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lunedì 17 giugno 2013

Episozomene: quando muori non morire - Michele Gazich a Brescia

Si va per le vie di Brescia a piedi, in una sera quieta, mite e bella. La luna è appena una falce, è come forse il Profeta avrebbe amato contemplare nei suoi deserti, braccato com’era da Dio e da Jibrail il falco divino, che gli ingiungevano di leggere, e lui non respirava, ecome un ebbro e un folle udiva l’insegnamento delle rocce e degli alberi, e correva da Kadija la sposa dicendole ‘Coprimi, nascondimi!’, e lei pietosa lo copriva, ma nessun mantello vela dallo Sguardo implacabile.
La luna è proprio un taglio nel cielo, questa notte, o forse è solo la tua palpebra richiusa.
La contrada del Carmine è allegra e accogliente, pur con le sue ombre e i suoi dolori; un parrucchiere cinese tiene aperto il negozio mentre scende il buio, e i clienti sorridono e parlano forte.
Penso a come sarà bello, nel chiostro di san Giovanni, vedere la luna. Magari mentre Michele canterà la sua ultima canzone, che a un certo punto la nomina.

Un concerto di Michele Gazich non è mai stato, per me, un concerto. Dire però che cosa sia, non so bene. Un attraversamento. Una trasformazione. Una cosa per cui non sei quello di prima, dopo. Una lotta con l’angelo. Un’iniziazione. Non so. Un cammino. Un turno di guardia.

Oh, non sarà nel chiostro che Michele suonerà, ma nel teatro adiacente, quindi niente luna o quadrilateri di notte lucente: invece un sipario chiuso e poltroncine di velluto. Lo sciamano, ruvidamente, gentilmente, intende infatti condurci nel buio. Del resto era previsto: al buio la musica è più forte. La falcetta di luna sul chiostro darebbe troppa luce, troppa consolazione: la trasmutazione non si compirebbe. La pellicola dell’anima esige la camera oscura per mostrare le immagini. Di buon grado, chinando il capo – che però aveva sete di stelle - mi siedo. Ecco, si inizia

Con un tragico eccesso inizia Michele.
[Amore, Amore! O Amore, che non sei né amato né conosciuto! O anime create d'amore, e per amore, perché non amate l'Amore? gridava Maddalena de’Pazzi, suonando a fuoco d'amore le campane del convento. Non si fermava finché - fintamente, dolcemente, per farla smettere di piangere, per arginare l’intollerabile teopatia - tutti glielo promettevano. In tali eccessi, accendeva scrive suor Costanza, sua consorella.] Con un tragico eccesso inizia Michele: Perché la vita non vive?

Michele ci conduce nel buio profondo, nel cuore dolente della guerra civile. Ma ha sempre e comunque a che fare con gli angeli. Tanto da contribuire a ricostruirne la casa, a L’Aquila, santa Maria degli Angeli. Un altro violinista – ma il suo violino consisteva in due pezzi di legno sfregati fra loro – restaurò una casa degli angeli sulla piana d’Assisi.

Gli angeli, dunque: ma chi li immagina esangui, decorati d’ali dalle sfumature pastello, non ha davvero idea. Non conosce colui che con la spada fiammeggiante protegge i Progenitori da un tragico e impossibile ritorno edenico. Non sa dello sterminatore dei primogeniti, fermato solo dal sangue sugli stipiti, prima e unica vera mezuzah. Non comprende i ruggenti cherubini effigiati sull'Arca, gli angeli, gli arcangeli, le dominazioni, i troni, i principati, le potestà, le virtù, le schiere eterne, i cherubini dai molti occhi, i serafini dalle sei ali, che con due si coprono i piedi, con due la testa e con due volano, e che dicono insieme a mille migliaia di arcangeli e a diecimila miriadi di angeli, con voci che non cessano e mai tacciono: Santo, santo santo il Signore delle schiere. E soprattutto non vede colui che piombò ad ali chiuse sulla giovinetta di Nazareth, ghermendola d'ombra per l'Altissimo che la voleva, per sé la voleva, per tutti, per il cosmo la voleva.

