedova a proposito del numero dei fuochi e dell'altezza di una cucina che deve comperare.

Poi finalmente le nozze, tremante la sposa vestita di pessimo gusto, affranto lo sposo sostenuto dagli anziani, attorno canti che non si sa siano di gioia o di pianto. perché così è per gli ebrei, non si capisce mai, l'una cosa vira sempre nell'altra e forse per questo sono il Popolo amato dall'Altissimo.

Ultima, straordinaria, brevissima, necessaria scena. I due sposi entrano in casa, lei si toglie il soprabito, lui appende lo shtreimel all'attaccapanni. Si guardano dagli angoli della stanza. Ancora  l'accadere del desiderio, della paura, del subbuglio, delle farfalle nello stomaco, dello slancio, della ritrosia, della tristezza, della solitudine, della separazione, della distanza e della vicinanza. Ma questa volta non cornici di famiglie o di riti a difendere e a indicare i passi da danzare. Solo, forse, D-o. L'Onnipresente onniassente.




sabato 23 novembre 2013

[Un anno dopo] Dannata Firenze (note su 'Salviamo Firenze' di Luca Doninelli)

Venezia 22 novembre 2012, 11.52

Premetto che il libro di Doninelli è bellissimo, e regala a fiorentini e non una prospettiva straordinariamente acuta e originale su Firenze, le sue origini, il suo presente, la sua sorte. Lo fa - inoltre - utilizzando un genere letterario in qualche modo unico, che incrocia il saggio con il romanzo, la poesia, l'autobiografia, la dichiarazione d'amore, l'invettiva, l'assurdo, che in qualche modo mi ha ricordato 'La scomparsa di Israele' di Alessandro Schwed. Altro fiorentino, guardacaso. Sì, è un libro bellissimo, e io l'ho letto tutto a Venezia, e anche questo ha il suo perché. Leggevo di Firenze, che è la mia città, da Venezia, che è per diverse e indicibili e intimissime ragioni ancor più profondamente mia, mia di me
naturalizzato milanese, e che ora vive a Milano solo col corpo, perché mente, passioni, anima e spirito sono tutti in Israele, in Russia, in Birmania, altrove, chissadove.

Però devo ritrattare il mio primo moto d'esultanza: quando, avendo letto le prime righe, ho pensato che il mio odio per Firenze avesse trovato il suo 'autore'. Non è così: Doninelli non odia Firenze. La ama disperatamente, ahimé. Scagliandole addosso giudizi pesantissimi, come ogni innamorato deluso, ma la ama. Dovevo accorgermene dal titolo, esortativo, che chiama a salvare Firenze, come se fosse ancora possibile. Come se Dio non avesse provato a distruggerla in modo onorevole con l'Alluvione del '66 (e io avevo quattro anni, la mia casa fu interamente sommersa dalle acque nere, e molti ricordi mi restano), ma essendo intervenuti gli angeli del fango (uno dei quali fu Pierluigi Bersani, oddio, che ora rivendica e sbandiera la sua azione salvifica dicendo che alla stessa età il suo attuale contendente fiorentino giocava con Mike alla Ruota della Fortuna e comprava le vocali), essendo intervenuti gli angeli del fango, dicevo, - e si sa, Thomas Mann lo dice molto chiaramente, gli angeli, anche quelli cosiddetti buoni, non sono mai andati tanto d'accordo con il Signore Iddio - ha portato a compimento la sua sentenza mediante lo squallore. Non c'è più niente da salvare, Doninelli. Firenze è morta. Rest In Peace.

Non basta, per resuscitarla, applicare la scossa elettrica defibrillante delle tue idee geniali e bizzarre (in ordine: abolire il sottopasso tra le due Sante Marie Novelle, realizzare un Museo della Città, commissionare a un'archistar il rifacimento di piazza della Repubblica, affidare a un giovane architetto la facciata di san Lorenzo, cedere il David di Michelangelo al Louvre (non ci crederete, ho dovuto correggere, avevo scritto: a Lourdes), cedere palazzo Strozzi alla Apple, acquistare il teschio di diamanti di Damien Hirst e installarlo permanentemente sul tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo, e per finire con il trasformare la città in un'immensa casa di riposo per intellettuali dolcemente affetti da demenza senile, che a colpi di scalpello e martello potrebbero distruggere il Corridoio Vasariano). No. Come nei telefilm di medici di pronto soccorso, il corpaccione di Firenze certo sussulterebbe, scosso dalle scosse, ma ricadrebbe inerte sulla barella. Perché non 'la stiamo perdendo', Firenze. L'abbiamo già persa. Non c'è ER, non c'è Doctor Home (ehm, House) che tenga. E Doninelli non se ne fa una ragione.

