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giovedì 11 luglio 2013

Going Home - Leonard Cohen a Lucca

Quando il fotone che ha fatto reagire il mio nervo ottico alle 22.56 di martedì sera ha iniziato la sua cavalcata attraverso lo spazio cosmico, essendo stato rilasciato da Arturo (il custode dell’Orsa, l’innalzarsi della Lancia, il guardiano dei Cieli, il grande Corno, l’eterno Viandante, la Perla, la Gemma, il grano di Corallo), da Arturo insomma (stella gigante rossa di tipo spettrale K1 III), da Arturo (della costellazione di Boote ossia Colui che grida), da Arturo (che sola riusciva a trafiggere il cielo impastato di grigi e di gialli e di azzurri artificiali e a mostrarsi a sinistra in alto del palco dove – a Lucca – suonava e cantava Leonard Cohen), da Arturo (che mi ha fatto compagnia per tutto il tempo brillando debolmente alle spalle del Maestro), ebbene quando questo fotone è partito io avevo 15 anni, ed era il 1977, e andavo a scuola al Liceo Castelnuovo in via La Farina, con le camionette della celere schierate, e i fascisti coi dobermann, e mio fratello con l’eskimo innocente e la moto da cross. Quando il gemellino di quel fotone è partito  – con karma assai migliore –  per concludere la sua corsa a trecentomila kilometri al secondo inoltrandosi negli occhi azzurrochiaro della mia amica A (che era vicino a me ieri sera), lei invece non era neppure nata, ancora ci volevano tre anni, pensa. E il fotone di G, amico incontrato per sincronicità nella folla, ha valicato i 36 anni luce verso un allora venticinquenne. Perché c’erano tutte le età rappresentante nella piazza. E Leonard Cohen , di anni, ne aveva 43 quando è scoccato il suo fotone, perché certamente l’ha vista anche lui, la stella, ieri sera, anche se non proprio alle 22.56.

Star. Il mio analista domanda: “è una Star?”. “Arturo?” “No, il musicista”. Si scusa, non lo conosce, dice che conosce solo la musica colta, l’improvvido, e mette la ciliegina sulla torta chiedendomi se sia nero. “Cohen” – rispondo irritato – “kohanita, discendente d’Aronne, pura stirpe sacerdotale. Non è impossibile che un Cohen sia nero, ma è piuttosto improbabile, che ne dice?” Cohen, cantautore canadese, ebreo, monaco zen, innamorato, dolente, struggente, voce buia e calda, voce da canto cadenzato di sutra e da malinconia alcolica, occhio limpido, tratto gentile. Leonard Cohen. Ieri sera a Lucca

Decido di andarci all’ultimo momento. C non può, ingarbugliata nella didattica, P sogna montagne anche se non ci va, D preferisce i koan al Cohen, mentre F ha due bimbe esigenti. Solo A. Si tratta di andare tre ore di macchina a sud, stare al concerto, e ritornare con tre ore di macchina a nord. Ma la vita di A è sufficientemente scorniciata per accogliere l’imprevedibile. Accetta con entusiasmo. Ma dopo che abbiamo deciso e ci siamo dati l’appuntamento, cadiamo fra le braccia dell’onnireggente e nota legge per cui if anything can go wrong, it will. Cascina Gobba – parcheggio multipiano – è un a testa di Gorgone, un groviglio di strade viperine che sono certo si muovano per disorientare chi le percorre. La tangenziale est invece è un enorme boa d’acciaio, immobile al sole come se digerisse una mucca. Da Fiorenzuola a Parma quindici kilometri di coda in aumento. Li aggiriamo attraversando stradine campestri e guareschiane, a sud del grande fiume. Ma il tempo passa, il cronos non la dà mica mai vinta al kairos. Il concerto è alle 21, e alle 20.30 siamo ancora all’inizio della Cisa. Anche qui ostacoli continui, trasporti eccezionali, cantieri che si materializzano all’improvviso senza nessuno che ci lavori dentro, persino un’inquietante avviso: segnalato animale in carreggiata. Di che animale si tratterà? Non lo sapremo. Gli dèi sembrano contrari al nostro viaggio.