Jeder Engel ist schrecklich.  Sono gli angeli forti di Israele quelli che conversano nel buio con Michele - nome anch'esso d'arcangelo - e col suo violino dalla cui cavigliera pende argenteo il Magen Dawid. Sono gli angeli che frequentano i deserti e le città solitarie di Giuda, che chiedono ospitalità avvolti dalla polvere, e Michele è un po’ come loro, ha un corpo forte e solido, tutto il contrario di un folletto branduardiano, e quando suona s'incurva e conficca i piedi a terra come chiodi nel legno. I suoi sono angeli di fronte ai quali siamo noi gli evanescenti. Ecco perché non sono fuori luogo laddove si impiccano i poeti, pronti a introdurli nella grandezza che li attende; o presso il pont Mirabeau nell’aprile del ’70, dove un imperdonabile ha bevuto il suo ultimo latte nero dell’alba; o in una piazza vicina, così vicina, tanto vicina che Michele può mostrarla a dito .

C dice che Michele ha due voci, che raramente si sovrappongono: la prima è propriamente la sua, generata dalle sue corde vocali, e che è come i lini usati con i quali Péguy immagina gli angeli tergere le piaghe del crocifisso (Avec du linge bien fin. De lin. Mais un peu usagé. Parce que c'est plus doux); la seconda è urlo, furia, passione, ed è consegnata alle corde tese del violino. Come se la voce di parole arrivasse fino a un punto, e poi dovesse dare la parola a quel grido che non ha ortografia.
A me sembra invece che l'archetto sia brandito come un coltello sacrificale, teso verso l'alto, mentre tiene fra le braccia il piccolo violino Isacco, e a un tratto il pugnale cade - non essendo stata presentata alcuna vittima vicaria - e fra Isacco e il coltello c'è il cuore di Abramo, che immancabilmente viene trafitto e sanguina e muore, quasi muore. Ma.

Nel punto più buio della notte anche Michele sente che c’è bisogno di respiro. La parola e la musica è offerta agli amanti (e come sempre agli angeli). Francesca e Marco sono mediatori efficacissimi e silenziosi, arde però il loro sguardo al pari dei loro suoni, ardono i loro gesti di delicatezza e di forza. Per un attimo penso (e forse spero) che al termine della custodia in nocte Michele voglia deporci fra le mani un grano di luce. Non accade, non siamo nel chiostro alla luce consolante della luna crescente. Si termina con un eccesso: quando muori, non morire.


Perché la vita non vive? Quando muori non morire. I due eccessi formano un’inclusione: all’interno la bellezza e lo strazio, l’amore e la vertigine, il pianto e il canto. Fuori la notte è tiepida, e il ritorno come un volo. Per i cristiani d’oriente è la vigilia dell’Episozomene, quando il Teantropo ascendendo al cielo penetrò fino alle radici dell’Essere. Ecco cos’era il concerto di Michele, ora lo so: una liturgia.

mercoledì 5 giugno 2013

Pastis Casanis, Vence, Matisse

Il terzo giro (o vira), doppio, di Pastis è stato col Casanis, che è noto per essere prodotto con la lenta distillazione dell'anice verde, oltre che dell'anice stellato. Alcuni lo definiscono l'essenza dell'estate, ciò che sta al gusto come il suono delle cicale sta all'udito. Lo abbiamo preso a Vence.

Vence è "troppo bella", il che significa che non può più essere bella e che dovrà fare la fine di Firenze (su di essa il fuoco e la consumazione divina). Quando l'incanto diventa eccessivo se ne va, lasciando al suo posto un inquietante Doppelgaenger che gode a prostituirsi coi turisti, pochi e buoni nel caso di Vence, molti e pessimi nel caso di Firenze (s.d.e.f.c.d), ma che rischia di ingannare anche occhi più smaliziati. Non quelli del musicista, che rapidamente individua per noi forse l'ultimo bistrot risparmiato dal contagio, anche se preferirebbe condurci in un nonluogo da agenti di commercio, e oh come lo capisco. Al tavolino ordiniamo il Casanis, che la simpatica cameriera pronuncia casànsz, e che evidentemente ha un colore che vira più decisamente verso il verde.

La mattina ci aveva visto a messa nella cappella di Santa Maria del Rosario di Matisse.