Una delle idee forza del libro è che Firenze non è la culla del Rinascimento, ma la madre dei Rinascimenti (passati, presenti e futuri). "Una madre è il contrario di una culla", scrive. "Una madre può disconoscere il figlio, ucciderlo, oppure semplicemente non comprenderlo. Una madre può impedire al proprio figlio di diventare quello che è, può rovinarne il volto reale a furia di volerlo sostituire con il volto che lei si immagina."
[e mi chiedo, non è questo divorare il Figlio da parte della Madre, impedirgli di avere un volto compiuto e autonomo, ciò che Michelangelo ha espresso, novantenne, nella Pietà Rondanini?]
Continua Doninelli: "Una madre è responsabile, perché sa che il figlio, una volta nato, si allontanerà da lei, e se vorrà mantenersi prossima a lui dovrà trattarlo come si tratta un altro, come un 'io' in faccia a un altro 'io'. Il figlio è tale perché è fuori dalla madre. La culla, viceversa, è una temperatura, è un microclima che avvolge chi è nato piegandosi su di lui, come un prolungamento del ventre materno,così che il nato viene sempre richiamato da questa parte della nascita, quasi risucchiato nell'inazione, nel calduccio adatto al riposo, dove non si sa in quale punto finisca la madre e cominci il figlio, dove 'tu' e 'io' si confondono in una generale sonnolenza. La culla mantiene l'essere in questa sospensione, in questa non-nascita, in questa negazione dell'altro. E' al posto di madre che Firenze deve aspirare"

La culla non muore. La madre a un certo punto muore, è morta, va sepolta. Non si può convivere col cadavere della madre, come si legge talvolta di qualche pazzo in un trafiletto di nera. Si smontino i monumenti, dal battistero alla stazione di Michelucci, pietosamente, fra le lacrime si smontino. Si collochino smontati in un caveau immenso predisposto, non so, nel deserto nel Nuovo Messico o dell'Arizona. Si mettano al loro posto delle copie di cartongesso, realizzate da una azienda giapponese o cinese, tanto per dare agli occhi il contentino di ciò che han già visto. E si trasformi "Firenze" nel più grande outlet village del pianeta. I fiorentini, vedrete, saranno contenti.

"Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più." (Pasolini)

martedì 12 novembre 2013

[Un anno dopo] Atman e Brahman - Tiziano a Venezia

7 novembre 2012. ore 14.26

Da fiorentino – come spesso ho detto – detesto Firenze e la rinnego, e potesse scendere un fuoco dal cielo e consumarla con tutti i suoi figli, quelli residenti e quelli dispersi sul pianeta, incluso me stesso, certo, ma per ultimo, perché per favore voglio almeno assistere. Ah come godrei nel vederla lì distesa, tra i colli di Fiesole e il Valdarno, trasformata in un calderone ardente e fumante e bestemmiante, come mi gusterei – appena prima di intizzonirmi felice me medesimo – quel piccolo e povero dayafter provinciale, e saiquantomenefregherebbe degli Uffizi, del belsanGiovanni, dell’Angelico, di Michelangelo. Crepino i fiorentini e crepitino nelle fiamme i monumenti. Cenere cenere cenere.

Invece Venezia – in sé, ovvio, altrettanto banale e in quanto tale meritevole di fuoco, o meglio di annegamento (e ci sarà pure e certamente un confratello apocalittico veneziano che lo desidera e che prega per questo) - è per me soggettivamente sempre incanto e meraviglia, mistero miraggio miracolo mistica mimesi miele minaccia mirabolanti visioni. E’ sempre iniziazione. E’ sempre spalancamento. E’ sempre stravedamento.
E a Venezia lunedì c’era tanto sole, e c’era ancora un poco di acqua alta, e i veneziani se ne andavano tranquilli con i loro stivaloni ascellari, e i turisti invece si affollavano sulle passerelle piazzate lì dai netturbini, e l’acqua ricopriva il pavimento dei ristoranti cinesi e dei negozietti di maschere, e diligentemente e rassegnatamente e rispettosamente e quasi gentilmente veniva scopata fuori: l’acqua del mare, l’acqua della laguna verdecupo, scopata fuori lei che è la vera Signora.

Girovagando per il sestiere Castello, per il solito caso e per la solita necessità, serendipicamente mi trovo nel palazzo Grimani di santa Maria Formosa. C’è la temporanea esposizione di una tela restaurata di Tiziano, appartenente al ‘trittico’ della sacrestia della Salute: tre conflitti, Caino e Abele, il legamento di Isacco e questo appunto: Davide e Golia. Ma prima è imposto al visitatore un percorso – e dico ‘al visitatore’ non usando un gergo da guida turistica, ma perché questa volta c’ero in pratica solo io – un percorso, dico, sorprendente, inquietante e bellissimo. Si passa per stanze prevalentemente vuote, dai muri bianchi e dai soffitti deliziosamente decorati. Ogni tanto capolavori. Non si può non iniziare con l’atto di hybris che commise Psyche lasciandosi onorare come una dea, e che le costò la gelosia di Afrodite, ma infine anche l’amore di Amore, e in aggiunta dolori e cammino e compimento e oscurità e luce;  poi c’è la stanza di Callisto, che è una stanza dedicata alla trasmutazione, ove la ninfa amata da Zeus – che per poterla amare si muta in Artemide  la signora delle belve –  si trasforma in Orsa, la costellazione che mai tramonta. E poi la tribuna, che è un delirio classico, un sogno geometrico, e letteralmente sospeso nel cielo e tra la luce che discende dalla cupola ecco Ganimede, giovanetto anch’esso amato dall’infaticabilmente erotico Giove, ghermito e portato in alto dall’Aquila divina. E la misteriosa frammentata Nuda del Giorgione. E i pannelli di Hyeronimus Bosch, visioni gnostiche di inferni dai sinistri bagliori e paradisi in cui Dio è puro abisso di luce – l’’occhio liquido, rotante’ di Luzi nella sua Dormitio Virginis, e alla fine la stanza del Davide e Golia.

