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lunedì 29 aprile 2013

Aleppo e i crolli dell'anima

Il minareto antico di Aleppo è caduto. Forse ribelli, forse alquaidisti, forse soldati regolari di Assad, forse un carroarmato che ha sparato sette colpi.
Sussulto. Moralmente discutibile. In fondo c'è una guerra civile da oltre due anni, con decine se non centinaia di migliaia di vittime. E 'realizzi' - commuovendoti - quel che sta accadendo ora solo ora che vien giù un minareto? Ti fermi su un dettaglio, per quanto struggente?

Fatto è, che io quel minareto l'avevo veduto: con i miei occhi di carne. E ora è caduto. Non ci sarà più quel faro (minareto, da manar, vuol dire 'faro') che, da quando è stato costruito, ha emesso oltre un milione e mezzo di lampi di luce, luce fatta di linguaggio, luce fatta di parole, parole che gridano, cantano, piangono, chiamano, parole che dicono che Dio è grande, eppure è così solo, non è come gli dèi indiani - che abitano ancora un po' più a oriente e che hanno divine partner per intrecciarsi nella dolcezza dell'amplesso - no, lui è solo, quindi venite alla preghiera, venite a fargli compagnia. E senza questi bagliori, quante navi-esistenze umane in più naufragheranno sugli scogli delle notti spirituali.

Fatto è che io l'avevo veduto. Uno dei miei primi, se non il primo, viaggio in Oriente, al seguito di un Maestro e con amici cari (ti ricordi, Francesco? ti ricordi, Peo?). Ed avevamo attraversato a piedi un pezzo di deserto di pietra, alcuni giorni sotto tenda, cieli crepitanti di stelle e venti spaventosi, e avevamo visitato Ebla ove forse prese forma la scrittura, e ci dedicavamo al turismo. Leo ingenuissimo era incantato da Aleppo, con la sua aria un po' militaresca e la cittadella fortificata, ma con i profumati colori del souq, con i suoni dell'oud, Aleppo di marmo adagiata nella mezzaluna fertile, tra il mare e il grande fiume Eufrate. Leo era incantato da una cartolina modestamente orientalista, con le tonalità tenui, e la moschea, e l'immancabile arabo con turbante e cammello. E cercavamo l'orientalismo al Baron, albergo maestoso, decadente e decaduto, e per questo tanto dolce, con quel pranzo neanche tanto buono, e il cameriere novantenne e curvo che aveva servito il Generale De Gaulle e le due 'Christies' (Agatha e Julie), ma a Leo interessavano le memorie di Lawrence d'Arabia, altro frequentatore abituale del Baron. Sì, ingenuità, anche se Aleppo fu il primo di tanti altri piccoli Orienti di Leo, e dietro quell'aria facilmente seduttiva nascondeva abissi di profondità vertiginose ("profondo è il pozzo della storia, dovremmo dirlo insondabile? insondabile, forse...").

Dicono i musulmani che nella moschea di Aleppo, il cui faro è crollato, si conservi il corpo di Zaccaria/Zaqariya, padre del Precursore Giovanni/Yahya, e profeta muto per non avere prestato fede alla visione angelica. L'angelo gli parlava di fecondità, e lui era infecondo. Dai suoi fianchi nacque il Precursore, colui che un giorno fra i giorni indicò l'Agnello, segno che Dio non è solo. Per la sua domanda, faccia sorgere, costruire, edificare altri fari, capaci di sprigionare bagliori di senso, a cominciare della verticalità dei nostri corpi protesi verso l'alto e verso l'Oltre.

domenica 28 aprile 2013

La città ideale?


Almeno un merito il film ce l'ha: quello di mostrare una Toscana lontanissima dalle oleografie. Idealizzata nella mente del protagonista, Siena risulta in effetti meschina, letale, odiosa e piena di mostri, tal quale Palermo insomma, ma di più: Palermo - paradossalmente - si riscatta nell'evidenza dell'orrore. La skyline della città 'ideale' invece ('ma ideale per cosa?' si chiede un poliziotto siciliano che rimpiange la sua Paternò) si staglia su cieli freddi, come scenario bello e impassibile di storiacce e di crimini, e di quel crimine che tutti commettiamo, tutti, ovverosia vivere.

Lo Cascio, Dustin Hoffman nostrano, architetto (ovviamente) ed ecologista estremo, fantasioso senza leggerezza, costruttore di macchine steampunk per il risparmio energetico che evocano il settecento macchinolatrico, ma che basta deviare un secondo lo sguardo e ti si svelano come strumenti di tortura fisica e morale, in una notte di pioggia entra in un incubo giudiziario. Il fatto che ti venga in mente Kafka dopo cinque minuti (anche per i tratti fisici del protagonista) è uno dei grandi limiti del film. Che risulta troppo 'telefonato', direbbe un mio amico, troppo esplicito. Ci sono in giro troppi idealtipi, i quali tuttavia non mancano di collaborare a produrre quel basso continuo di inquietudine che è la cosa che alla fine ti porti a casa.

Mai fidarsi della bellezza toscana, l'ho sempre detto, se i turisti di giornata e i frequentatori di agriturismi sapessero quale groviglio di vipere, quale panier des crabes, si nasconde dietro quelle finestre semichiuse su muri medievali di pietra rosa, se lo sapessero tornerebbero rapidamente alle piantagioni di mais del Nord Dakota. Stephen King, in Toscana, viene letto come le fiabe di Cappuccetto Rosso.

Neanche tanto grave l'orrore in cui si trova imprigionato Grassadonia/Lo Cascio. Incrocia anche un angelo ammalato che giustamente sceglie Siena per la sua agonia, dipingendo acquerelli fotogramma in cui la tarantola uccide la mosca, e l'antilope viene divorat
a dal felino. Forse i due potrebbero provare a guarirsi. Non accade. Per la mediazione, naturalmente, di una madre bellissima e terrificante, nelle sue rughe aristocratico-popolari e nel suo affetto implacabile, Grassadonia viene ripreso dalla sua terra e riportato a casa, a Palermo: dove - se appena si va oltre il cliché - tutto accade alla luce del sole, altro che omertà.

Difetti. Troppi incubi nell'incubo, troppi "oooh!" con l'attore che balza seduto e sudato sul letto. Siena sarebbe stata sufficiente, come incubo ideale. E poi, imperdonabile: in un film su Siena non si deve mai mai mai e poi mai neppure alludere ai cavalli. 

"La realité, c'est l'impossible!"

"Il realismo, per come lo vedo io, è l'anti-abitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale - mette in dubbio per un istante quel che Nabokov (nelle Lezioni di letteratura) chiama il "rozzo compromesso dei sensi e sembra che ci lasci intravedere la cosa stessa, la realtà infinita, informe e impredicabile. Realismo è quella postura verbale o iconica (talvolta casuale, talvolta ottenuta a forza di tecnica) che coglie impreparata la realtà, o ci coglie impreparati di fronte alla realtà; la nostra enciclopedia percettiva non fa in tempo ad accorrere per normalizzare, come secondo gli stilnovisti gli spiriti non fanno in tempo ad accorrere in difesa del cuore all'apparire improvviso della donna amata. Il realismo è una forma di innamoramento"
(Walter Siti, Il realismo è impossibile, Roma: Nottetempo, 2013, p.8)