E qui c'è una storia di un uomo e di una donna, e come non potrebbe esserci, all'origine di una bellezza così commovente. Dunque: l'uomo è Matisse, la donna è Monique. Matisse era stato operato per un tumore all'intestino e si prese pertanto un'infermiera, appunto Monique, la quale era bella di una bellezza strana, non classica ma viva. Chi può dire, se non quelli che lo sanno per esperienza, il grado di intimità che chi dà cura e chi la riceve raggiungono nelle notti di dolore, di veglia, di imbarazzo, di abbandono, di coraggio, di guarigione? Fatto è che Matisse - ormai settantenne - chiede a Monique di fargli da modella. Lei è L'idole e anche il soggetto di La robe verte et les Oranges. Nel frattempo continua a fare gli studi infermieristici. A un certo punto, la voce dell'Irresistibilmente Affascinante la chiama, e la strappa al Genio. Entra fra le claustrali domenicane senza dirlo al Maestro, che quando viene a saperlo, per mesi, non riesce più a lavorare. Qualcosa di immensamente grande aveva rapito a Pigmalione il suo Idole di carne e l'aveva preso per sé: ora è suor Jacques-Marie. Poco a poco il Genio piega la testa, la va a incontrare in monastero, le chiede di girare su se stessa per ritrovarla da ogni lato. Scriverà poi: "Ho appena ricevuto la visita della mia religiosa, quella che ha posato per il quadro chiamato “L'idolo”. E' una domenicana, è sempre una persona magnifica. Noi chiacchieriamo delle cose e degli altri con un certo tono, ci punzecchiamo dolcemente. Quando se n'è andata, Madame Lydia (Delectorskaya, la segretaria di Matisse) mi ha detto di essere sorpresa dal nostro modo di conversare. Io so cos'è che la colpisce: è che si avverte una certa tenerezza, anche inconsapevole. Io ho sintetizzato ciò che pensa Lydia dicendo che si tratta di una sorta di flirt , a me piacerebbe scrivere fleurt , perché è un po' come se noi ci lanciassimo l'un l'altro dei fiori sul viso, dei petali di rose. E perché no? Niente vieta questa tenerezza che fa a meno delle parole e che va oltre le parole. 
Se ne va in cielo una consorella sacrestana, di nome Suor Jeanne, che aveva sempre voluto una nuova cappella. "Non lo avuta in vita, quando sarò lassù mi metterò all'opera e l'avrete ben presto!" sussurra da cospiratrice, nell'agonia, a Suor Jacques-Marie. Vegliando il suo corpo fra i ceri, sgranando il rosario fra le mani, la stessa notte, Suor Jacques-Marie viene attraversata da un'idea che le mozza il fiato. Matisse accetta. Inizia il grande progetto, che subito si confronta con gli ostacoli oggettivi, la tradizionale miopia ecclesiastica, e lo sguardo pruriginoso del mondo (Vogue pubblica fotografie di Matisse in atteggiamento romantico con la sua modella, Match titola "Matisse sacrifica 800 milioni per Suor Jacques"). Ma si muovono anche altre forze, per esempio l'infaticabile patron dell'incontro tra arte contemporanea e arte sacra, il domenicano Marie-Alain Coutourier. La costruzione va avanti. Matisse vuole tutto perfetto, fino al minimo particolare: disegna di sua mano i paramenti, la guglia, la campana, il confessionale, il crocifisso. Scrive Testori : "Vetrate, pianete, pissidi: fece tutto lui. E pensare che in quegli anni era ormai immobile, e non poteva più usare nemmeno le mani. Allora disegnava su fogli colorati, rossi, azzurri, servendosi di un gran bastone, e poi, sempre con un bastone, li tagliava e li incollava. Verso la fine della vita, poi, smise anche il colore. Forse scoprì che il suo grande sogno era sempre stato la vetrata, ossia il colore, ma, insieme, qualcosa che oltrepassa il colore: la concentrazione della luce. Una concentrazione che diviene fulgore". Quando sta male, alla suora viene dato il permesso di uscire dal monastero per assisterlo: lui le chiede di essere abbracciato, di essere tenuto per mano. Quando morirà, a Suor Jacques-Marie non fu permesso di andare al funerale. Avrebbe voluto avere almeno il corpo nella cappella, ma fu il Maestro che non volle, pensando che sarebbe stato accusato di essersi autocostruito un mausoleo per glorificarsi.