Golia è immenso, nudo, rovesciato, a braccia aperte, e se non fosse per la possanza dei muscoli potrebbe sembrare il Cristo mentre viene confitto sulla croce. Ma la grossa testa è spiccata dal busto, e il collo mozzato e sanguinante è ben definito. Il capo reciso, livido, dalla fronte ferita e corrucciata, dal grosso naso, dal mento forte, giace a terra nel sangue. Quasi cavalcando il gigantesco braccio sinistro del Filisteo, Davide più che giovinetto, Davide bimbo, la veste sollevata dal vento, è come un tuffo verso l’alto, è una freccia viva e senza volto, il cui bersaglio è il Numinoso, appena squarciatosi di luce. Dominus, qui eruit me de manu leonis et de manu ursi, ipse liberabit me. I due sono, sembrano, un'unica cosa. Cade felicemente la testa corrugata dell’uomo vecchio, balza fuori il puer aeternus e spicca il volo, atman che si riunisce al brahman, atman è la freccia, bersaglio il Brahman da colpirsi senza distrazione, come dicono le Upanisad. Più che una vittoria sembra l’uscita da un carcere, soma e sema, corpo-tomba e lo spirito se ne affranca non senza dolore.

Riesco fra sole e acqua. A duecento metri dal Palazzo degli incantesimi, nella Cattedrale di san Giorgio dei Greci, stanno, sereni, seri, solenni, il Figlio e la Madre. Con gli incorporei che li onorano occupando le vuote stassidie, i due siedono quieti, nel silenzio e nella luce d’oro.

domenica 3 novembre 2013

Blue(tooth) is the coldest colour. Commento a "Vita di Adele"

“Oddio! Oddio!”

La silhouette di una signora magra con i capelli lunghi si staglia contro lo schermo luminoso del cinema. Rispetto a me è (diciamo) a ore due. Nella battaglia navale della sala, io (diciamo)  sono H9, lei potrebbe essere E4. “Oddio!” grida balzando in piedi, e si leva poco più di un brusio di commento.
Mie ipotesi: 1. ha visto un topo, oppure un grosso insetto ronzante le si è posato sulla spalla. Oddio! 2. la persona che le siede accanto si sta sentendo male, o magari è morta, lei si è voltata e ha visto il capo reclinato e il bianco degli occhi rigirati. Oddio! 3. ecco, tre è proprio quanto sta accadendo. La signora, non so come, ha scoperto che il suo vicino di posto è intento in pratiche onanistiche. Oddio! Ma la reazione mi pare esagerata. Infatti l’anziano signore che sedeva in E3 (diciamo), colpito e affondato, si alza e se ne va. Lentamente. Compostamente. Vorrei dire dignitosamente. Sul volto una maschera tragica ma calma. Gli ‘Oddio!’ diminuiscono di frequenza e di volume, ma la signora rimane in piedi, alla fine silenziosa, abbastanza a lungo.

Perché, mentre tutto ciò si verificava, veniva proiettata la lunga e supercontroversa scena di sesso saffico contenuta nel film Palma d’Oro a Cannes. Le Bleu est une couleur chaude. Ossia La vita di Adele, di Abdel Latif Kechiche. Una quindicina di minuti, direi, camera spietata e indagatrice, audio spietato e fragoroso, gli spettatori inchiodati alle poltrone dall’imbarazzo, dal turbamento, dal desiderio, dalla paura. Battono forte i cuori di tutti noi che restiamo nondimeno immobili Tranne il signor cosidddetto porco, che con logica e metodo si dà da fare con il suo attrezzo, e che forse, unico, agisce come il regista vorrebbe. Il cinema sarà pure dedicato ad Apollo l’Obliquo, la sala sarà anche consacrata a Fedra figlia di Pasifae e sorellastra del Minotauro, ma è Pan, il dio mortale, il masturbatore, il violentatore, l’urlatore, a scivolare giù dallo schermo e a prendere possesso della sala. A poco a poco alcuni cominciano a sentirlo. Una ragazza (diciamo) in H5 si alza e ancheggia al ritmo catturante di I Follow Rivers di Lykke Li. Una vecchietta (diciamo) in L12 risponde al telefono a voce alta come fosse nel salotto di casa.