“Non avete fatto come l’antico Romano di Freud”, commenta l’analista. “No” rispondo. Conosco il riferimento a Psicopatologia della vita quotidiana: “Nella nostra concezione moderna del mondo ―concezione scientifica non ancora definitivamente conclusa― la superstizione è un po' fuori luogo; mentre era ammessa nella concezione di epoche prescientifiche, poiché ne era un complemento logico. Aveva dunque relativamente ragione l'antico Romano, che rinunciava ad un progetto importante perché il volo degli uccelli era sfavorevole; agiva in modo conforme alle sue premesse. E se rinunciava al suo progetto perché aveva inciampato sulla soglia della sua porta, si rivelava superiore a noi increduli, si rivelava miglior psicologo di noi. Il fatto d'inciampare denotava l'esistenza di un dubbio, di un'opposizione interiore a questo progetto, la cui forza poteva annullare quella della sua intenzione al momento della realizzazione. In effetti si può essere sicuri del successo completo solo quando tutte le energie psichiche tendono al fine desiderato”.” Avete fatto come l’uomo moderno”, insiste. “No” correggo io, “semmai come l’eroe tragico”. Siamo andati incontro alla nostra sorte, pur sapendo della contrarietà degli dèi. Abbiamo carpito caparbiamente loro un frammento di Bellezza di cui tanto sono gelosi, perché la vogliono solo per sé. Abbiamo loro strappato ein erworbenes Wort, reines, den gelben und blaun Enzian, una parola appresa, pura, la genziana gialla e blu di Rilke. Testardamente siamo andati a prendergliela per portarla nelle irrevocabili storie della nostra vita. L’analista è poco convinto: “Da cosa vi proteggevano gli dèi?”.

Chi lo sa. Ma A ha nelle mani il Libro del desiderio di Leonard Cohen, e come da un breviario ne estrae ad alta voce dei salmi poetici. Per esempio:
Perdonatemi, signori e signore,
se non mi concepisco
come la malattia.
Perdonatemi se ricevo lo Spirito Santo
senza mettervene al corrente.
Perdonatemi
Commissari dell’Occidente,
se pensate che io
non abbia sofferto abbastanza.

Quando arriviamo alla piazza, Leonard Cohen ha il cappello in mano e sta salutando uno per uno i musicisti della band e le tre vocalist, Sarah Robertson, le Webb Sisters con arpa trobadorica a tracolla e chitarra acustica, Roscoe Beck al basso, Neil Larsen alle tastiere, Javier Mas alla bandurria, Rafael Gayol alle percussioni, Mitch Watkins alla chitarra, Alexandru Bublitchi al violino, Mike Scoble all’armonica. Oddio è già finito tutto. Anche se fosse, quel cappello in mano, quell’inchino, basterebbero. Ma no, solo la prima parte.

Anche se non è da poco essersi persi Dance me to the End of Love. Di Lover Lover Lover, in cui Cohen sembra non voler ‘prender parte’ al conflitto israeliano-palestinese, anche se le sue parole vogliono stendersi come uno scudo contro il nemico (And may the spirit of this song, / May it rise up pure and free. / May it be a shield for you, / A shield against the enemy) sentiamo solo le ultime note.

Prendiamo posto, se posto si può dire, in fondo alla piazza, ma piuttosto centrali. Lieve odore di birra. Alle spalle un gruppo di ululanti, che oltre ad applaudire si sentono chiamati a fare ogni volta wooo wooo wooo. Se gli piace così. Fatto sta che dopo poco A cambia posto, optando per una visione laterale. Io rimango centrale. Il palco è abbastanza lontano, ci sono due maxischermi e una regia abbastanza intelligente. E c’è una ragazza tre o quattro file più avanti, di cui non riuscirò a vedere il volto, che danza molto armoniosamente nel minimo spazio di cui dispone.