Io penso a Caterina. Caterina, santa Caterina la senese, mia conterranea. Domenicana anche lei, mistica, infermiera. Scrive Ceronetti. Come curava gli ammalati, la dolce Caterina? Caterina lavava e ungeva, tamponava, imboccava, purgava, vuotava orinali, frizionava. Forse, nella farmacia, qualche volta avrà pestato droghe. Quando le sue dita stringevano una mano, il fluido si spargeva nel corpo deformato dal male e raggiungeva quei punti segreti dell'essere che la medicina scientifica arriva a toccare, senza molta delicatezza, solo per caso. Compassionevole e pratica, ringoiava davanti a quelle miserie i suoi sbocchi di trascendente, e a chi sputava o perdeva il proprio sangue, o cuoceva nel suo coma, evitava d'impartire i comandamenti mistici dell'epistolario, "e bagnatevi di sangue" "e annegatevi nel sangue" "e saziatevi di sangue", perché non erano per tutti e c'è un tempo per ogni cosa. Ma sentendo qualche infermo più suo, un'anima non refrattaria, subito caterinizzabile, come quella di Niccolò Tuldo o di Neroccio Pagliaresi, allora era la cura d'infinito, la medicina impossibile somministrata da una persuasione angelica, invece di compresse e balsami l'imitazione del rito cruento della crocifissione tra gli stracci e i sacconi pisciosi. E poi, citando il medico-quindi-filosofo Gregorio Maranon: Nessuno dei rimedi nostri, poveri medici, ha il meraviglioso potere di una mano di donna che si posi su una fronte indolenzita. In quel decisivo momento, la scienza scompare; ed è sopra la donna, piena di mondo, che si appoggia l'angoscia di colui che va addentrandosi nella solitudine senza rive dell'aldilà. Matisse ha avuto in suor Jacques-Marie la sua Caterina, è l'ha ricompensata facendo fiorire nella sua casa un'infinita bellezza. Beato chi di noi avrà una Caterina, più gratuita e grande ancora, perché non sarà forse ricompensata da altrettanta fioritura di genio.  

Allora, siamo a messa. Pur indossando una casula gialla, bianca, verde e nera disegnata da Matisse, il prete non è tanto significativo. Il suo sermone della Fete-Dieu illustra come dalla civilizzazione cristiana nasca la dieta mediterranea, la più completa, come tutti sanno, dal punto di vista calorico, proteico, vitaminico. L'attenzione può disconnettersi senza sensi di colpa  Questo ci consente di farci pervadere, di farci massaggiare dai tre colori delle vetrate, così vivi, giallo verde e blu, di goderci la danza crocifissa del bimbo/bimba fra le braccia della Madre così sufficientemente buona da consegnarlo al Padre; e poi il solenne san Domenico senza volto, presenza apofatica del padre Couturier che ha posato per l'Artista.  La Via Crucis (paratattica, come direbbe lo scultore), non riusciamo a vederla bene, perché, dopo la fine della liturgia, le implacabili domenicane ci cacciano con uno zelo che neppure il cherubino con la spada fiammeggiante applicò sui progenitori quando li mandò via dal giardino. Lì per lì le detesto. Qui per qui, però, le comprendo e le ammiro. Vorrei che i fiorentini (su di loro il fuoco e la consumazione divina) avessero fatto lo stesso con la loro città. No: l'hanno venduta.

Nella piazza di Vence lo scultore rimane colpito da come un'opera del canadese Jim Ritchie - La Vencoise - "risolve una torsione", e gli vien voglia di disegnarla. Io - che non so cosa vuol dire risolvere una torsione se non che è certamente una cosa bella e grande - sono fiero di prestargli il mio taccuino di ricordi rosso, e la matita.

Domenica del Corpus Domini, secondo il calendario latino. Per la Chiesa d'oriente, Domenica della Samaritana, in cui si fa memoria del flirt - o come direbbe Matisse, del fleurt - tra Gesù e la donna al pozzo. Il pozzo è profondo e tu non hai neppure un secchio, da dove prendi dunque l'acqua  le dice lei, e lui le lancia sul volto i petali di rose delle parole sull'acqua viva che, bevuta, estinguerà la sete; il pozzo è profondo; poi la stuzzica sui suoi tanti mariti e su quello che adesso non lo è, ma la donna è teologa e tiene botta, figuriamoci, e lo seduce fino a fargli dire Io Sono, sono io che ti parlo, io l'acqua viva, io il Marito, lo Sposo, l'Atteso. Domenica della Samaritana e del Corpus Domini. Il giro di Casanis è il turno delle donne, delle spose, loro è la parola. Di quelle visibili ve ne sono due; contando le invisibili, moltitudine. Interrogano sapendo la risposta, forse piace loro vederci inciampare nelle parole e scivolare con supponenza e serietà sui concetti. Guarda il non-caso: si parla di eucarestia e di matrimonio. Domenica del Corpus Domini e della Samaritana. Il pozzo è profondo anche per noi, ma nessuno di noi è lo Sposo. Clown bianchi. Almeno fossimo Augusti, fools for Christ. Tace il musicista, e forse pensa che non abbiamo tanto praticato gli esercizi per volare.