Si dice che nei cinema ‘a luci rosse’ dell’era precedente a Youporn, i vecchietti che li frequentavano – se l’infermiera, il fattorino, la segretaria, l’idraulico o la professoressa si scambiavano alcune battute prima di spogliarsi e passare all’azione – protestassero vivacemente urlando Troppa trama!. All’uscita, fulminante, C – che è dubbiosa sul film, mentre io ne sono entusiasta – commenta: ‘Ah, il film non ha trama. Se l’avesse avuta sarebbe stato perfino peggio’. Infatti il film non ha trama. Tre ore e venti – quasi la durata di un volo tra Milano e Mosca – di meravigliosa, incandescente banalità. Di essa si compiace e quasi si adorna. Perfino nelle scene di sesso non ci viene risparmiato nulla, neppure il romanticume di quart’ordine delle candeline accese sulla mensola. Troppa trama no: poca, niente trama. Ma questo film è il contrario di un film erotico.

La mystérieuse faiblesse du visage d’homme. E’ una delle tante citazioni letterarie presenti in Vita di Adele, in questo caso da Sartre (Moi, j’etais hyper Sartre dans mes années lycée, dice a un certo punto Emma, che è l’altra). Questa debolezza misteriosa Kachiche la protegge avvolgendola di esplicito, di nudo, di sesso brutale. Nel film erotico non-vedere provoca il vedere, in questo film il vedere esige il non-vedere. Questo vedere tutto, questo vedere troppo, esige da chi guarda l’atto pietoso del coprire, del velare, e velando si rivela (ancora una volta) e quindi si incontra la misteriosa debolezza del volto.

Nello specifico il volto che si incontra è quello – incantevole – di Adèle. Volto reso deliziosamente e perennamente imbronciato (anche e specialmente quando sorride) dalla conformazione del labbro superiore inarcato, con in aggiunta uno dei più meravigliosi filtri labiali che Nostro Signore o l’Universo abbia mai creato. Dicesi filtro labiale la nota fossetta tra naso e labbra, che si forma quando la prominenza nasolabiale incontra quella mascellare durante l’embriogenesi: ciò secondo la scienza. Secondo la tradizione ebraica invece è questo il punto su cul alla nascita l’Angelo poggia il dito perché il bimbo dimentichi quel che conosce in quanto anima preesistente e lo rende così pronto per una nuova umana avventura. Insomma, un punto importante, e nel caso di Adèle Exarchopoulos si può francamente dire senza timore di smentita che embriogenesi e angelo dell’oblio abbiano fatto le cose benissimo.

Il volto viene mostrato, inquadrato inquisito, strapazzato dalla cinepresa in mille modi, sottoponendolo a primissimi piani mentre mangia forchettate di spaghetti al pomodoro (e la salsa ricopre il filtro labiale di una patina rosa), mentre succhia ostriche vive che si agitano nel guscio al contatto col limone, mentre bacia ed è baciato, mentre divora ed è divorato, mentre fuma e mentre dorme. Mentre arrossisce quando viene insultato o ritratto. Mentre lotta con dei capelli bellissimi e indisciplinati, capelli vivi che si agitano, si avviluppano, si scompigliano,  si intromettono fra gli occhi e fra le labbra, capelli di Medusa. Mentre è schiaffeggiato. Mentre piange piange piange e le cola il naso, e il filtro labiale si inumidisce. Ma tutto questo assedio di visioni del viso ne conferma la debolezza ma anche l’inviolabilità. Non è questa la via giusta della conoscenza del volto. [Adèle è arabo, e vuol dire Giustizia, dice all’amica: forzando l’etimologia, perché Adil vuol dire Giusto, ma al maschile]

Adèle la vediamo che mangia, danza e fa sesso, poi danza (in modo semplice ma dannatamente sexy), poi mangia. Certo, c’è la storia d’amore, ma è scontatissima, le due si incrociano in strada, lei liceale trasognata, l’altra lei sgamata coi capelli blu (e c’è pure, brrr, il ralenti), l’altra la va a prendere a scuola, lei ha l’immancabile e sensibile amico gay, poi lei takes a walk on the wild side che poi tanto wild non è (son tutti bravi e gentili) e poi fanno sesso, e poi si presentano ai rispettivi genitori, e poi tradimenti e scenate di gelosia, e lei che fa la maestra, e l’altra che fa l’artista e si circonda di fighettame alla moda sottovuoto spinto, e commozione, e patemi d’animo. Ma è una trappola. Questo non è un film sui sentimenti, sulla trasgressione, sulle passioni, sull’eros. E’ un sentiero ingannevole, sembra quello giusto ma vi deluderà, e uscirete sentendo la fatica di tre ore di scontatezza.