Si ricomincia con Suzanne. Poi Chelsea Hotel (versione acustica), Sisters of Mercy, poi altre bellissime che non ricordo, la pelle d’oca (letterale, fisica, intendo – wikiparlando – proprio la orripilazione, ossia “quando i piccoli fasci muscolari alla base di ogni pelo, noti come muscoli erettori del pelo, si contraggono e tirano i peli fino a far assumere loro una posizione eretta, il riflesso essendo avviato dal sistema nervoso simpatico, che è responsabile di molte risposte attacco-fuga”) la pelle d’oca di I’m your Man, un Hallelujah combinato tra versione di Cohen e versione di Buckley che tento di far sentire via telefono a C, e il finale danzante di Take this Waltz.

Seguono ben sette encores, tra cui forse la più bella e la più nuova, Going Home, che provo a tradurre “Mi piace parlare con Leonard / è uno sportivo e un pastore / è un pigro bastardo che vive in una giacca // Però dà voce a quello che gli dico / anche se non gli è gradito / il fatto è che non ha la libertà / di rifiutare // Dirà queste parole di saggezza / come un saggio, un visionario / anche se sa che non è nient'alro / che l'artefatto di uno schermo // Andare a casa, senza il mio dolore / Andare a casa, in qualche domani / Dove si sta meglio di prima // Andare a casa, libero dal mio fardello / Andare a casa, dietro il sipario / Andare a casa, senza il costume che indossavo // Vuole scrivere una canzone d'amore / Un inno al perdono / Un manuale per sopravvivere alle sconfitte // Un pianto più alto del dolore / Un sacrificio che possa riparare / Ma non è questo ciò che io voglio che porti a termine // Voglio invece che sia certo / di non avere alcun fardello / di non aver bisogno di alcuna visione // e che soltanto gli è concesso / di fare la mia immediata scommessa / ossia dire quel che gli ho detto di ripetere/ / Andare a casa, senza il mio dolore / Andare a casa, in qualche domani / Dove si sta meglio di prima // Andare a casa, libero dal mio fardello / Andare a casa, dietro il sipario / Andare a casa, senza il costume che indossavo // Mi piace parlare con Leonard / è uno sportivo e un pastore / è un pigro bastardo che vive in una giacca

Leonard, lo sportivo, il pastore, il pigro bastardo in giacca e cravatta, si toglie il cappello e ringrazia ancora uno ad uno i suoi musicisti. Poi si inginocchia sul palco, deponendo a terra il suo cappello. God bless you all – dice – you were so kind to be here tonight. Si alza, giunge le mani, e si inchina in un perfetto gassho. Infine se ne va danzando leggermente (come un folletto, dice A). Going Home. Ecco, va bene, ci sono state le canzoni, la musica, le parole, e A, e la ragazza danzante, e perfino Arturo. Ma questa lezione sul commiato, sul congedo, sulla morte, questa lezione silenziosa è un dono indimenticabile. Andar via così. Poter andar via dal mondo così. Con una benedizione, un inginocchiamento, un inchino zen, una piccola danza. Spero che Cohen mi venga in mente quando dovrò andare a casa, mi dia un briciolo di quell’eleganza, di quello stile.

C’è un Ordine molto esoterico, molto segreto, tanto che non si sa chi ne fa parte e per quanto, e magari alcuni pensano di essere dentro e sono fuori, e altri non lo conoscono neppure ma ne sono Priori, Commendatori, Ufficiali, Gran Maestri, magari solo per lo spazio di un canto, di un pianto. Order of the Unified Heart. Leonard Cohen lo ha fondato, disegnandone il sigillo, che è nient’altro che il Magen Dawid, ma con le basi dei due triangoli piegate per dare loro la forma delle curve del cuore. Due cuori intrecciati, uniti, unificati.

Perché si può essere monaci (cioè unificati) massacrati, ammaccati, straziati dall’amore e dal dolore, monaci che prendono il prozac, monaci che tentano magari il suicidio, monaci che piangono, monaci che si rasano il cranio, e che la sola cosa di cui non hanno bisogno è un pettine, perché di tutto il resto hanno bisogno. E con tutto questo monaci. Monaci senza pace.

Mi inchino a te, Rabbi Leonard Cohen, Leonard Jikan (il silenzioso) Cohen Roshi, mi inchino a te, Maestro. Grazie per questa sera.