Tempo di andare, lasciamo il mare alle spalle, risaliamo il Var e il corso della Roya verso il colle di Tenda. Il cielo si fa grigio. Ultima visione rapidissima di Saorge, village perché. Il musicista ci incanta con la narrazione di una parte della sua Bibbia: genealogie che si perdono oltre Ur dei Caldei e che giungono dall'altra parte del pianeta, su altre estreme frontiere occidentali, come se i suoi cromosomi fossero carichi di un peso di vita e di senso che ora esige di essere trasformato in musica e canto. Tief ist der Brunnen der Vergangenheit. Sollte man ihn nicht unergründlich nennen? Profondo è il pozzo del passato, non dovremmo dirlo insondabile? si chiede Thomas Mann all'inizio della Tetralogia di Giuseppe. Insondabile forse, eppure si trova di fronte la lealtà di un violino e di un cuore capace di ascolto.

Il viaggio è terminato. Una trentina di ore, ognuna di queste gravida di senso come un anno.

Wikipedia, Pastis, Etimologia:
De l'occitan pastís (« pâté, mélange ») ; plus avant, du latin populaire *pasticium, du latin pasta (« pâte ») ; il donne pastís en catalan et en occitan, pasticcio en italien et pastiche en français.
Le terme est attesté au début du XXe siècle sous les graphies pastisse et pastis pour désigner une situation confuse 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                     




martedì 4 giugno 2013

Pastis HB, Nizza, Chagall

Il secondo giro di Pastis: Henri Bardouin, il Grand Cru, il Re, la più bella fra tutte, basta uno sfioramento per la tua estasi, ottiene la pienezza tramite la complessità e l'armonia delle erbe, sdegnando aristocraticamente l' "effetto" sul palato. Almeno così dicono gli intenditori.

Henri Bardouin, per gli amici HB, ce lo beviamo una sera a Nizza, in una taverna un po' vera un po' no, e quindi adattissima. Nizza è allegra e inquieta, amichevole e festosa, ma capisci che devi guardarti le spalle. Austerità sabaude e assurdità fintomoresche, installazioni postmoderne e medioevi alla Viollet-le-Duc, e una multiculturalità che ha ben poco di italiano: più strano che ci sia nato Garibaldi, meno che ci sia morto Bruce Chatwin il grande viaggiatore, stremato dall'AIDS, che lui affettava fosse causato dal morso di un pipistrello cinese, oh gran bontà dei viaggiatori antiqui.