Guardando le scene di sesso, e i due corpi bellissimi e bianchi che si attorcigliano in ogni modo senza poter veramente congiungersi, mi vengono in mente due IPad. Ora salterete su e penserete che io sia perverso. No. Va bene: forse un po’. Però, se ci pensate, gli IPad non hanno porte USB, non hanno aperture per CD. Non ci si può ‘infilare’ nulla dentro. La connessione è immateriale, bluetooth, wifi. Una volta avevo appena installato sul mio smartphone un’applicazione chiamata Bump. Funziona così: si condividono dati e documenti facendo ‘scontrare’ (bump!) i telefonini. Stavo quindi divertendomi a  scambiare delle fotografie con la morosa di un amico. Bump, bump. A un certo punto il mio amico interviene: “E piantatela!”. La sua morosa sgrana gli occhioni: “E perché?” Lui: “Ma perché è allusivo!”. Aveva ragione, è effettivamente un po’ allusivo. Adéle e Emma fanno bump. Ma i corpi umani non sono progettati dalla Apple. Della Apple questi corpi hanno la bellezza e la sensualità (penso a F, un amico che ogni volta che vede il mio IPad costretto nel guscio protettivo mi rimprovera quasi fossi un talebano che impone il burqa alla sua splendida moglie, che non è disposto a lasciare esposte e nude le sue forme e le sue curve, a accarezzare le sue superfici che si eccitano e si illuminano al touch e osa perfino ricoprirle con una pellicola trasparente). Ma i magnifici corpi non hanno il bluetooth. Fanno bump e certamente qualcosa succede, però non si possono scambiare veramente cose senza una connessione fisica [particolare non credo inessenziale: curiosamente il film è ambientato in uno scenario tutto analogico: i telefoni sono fissi, non compare mai un computer, gli studenti leggono su libri Gallimard, i bimbi usano gessetti e lavagna]. E Adèle ha come una scossa elettrica quando tocca il pancione di una donna incinta, perché intuisce l’abissale differenza. La promessa di fecondità di un immensa magnolia fiorita è disattesa già in una delle prime scene. Vano e dolce il suo assopirsi accanto a un immenso tronco d’albero, la cui chioma la inonda di foglie. E dolce e vano è il suo tentativo di amplesso col sole, distesa sulla superficie marina nella posizione del morto, col filtro labiale ricoperto di acqua salata.

Lungi dall’essere un bildungsfilm che celebra l’omosessualità, non so quanto volontariamente ne denuncia la costitutiva incompiutezza. Però non è che un rapporto etero colmerebbe tanto di più il vuoto. Sarà perché è mia e la trovo ovunque, ma ho veduto in Adéle un’attesa più grande ancora, infinita. In fondo anche io ho avuto un appuntamento – in un giardino piuttosto segreto – con un’amica pianta che ogni anno in questo periodo mi dona una sua foglia, un piccolo ventaglio giapponese color giallo splendente.

No, non è un film di emozioni, è un film d’essere. Il tema è la generatività e la sua mancanza, il suo rimpianto. (J'ai l'impression de faire semblant, il me manque quelque chose dice Adèle studentessa, mentre legge La Vie de Marianne di Marivaux). L’esito non può essere che l’andar via traballanti, senza voltarsi, dalla terra degli uomini cavi, verso un destino di solitudine.

E allora forse aveva ragione il poveruomo: tecnoantropologicamente un vecchio 286  che, di fronte ai due corpi Apple che facevano bump, ha provato a tirar fuori il suo floppy da cinque pollici e un quarto, ovviamente obsoleto. Ed è stato cacciato.

Oddio!

lunedì 14 ottobre 2013

Pokrov svelata

Sì, sarà anche stata una villa gentilizia un tempo, sarà anche stata tale, anche se è così bizzarro l’edificio, così caotico, così asimmetrico, tanto che neppure dopo anni riesco ad immaginarmene la pianta, lo schema, la planimetria. Sarà stato anche, poi o prima, un monastero carmelitano. Che sia stato un orfanotrofio è già più verosimile. Ma a L, con quei mattoni sconnessi; con quelle arcate vuote; con quelle vetrate in pezzi; con quelle stanze piene di rottami; con quei giardinetti esangui / la vecchietta incappottata / il cagnolino magro d’ordinanza; con la sua malinconia anche nei giorni di pieno sole; con la sua inquietudine che ti aspetta, acquattata negli angoli bui; ecco, fa più l’impressione di un manicomio abbandonato dopo la legge Basaglia. Tanto è vero che la follia di L, in quella grande casa di mattoni rossi, ha trovato la sua casa.