“Freud condannava sia l’ebraismo che il cristianesimo, ma riteneva comunque l’ebraismo superiore, in quanto più conforme alla ragione” commenta l’analista. “Non dimentichiamo che il saggio su Mosè l’ha scritto nel ‘37”. Lo lascio senza una parola, e senza toccarlo, l’analista non si tocca per definizione. E lui torna a sedersi presso il ritratto del suo Maestro spietato e inquietante, corrucciato, con un sigaro fra le mani.



mercoledì 3 luglio 2013

Villacamilla


Villacamilla, io, non l’ho vista tutta. Ne ho visto e attraversato per qualche ora il cuore, che è la Casa, e ne ho conosciuto la mente e l’anima, che è Sara. Ma non ho visto il suo corpo, le sue membra forti, e fragranti, e antiche, e vaste. Perché non ho avuto il tempo. Per esplorarle ci vuole infatti un tempo breve- che forse un giorno mi prenderò- e un tempo lungo – che forse sfortunatamente non avrò mai. Il tempo breve è di mezza giornata – in jeep, ammonisce Sara – perché appunto, Villacamilla è tanto grande, e i suoi boschi salgono tanto in alto fin quasi al monte Giovi - dal nome che più romano non si può - e i suoi uliveti e le sue vigne scendono tanto in basso, fin quasi al torrente Argomenna - dal nome che più etrusco non si può -. Il tempo lungo ha a che fare con le stagioni, con i giorni e le notti e il loro rapido o lento variare: andrebbe visto, il corpo di Villacamilla, nella solitudine di qualche inverno piovoso e noioso, nel palpitare di attesa di qualche primavera, andrebbe visto quando niente succede se non l’accadere incessante del Tutto. Andrebbe visto assieme a Sara e ai suoi uomini, gente che lo conosce con i piedi, le mani, gli occhi e il cervello, che lo rispetta e che non gli fa sconti, come lui non li fa a loro. Andrebbe visto sapendo le sue parole, sapendo cos’è una marza per esempio, o cosa significa gramolazione.

Villacamilla è il frutto di un uomo che la sperò, la sognò, la immaginò, la pensò e la volle, di un uomo a cui - come a Mosè - non fu concesso però di entrare nella sua terra promessa e che – secondo quanto ricorda il Talmud – con un dolorosissimo bacio fu preso da D-o sul confine, sulla soglia, quando già essa si intravedeva.
Villacamilla è la storia di una donna che raccolse questa visione e la generò nell’audacia e nella speranza, mobilitando chissà da dove energie esistenziali e di pensiero, sprigionando un’energia delicata e indomabile.

Perché quando Sara racconta queste cose – ed è scesa la sera, e si è seduti al fresco davanti alla casa, poggiati alle balaustre di pietra, dopo aver gustato olio e vino e pane e miele e formaggio, e un glicine antico, miracolosamente sfuggito a un anno in cui il sole voleva proprio bruciarlo, distilla dall’alto i suoi aromi - quando Sara si ferma un attimo e ti racconta queste cose, sembra che sia stato tutto sommato facile. Nessuna enfasi, non si sprecano parole, mica si nasce bergamaschi a caso. Io accendo con le parole il fuoco del mio ricordo, ma Sara ne sorriderebbe. Per lei è così: si lotta con l’Angelo fino a che non spunta il sole, ci si sloga l’anca, si riceve una benedizione e un nuovo destino, ma la mattina si torna al lavoro come sempre. Solo, rimane qualcosa da raccontare una sera d’estate a qualche amico, strizzando l’occhio e lasciando capire che si pensa già altro, si pensa già oltre. Sembra tutto semplice, tutto lineare, sentendo Sara. Ma il toscano che sono io, li conosce, i toscani. Non fa fatica a immaginarsi la loro resistenza, il loro amaro sarcasmo, il loro spietato disincanto, il loro occhio svalutante, la loro livorosa invidia, la loro nodosità d’anima che non cede nulla a quella degli olivi. Con tutto questo - e forse con peggio ancora - Sara ha avuto a che fare, certamente, anche se lei non ne parla, e anzi ti dice proprio l’opposto, e cioè che ama questo luogo e questa gente e che si sente di aver trovato quel posto da dove non si vorrebbe più tornare.