Gerusalemme ha visitato Nizza, e andandosene le lasciò un pezzo di sé. La pietra, la luce, le linee, l'aria che si respira nel dentro e nel fuori del Museo del Messaggio Biblico dedicato a Marc Chagall. Lo scultore ha un manoscritto dalla copertina blu sottobraccio, lui su quelle diciassette tele ha amato, stupito, pensato, sofferto, scritto. Centinaia di pagine e di disegni, diffrazioni prismatiche in esegesi biblica, rimandi cabbalistici, considerazioni formali e teoriche. "Io non vedevo la Bibbia, la sognavo" disse Chagall a un suo nipote, e questa frase allo scultore non va giù. La categoria del sogno gli sembra fuorviante, si potrebbe pensare a un approccio naif, mentre lui ne vede chiaramente le corrispondenze esatte, i richiami precisi, generati da una paziente, metodica, assidua conoscenza del testo sacro. Può esserci del metodo nel sogno? Può nascondersi in esso la sottigliezza esegetica? "Forse era sogno, ma sonno non era" direbbe De André. E in fondo non è, l'onirico, un luogo privilegiato dell'autocomunicazione di Dio? Non è il "tardemah" la preparazione necessaria prima dell'irrompere della ierofania? E il patriarca Giacobbe non si costringe a sognare, dormendo sulle pietre presso Luz, il luogo tremendo dove una scala unisce il cielo alla terra e gli angeli vi scendono e vi salgono? Sì, c'è del metodo nel sognare di Chagall, e le tracce di tale metodo sono riconoscibili negli studi preparatori, nel rivedere, nel ritrattare, nel cancellare, nell'aggiungere, nell'osare ancora un po', nel portare un colore a una densità maggiore. Così entri, e il vortice del sogno di Chagall prende anche te, anche tu diventi parte di quel mondo, contemporaneo all'ebreo errante e al gallo, al giocoliere capovolto, al rabbino abbracciato al suo rotolo, all'innamorato, al pesce con le ali e alla dolce mucca violinista, non meno strano e incongruo di loro, non meno titolato, tuttavia, ad esserci. Ma soprattutto, grazie al suo sognare, tu invece 'vedi' la Bibbia, fu proprio così che gli angeli incontrarono Abramo a Mamre, proprio quella era l'espressione di Abramo mentre guardava il Signore che lo fermava, lui col pugnale in mano e il volto insanguinato ancor prima di colpire, lui col pennello in mano su un Isacco già morto. Proprio questa fu la creazione, viene dopo Abramo, così ha voluto Chagall, ma che importa, anche nella Bibbia viene dopo, cronologicamente è dopo che è stata scritta, Dio, essendo salvatore, non può essere che creatore, non viceversa. Proprio questo era il Paradiso, così Mosé consentì al popolo di passare il mare, e quando le acque si chiusero sugli egiziani gli angeli stavano per intonare un canto di vittoria ma Dio li fermò, in collera, dicendo come osate, come osate cantare mentre gli egiziani, creature mie, muoiono fra le onde? Lui non vede ma sogna, e tu grazie al suo sogno vedi.

Tramortiti, trasognati, trasfigurati di bellezza scendiamo lungo brevi rampe dalla città alta verso il mare. Ma ognuno ha una sua Bibbia, anzi ognuno "è" una Bibbia, ognuno ha i suoi esodi e le sue genesi, le sue cronache e le sue guerre, i suoi cantici dei cantici e le sue profezie, la sua sapienza, le sue passioni, le sue resurrezioni e le sue apocalissi; per non parlare delle sue lettere. Ognuno ha una storia di salvezza e di dannazione, di innamoramento del senso e di contestazione del senso, di intimità e di assurdo. Allora io sento di poter raccontarne un capitolo, della mia Bibbia, a chi mi cammina accanto lungo la grande strada cittadina che va verso il mare. Nizza è stata meta di russi, che vi hanno costruito la più bella chiesa ortodossa d'Europa, di cui parleremo tanto ma che non riusciremo a vedere.

Henri Bardouin: artemisia, anice stellato, centaurea, semi di paradiso, pepe bianco e nero, tonka, noce moscata, chiodi di garofano, sedano selvaggio, cannella, citronella, salvia, rosmarino, liquirizia, timo, verbena,  asperula, coriandolo, borragine, camedrio, erba di san Giovanni, vulneraria, timo selvatico, camomilla, melitotus, origano, finocchietto. Gli altri 21 ingredienti sono tuttora segreti.


Pastis Ricard, Saorge

Potevo scegliere tanti fili tra quelli che hanno annodato le ore, potevo prendere tante tessere diverse per comporre il mosaico di questi giorni, per esempio potevo prendere le forme, i colori, il rosso il giallo il verde il blu il bianco il grigio il nero, potevo prendere gli sguardi, o le parole, l'intreccio dei discorsi; avrei potuto prendere le rose che sono rose che sono rose e che in abbondanza si donavano sui muri; avrei preso volentieri gli abbracci, anelli di carne e di sangue che si sono distesi per un giorno una notte e un giorno fra il Piemonte e la Francia.

No, scelgo il Pastis. Scelgo questo sacramento della freschezza e dell'ebrietà soave, della gialla luce solare resa liquida e delle stelle dell'anice, l'aroma delle quali il liquido pervade e rende vivo e lieto. Scelgo questa umanizzazione dell'assenzio, che ne conserva con leggerezza l'istanza poetica, ma che a differenza di quello si può bere sorridendo, senza sentirsi immediatamente chiamati a precipitare nella vertigine della dannazione. E insomma sì, scelgo il Pastis, rifugio dai calori e benedizione dei colori, consolazione dei cuori e propiziatore di sorrisi, tra Provenza, Costa Azzurra e Provincia Granda.