Non solo lei. Cento altri diseredati, erranti, poveracci, cento altri drop out, cento altri marginali sono stati attratti o sono stati costretti in quegli immensi stanzoni umidi. E vi hanno portato le loro poche cose e la loro grande disperazione. Uno di loro portò perfino un piccolo gregge di pecore, che teneva tranquillamente in un appartamento al primo piano. Arrivavano, allacciavano a reti abusive esistenze e fili elettrici. In fondo una cornice ideale per coloro che provano a servire Dio facendone risplendere la Bellezza: nell’immagine, nella parola, nel concetto, e soprattutto nel gesto che lo chiama. Così il manicomio abbandonato – dalla sera del sabato alla domenica pomeriggio – si riempiva di canti. E L accumula ricordi di sere e di mattine, di neve e di gran caldo, di silenzio e di suoni, di intimità e di caos, di frullare e sparpagliare di bimbi e di trascinare e indugiare di vecchi, di digiuno e di banchetti con cibo strano, a volte prima offerto per i morti, e condiviso assieme a un nome, un ricordo chiesto, un sospiro e spesso una lacrima. E ai banchetti intervenivano spesso anche gli altri marginali, ben felici di questa usanza nutriente.

Fatto è che, un brutto giorno, il Divisore rimase colpito da quel punto d’oro, azzurro, luce, desiderio, canti, pianti e preghiera incastonato nel malinconico palazzo di mattoni. Se ne ingelosì, se ne incapricciò, era un niente ma lo disturbava, così decise di spazzarlo via. Indusse nei vicini una brama per le presunte ricchezze della chiesa. Vi fu dunque chi vi entrò e rubò, una, due, tre volte. Nell’indifferenza sonnacchiosa della cittadina di provincia, i fedeli provarono a sbarrare le porte, e a mettere grate alle finestre: non bastò. Ogni volta che lasciavano sole le loro cose care e sacre avevano un tuffo al cuore, per il non sapere se avrebbero potuto ritrovarle ancora. Fu sparsa la zizzania, tra la gente del manicomio rosso trovò spazio perfino la profanazione. Fino a che qualcuno tentò di abbattere a picconate il muro dell’altare delle offerte. E pS si fermò attonito davanti alla ferita slabbrata nel muro azzurro, davanti ai calcinacci sparsi sui santi calici, davanti alla violenza che pareva entrare da quel buco. Pregò, pensò, prese la decisione: dobbiamo andarcene da qui.

E Costantinopoli così bella e regale e così costantemente esposta alle razzie delle navi barbare e saracene. E ecco che una grande flotta slava e pagana proveniente dalla Rus’, con alla testa i terribili Askol e Dir, all’inizio del decimo secolo, minacciò la città regale.E la notte del primo di ottobre la chiesa delle Blachernae, vicino alla costa del Corno d’Oro, traboccava di oranti: una chiesa preziosissima: perché custodiva un’icona capace di straordinari miracoli, forma viva e agente della Madre, la Blachernitissa: ma tra i tesori aveva anche la cintura di Maria, la sua veste, e il suo velo – o maphorion, portati dalla Palestina nel V secolo. Il velo che – immerso nelle onde del Bosforo – aveva già protetto altre volte la sede dell’Impero. E dunque si celebrava la veglia di tutta la notte, e tutta la notte tutti pregavano, e fra tutti il folle in Cristo Andrea, ed Epifane, saggio discepolo della pazzia del Maestro. E questo Andrea era un esploratore dell’Oltre, la sua follia grimaldello per le incursioni fino al terzo cielo, aveva veduto il Cristo, e gli angeli, e i santi, ma ritornando dalle sue straordinarie ascensioni era stupito e un po’ amareggiato: perché Lei, Lei non l’aveva vista.

Vanno via, dunque. Questa gente è gente che sa andar via. Senza far scene, senza far drammi, senza sprecare parole o energie, semplicemente essa si alza e comincia fare i bagagli. Lo ha già fatto in passato, lo farà in futuro. Vengono dalla Romania, dall’Ucraina, dalla Moldavia, dalla Russia: gente semplice e forte; le donne specialmente, le donne sono spesso badanti, donne che si occupano di spirito e di carne, che baciano le icone e puliscono i sederi, che trattano Dio in modo pratico e l’anziano in modo sacro. Ой-ой-ой, un trasloco, uno in più, non fa certo loro paura.
Cominciano per L due settimane di apprendimento. Osservando questa comunità impara la lezione dell’andar via. Perché se loro sanno partire, lui invece non sa farlo e deve capire come si fa. Ha così tanti luoghi di dentro che andrebbero lasciati. Con il medesimo stile, con la stessa dolcezza, con la stessa forza, con la stessa umiltà, con la stessa indomabilità.
La chiesa viene rapidamente, in una sera e una notte, spogliata delle sue vesti. Lavorano sodo: e gli abitanti abusivi guardano con gli occhi lucidi, passano e si commuovono, forse tra i commossi c’è anche qualcuno che ha rubato, certo c’è qualcuno che sa, tanto contraddittorio e ingarbugliato è il è il cuore umano. Le sante icone vengono rimosse, avvolte in bianchi lenzuoli o in carta da pacchi, poi ricoperte con quella pellicola con le bolle d’aria che è così divertente far scoppiare, e infine deposte nelle scatole. E tu, T, che eri in ginocchio nella polvere, e che prima di avvolgere l’icona nella carta baciasti con semplicità il volto del Signore, e vi ponesti sopra una pezzuola bianca, perché non avesse a soffrirne, quale lezione mi hai dato sulla differenza tra l’id e il tu. E tu, N, che col trapano elettrico in mano hai smontato tutta l’iconostasi lasciandone solo lo scheletro di metallo, e dicevi sorridendo malinconicamente: ‘mi ricordo, un anno fa, quanto lavoro per tirarla su, ma sarà quel che Dio vuole’, che cosa mi hai fatto capire sulla differenza tra l’andar via e l’abbandonare. Sì, perché andando via non si abbandona. Non si tratta di un lâcher-prise disinvolto o orientaleggiante, di un’indifferenza azzurrina e nirvanica al fluire inarrestabile degli eventi, ma di uno spezzarsi porpora del cuore sull’obbedienza a Chi ti chiama altrove.