E sforziamolo ancora, il paragone, che D-o non se la prende, e pazienza se qualche volta si eccede, mi si sfotterà, non me ne duole. Tanto ho già cominciato, ormai non ho che da finir l’opera: e in fondo Sara è un nome che si presta. L’ Argomenna non somiglia a un Giordano che è stato attraversato? I poderi si chiamano Capanno, Peretola, ma potrebbero chiamarsi Dan o Efraim o Zabulon o Neftali. La Casa una Gerusalemme, cittadella sacra – e quindi ospitale; un tempo Torre, ora, caduta la torre, accoglienza. Sara venuta da lontano anzitutto si mette ad ascoltare. Ascoltare è riconsacrare, perché ascoltare è dare la parola al dio delle pietre e delle acque, degli alberi e delle rocce e degli animali, e quindi rimette in moto il processo rivelativo.
Sara ascolta, per esempio, la Casa. E cosa dice la Casa? Cosa ti ha svelato? chiede l’impertinente che sono. E’ una casa silenziosa – risponde Sara – accogliente. Non ci sono rumori. Vuol dire che non è abitata da quegli incubi buzzatiani che spesso – quando non si installano nei ruderi di torri leggendarie, nelle cappelle sperdute tra le selve, sulle scogliere solitarie che il mare batte e batte - si trovano bene in certe case abbandonate, e le fanno pulsare di inquietudine.  Ma aveva bisogno di essere scaldata, aggiunge Sara. Penso al grande camino di pietra che domina il salone principale. Lo penso pieno di ceppi crepitanti. Non sono sulla buona strada. Si parla di un diverso calore, che ha a che fare con il crepitare della bellezza e del significato.
Sara ascolta, per esempio, la terra. Se ne prende cura. Salva dove si può salvare, innova dove invece si deve innovare. Sperimenta, anche coraggiosamente, perché altrimenti tradirebbe la tradizione. La terra, ascoltata, comincia a lasciar scorrere latte e miele, vino e olio, i meravigliosi frutti di Villacamilla, la metà dei quali oltrepassa il vasto mare per andare ad accendere i sensi di qualche americano, che improvvisamente si struggerà di desiderio per un bene che forse non conosce, e resterà lì, stupito, a guardare la bottiglietta di olio color verde cupo sulla sua tovaglietta accanto al ketchup, e a chiedersi cosa sia successo, quali siano le ragioni di quello strano sentimento che l’ha preso.

Villacamilla, intendo la Casa, ti accoglie e in pochi istanti ti senti a casa. Ti dà un letto che ti farà dormir bene, in stanze spaziose e dotate di personalità spiccate, imprevedibili, come antiche giovanette gozzaniane. Ti nutre di cose buonissime, che risvegliano dentro una beatitudine più profonda. Ti consente di esser fuori restando dentro, con finestre-quadri che non stancano di meraviglia. Ti consente di rimaner dentro pur trovandoti fuori, tanto nitida è la corrispondenza tra le forme dell’esterno e dell’interno, tanto armonico il risultato dei saggi costruttori. Ti lascia andar via senza fronzoli: mica le dispiace che tu vada, ha del lavoro da fare fin da stasera, e non le importa se ti ritrovi a chiederti in quale quadro manierista hai visto quel focolare col cagnolino bretone bianco, nero e fulvo. Fatti tuoi: Villacamilla ti riceve con piacere, eleganza, con buone e affettuose maniere, ma ha i campi e le vigne e i boschi e gli animali da accudire.

Villacamilla non l'ho conosciuta. Ci vorrebbe un tempo che non ho. Villacamilla però l’ho incontrata, come quando sul treno – dove sto scrivendo adesso – incontri una persona, e ci parli tre minuti, e ti sembra stranamente di sapere tanto di lei, ti sembra di intuirla, e ci ripensi la sera, e il giorno dopo, e ti rimane poi sempre un punto luminoso di bellezza all’altezza del cuore. E una nostalgia per qualcosa che ti chiama dal futuro.