Del primo che abbiamo preso ho già detto. Preludio bergamasco sotto cielo grigio e pioggia, cospirazione affettuosa di un tuffo collettivo nella bellezza. Era un Pernod 51, poca liquirizia, sospettato dai puristi, e il 51 non ha a che fare con la gradazione alcolica, ma con una data, un anno di liberazione, 1951, la fine del proibizionismo dopo la seconda guerra mondiale.

Ma il primo del viaggio è stato un Ricard: liquirizia mediorientale, erbe provenzali e altri segreti e magici ingredienti.

Quanti eravamo non si seppe mai. Pur in pochissimi, quando si trattava di sedersi al tavolino per il Pastis, sbagliavamo sempre i conti, si aggiungevano sedie che restavano vuote, ma siamo forse in sei, in cinque, in otto? presto diventò un gioco, scherzavamo sulla nostra incapacità a far di conto, ma come ogni gioco aveva un versante serio, ci sono più cose e persone in cielo e in terra che nei nostri calcoli, e se qualche angelo avesse voluto sedersi con noi, stanco di volo e di dolore, non avrebbe avuto forse diritto a un suo posto? Chissà se ingarbugliandoci i pensieri non trovava
il modo di farci la grazia di ospitarlo, senza saperlo.

Dove eravamo? Il Ricard fu preso presso un muretto a precipizio su un immenso bagnasciuga. Sì, come se il mediterraneo avesse scagliato dal mezzogiorno un'onda smisurata, non un'onda distruttiva, però, non uno tsunami seminatore di lutto, un'onda enorme ma placida, come quelle che talvolta lambiscono la spiaggia più in là del previsto e avvolgono d'acqua il castello di sabbia del bambino, una così, ma tanto grande che ha raggiunto le alpi non a caso marittime, e ritirandosi - anziché conchiglie - avesse lasciato ulivi e rosmarino impigliati tra abeti e larici. Saorge è il castello di sabbia degli uomini bambini, ed è il castello dei sogni, luogo di senso e di soglia. Non a caso a me ricorda Zhangmu, il primo gruppo di case tibetane dopo il ponte che collega il Tibet alla Cina, quando lo vidi fra la pioggia, arrampicato sul cassone di un camion, in uno dei miei primi orienti. Le cupole colorate sulle chiese parlano ancora d'oriente. La luce di Saorge è misteriosa, il musicista - che ne conosce il segreto più profondo - ci fornisce una spiegazione accessibile, la nitidezza si deve all'aria di mare che incontra quella alpina, e che crea una composizione unica tra pastosità profumata e nitidezza scintillante. Sì, va bene, non so il tuo segreto, musicista, ma lo intuisco, altro che nord e sud, altro che mare e monti, altro che madre e padre, c'è un cielo e una terra che si sposano, qui: non mi parlar di effetti come se fossero cause.

Prima di sederci per bere il Ricard eravamo rimasti un po' quieti presso uno specchio azzurroverde di acqua e di pietra. Il musicista ci parla di consolazione e di morte, e di come questo talamo liquido possa vederle unirsi in un riflesso. Non c'è niente da dire, c'è da guardare ascoltare toccare immergere baciare.

Lo scultore guarda una casa e s'immagina di averla e di portarci la sua materia e il suo spirito, i suoi strumenti e le sue opere. Anche questo potrebbe essere un filo, un nesso, un legame. Tutte le case che ridendo lo scultore e voleva, e molto di più quelle che noi volevamo per lui ad ogni angolo bello e luminoso, per lo scultore senza casa e che forse mai ne avrà, per lo scultore che vive tra scatole di cartone semidisfatte e che ora custodiva ben velata agli altri una ferita non rimarginata: la perdita così recente della cava casa accogliente del cuore del suo maestro. Perché il musicista ha un violino che può avvolgere in una coperta e partire nelle notti in cui passa l'angelo sterminatore, nelle notti di Pasqua, in fretta, così, senza voltarsi. Ma lo scultore no, lui ha pietre e martelli e ferro e forge e forni, lui ha un immenso peso da portare per poter dar vita alle sue forme leggere.

C'è una casa di riposo a Saorge, e si chiama Le Temps des Cerises. Sogniamo di andarci quando non avremo più forza  E poi, una notte, scendere fino al lavatoio, dove Consolazione e Morte si congiungono, sedersi lì, fino al levarsi del giorno, per non esser più trovati.

Pastis Ricard, il primo, a Saorge. Il prossimo giro lo faremo a Nizza.