E nella chiesa della Blachernitissa era circa la quarta ora della notte, e Andrea il folle guardò verso il cielo e vide e ne tremò. E ne tremò perché vide la Madre tra i due Giovanni, il precursore e il teologo, l’asceta e l’amato, venire fra gli splendori. E la vide nella chiesa, mettersi in ginocchio sul pavimento, e sciogliersi in lacrime e in preghiera. E era Lei sì era proprio Lei, e splendeva così tanto il suo dolore [Et elle, elle ètait si touchante et si belle, si touchante et si pure, non seulement toute en foie et en charité, mais toute en espérance même, pure et jeune comme l’espérance]. E Andrea il folle è preso da brividi sacri. E poi ecco, Lei si alza, e si avvicina…

C’è chi ha usato per questo avvenimento la categoria dell’esodo, ma non so quanto in modo pertinente. L’esodo è lasciare un esilio per un incerto e difficile cammino verso casa. Qui è la casa ad essere lasciata. Ma lo si fa con stile, e anche con una certa allegria. Un furgone credo rumeno viene stipato di porte regali e aspirapolveri, di turiboli e termos. Portano tutto- mentre ormai è scesa la notte - in un gigantesco magazzino di una fabbrica non più in uso. Il proprietario è un uomo gentile, ma non solo: è anche dotato di penetrante empatia. Dice: sento che per voi spostare queste cose non è solo un fastidio, è anche un dolore. Ricevono grati questo conforto di parole, com’è sempre quando esse toccano e riconoscono il profondo. Di fuori è un po’ un set di Kusturica: gente stramba, monaci e preti, donne e uomini varia slavità, un anziano infermiere che ne ha viste di tutte, una ragazza piemontese che sa assolutamente il fatto suo, e perfino io disorientato e disoccidentato come sempre, e tutti in bizzarra processione, ciascuno con una torcia elettrica in mano o in bocca, portando scatole, icone, stendardi, fonti battesimali, recipienti d'argento e d'oro, polverosi elettrodomestici.

Rapidamente la chiesa si è spogliata. Nell’imminenza della festa della Protezione con il Velo, ecco che la chiesa, il suo velo, decide di deporlo..
Risulta chiara l’ambivalenza dell’idea di velo. “Il velo è un tessuto animato da pathos che prende ad avere una vita propria e una sua autonomia visiva: ricetto, metaforico e metonimico, della sostanza immaginaria del desiderio e dell’irresistibile desiderio di vedere” scrive Rosanna Prezzo commentando Aby Warburg. E vediamoli questi veli ambigui, Il velo di Maya, quello di Iside, il velo che copre la luce del volto di Mosè, il velo del Tempio che diventerà velum scissum quel venerdì terribile, un velo che rende desiderabile l’arca, perché, come dice il primo libro dei Re, le estremità delle stanghe restano visibili, e i rabbini non temono di riconoscere, in questo puntuto doppio evidenziarsi, la sensualità di un seno sotto una veste; e cosa vide Giovanni nel sepolcro (perché si dice che entrando nel vuoto vide e credette) se non il velo svelante del sudario? E quando Jabrail il gigantesco arcangelo piombò ad ali chiuse sul Profeta Mohammed, e lui lo fuggiva preso da terrore, ma animali e pietre lo salutavano come l’Inviato di Dio, e allora si rifugiò dalla moglie Khadija, ed ella se lo strinse al petto come un bimbo, lui che avrebbe conquistato la metà del mondo ma che ora tremava, e gli chiese: marito mio, vedi tu la visione? Sì, rispose il Profeta, sì che la vedo! E allora, intrepida, Khadija si strappa il velo e si scioglie i lunghi capelli, poi torna a domandare: vedi ancora la visione? No, risponde lui. Dunque non era un demonio, fosse stato un demonio non sarebbe scomparso, l’Arcangelo si è involato allo svelamento, per rispetto alla sacralità della capigliatura della sposa: e la moglie del Profeta – svelandosi - rivela la natura divina del Visitatore, perché Dio rispetta.
Così non è strano che, avvicinandosi la festa del Velo che protegge, la piccola chiesa perda i suoi veli Come viene mostrato dall’icona del Nymphios, Cristo sposo nudo pronto all’amplesso con la sua Chiesa abbracciandola sul terribile letto nuziale della croce, la nudità dopo l’Eden non è più naturale, essa è un abito nuziale che solo Eros può consentire di vestire. La piccola chiesetta dedicata al Velo, per celebrare la sua festa ha accettato di toglierlo, mostrandosi nella sua drammatica e affascinante nudità. Cosicché senza icone, ognuno deve diventarne una: e mostrare; cosicché senza candele, ognuno deve diventarne una: e ardere; cosicché senza porte, ognuno deve diventarne una: e consentire l’entrare e l’uscire di Dio nel e dal Santuario.

La liturgia della domenica precedente la festa, quindicesima dopo la Pentecoste, viene celebrata in questa nudità vibrante. Grida l’Apostolo ai Corinzi che siamo: “Tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi”.

…e Lei si avvicina, e prende il Suo velo, e lo distende sulla gente raccolta nella chiesa.[Car le Fils a pris tout les péchés. mais la Mère a pris toutes les douleurs] E Andrea pazzo in Cristo e ora pazzo di gioia dice: Epifane, mio fratello, la vedi tu la Theotokos in preghiera per l’intero Universo? e Epifane: oh sì, sì che la vedo, e sono sopraffatto dalla meraviglia! E fra le Sue mani, che lo aveva preso [Et elle, qui les avait pris], il velo era tutto splendente, e da esso scaturivano bagliori e lampi di bellezza. Rimangono i due, assorti, a contemplarla. Poi lei e il velo scompaiono, lasciando cadere una rugiada di grazie.

Sera della festa . Su una sedia, due donne e una bellissima bimba collocano le offerte per i morti. Due candele sul minuscolo altare provvisorio. Dice pS della penombra grigia: Torneranno i volti. Parla dei volti dei Santi. Dio ha donato l’esperienza della nudità perché se ne sperimentasse la vulnerabilità e la gloria, ma non sarà per sempre. Torneranno a farci compagnia i volti miti, quieti, ardenti dei Padri e delle Madri, tornerà il conforto della loro presenza. I muri vuoti parlano di loro. C’è una differenza ben precisa tra un qualcosa che è tolto definitivamente, per sbarazzarsene, come accade le cose gettate dalla finestra in una notte di capodanno romana o napoletana al fine di propiziare una vita nuova, e qualcosa che è tolto provvisoriamente, per ragioni misteriose. In questo secondo caso il vuoto silenziosamente chiama ciò che è assente, lo rivuole, si strugge per esso. E lo riavrà. Così visibile questo sui volti dei morti. E – direbbe C – in quegli oggetti che loro sopravvivono.

1434. 29 di un febbraio bisesto e funesto. E due ragazzini, figli di nobili, giocano sui tetti delle Blachernae, a caccia di uova di colombo nei nidi. Non si sa di preciso cosa avviene, ma a causa di questo allegro passatempo la chiesa della Blachernitissa prese fuoco, proprio quella dove Lei si era inginocchiata a pregare. incantando Andrea il folle, bruciò e non ne rimase nulla. Due bimbi in cerca di uccellini distrussero ciò che fu un tempo il presidio contro la barbara e terribile armata slava. L’icona non si sa che fine fece, ah le icone hanno spesso una volontà propria ed una vita tutta loro, forse si trasformò in luce nelle fiamme, forse se ne andò all’Athos e i buoni monaci la donarono allo Tsar nel Seicento. Giocò anche qualche ruolo tra il religioso e il politico, quasi fungendo da ‘testimone’ passato dalla seconda alla terza Roma. Dopo l’incendio rimane sul luogo una fonte d’acqua santa, a cui attingono pellegrini cristiani e musulmani, una fonte che cura anime e occhi (nipson anomemata me monan opsin).

Domenica, Liturgia di Pokrov. Protezione della Madre di Dio. Festa del Velo. In chiesa quasi niente, neppure le luci, solo un po’ di freddo e le voci dei cantori e degli officianti. Oggi la Vergine è presente nella chiesa, e con i santi invisibilmente prega di Dio per noi. Ci fosse stato un Andrea, l’avrebbe veduta, in ginocchio sul vecchio tappeto.

La storia nella casa dei mattoni rossi è probabilmente terminata. Ma – se anche questa comunità finisse in un magazzino – lo riempirebbe d’oro, azzurro, luce, desiderio, canti, pianti e preghiera. Pronta e preparata ad andar via di nuovo, con i suoi tesori, senza far scene, senza far drammi, senza sprecare parole e energie, protetta com’è dal velo misterioso.


[Le parti in francese sono tratte liberamente e irrispettosamente da Le Porche du mystère de la deuxieme vertu, di Charles Péguy, 1911]