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sabato 17 agosto 2013

Cola e scola la vita: Ceglie, Matera, e presagi di Gerusalemme.

Ride divertito e intenerito, lo sguardo smeraldino di P -  la mia ospite - vedendomi impegnato nel tentativo di decifrare il senso dei versi scritti sul muro della casa, nella sua lingua agrodolce. …ma cchjù ddosce de nu mele ca me cole / jinde u sanghe, / de nu frutte ammature i ssucuse / a mmuerse de nanghe; / cchjù ddosce d’u recuerde de nu suenne…
Glielo leggo se vuole, forse può aiutarla; sì leggimelo per favore P; e lei, scolara compìta, macchiuddósce denumēle camecóle jindusànghe…: ah ecco jinde significa dentro; sì bravo; però non capisco nanghe, cosa vorrà mai dire; se lo traduce tutto le faccio un regalo. E alla fine ci arrivo: desiderio! oppure brama, ingordigia, una cosa così, divorato con foga, tradurrei, non letteralmente; perfetto, domattina le farò un regalo. Questo regalo P non me lo farà invece, ponendomi così in una condizione di aspettativa infinita e di intrigata curiosità, in una condizione, quindi, molto propizia, anche molto felice. Se il regalo fosse stato, non so, un souvenir del luogo, o un dolcetto, sarei stato deluso. Tutto qui? perché io attendevo il Tutto. Talvolta non mantenere la promessa è necessario, così che il pensiero giocoso di un regalo si possa trasformare nella speranza del Dono, nell’incredibile segretamente atteso – come direbbe Luigi Lombardi Vallauri. P conosce bene gli esseri umani.

E mentre questo accade, attorno, una trama di vicoli bianchi; un bucato di mura, di pietre, di porte, di chiese, di case, e perfino di lenzuola, un bucato di paese steso al gran sole sotto un cielo Pantone® dazzling blue 18 3949 TPX. Attorno, gente mite e silenziosa. Attorno, gli addobbi rococò con le lucine multicolori, pronte per accendersi di festosità deliziosamente pacchiana la sera di san Rocco.

Lasciato solo, vado a controllare su internet. Pietro Gatti, celebrità poetica locale del novecento, che sapeva guardare il suo paese e vederci l’universo: quei versi fanno parte di una sua poesia che traduco così, anche senza uno sguardo ridente davanti a cui offrire lo sforzo: Una parola semplice / ma più dolce del miele che mi cola / dentro il sangue /di un frutto maturo e succoso / divorato con foga, / più dolce del ricordo di un sogno / che per tutto il giorno mi dilaga nel cuore / dell’anima sperduta in questo cielo /che stanotte [ancora san Lorenzo, ancora le Perseidi] si svortica di stelle / è tutta una magia / d’amore il nome tuo, bell’amore.

Ripenserò a lungo a questi versi. Cola la vita, ininterrottamente, dentro di noi. Non c’è niente che non sia nutrimento. Cola la vita in noi attraverso innumerevoli vie, perché non in pane solo vivet homo, e tutti – non solo Bologna – abbiamo sperimentato cosa significa essere sazi e disperati (ossia sazi e denutriti), e tutti sappiamo come invece si è potuto vivere per molti giorni mangiando quasi niente, avendo però accesso ad altri alimenti. Saggezza delle vie spirituali: tutto nutre, tutto cola dentro di te trasformandosi in vita, ed ecco dunque la bellezza della vita ascetica. Radiose quaresime – secondo l’espressione felice di Alexander Schmemann – in cui stupefatti ci accorgiamo di poterci nutrire di colori e di suoni [e quel violino invisibile, e quell’ottone misterioso, che ripeteva incessantemente tre note, quanto ha nutrito C e me che attraversavamo il paese bianco], di sguardi e di parole, di pensieri e di sogni e di trasogni, perfino di dolore – ché abbiamo in noi i fermenti galattici vivi per trasformarlo - e soprattutto del tuo nome, bell’amore. Digiuno come gioia dei sensi (infine, anche del gusto, senso negletto, abituato a farsi da parte per dare spazio alla bramosia) e gioia del Senso, che cola come miele attraverso ogni nostra fessura sull’Essere, che sia bocca narice orecchio occhio o ferita.

[Sì. Però c’è appunto la bramosia. A mmuerse de nanghe. Non si può dimenticarlo. Come per esempio si è fatto nel nuovo rito del matrimonio cattolico, dove – illudendosi di omaggiare l’inviolabile soggettività dell’altro – ora la sposa accoglie (o si unisce) allo sposo, non lo prende più; lo sposo accoglie (o si unisce) alla sposa, non la prende più: cosicché alla cerimonia sono presenti il prete i testimoni i genitori e gli invitati tutti, ma Eros il dio bramoso, il dio che prende, viene cacciato via dalla chiesa e non protegge più la coppia. Anche questa un’illusione, la permalosità irridente di Eros – quando non è riconosciuta la sua divinità – è nota da sempre, fin dalle Baccanti. Ma non si impara mai nulla. Penteo il miscredente verrà fatto a pezzi dalle donne, per prima dalla madre, a mmuerse de nanghe. Cadmo sposo di Armonia e sua figlia Agave si separeranno per mai ritrovarsi.]

Ripenserò a questi versi. Matera non c’è bisogno di descriverla. Gerusalemme è divina, è una diva, e come tale non si mostra nuda ai registi nei suoi momenti hot (o di passione). Per quel tipo di scene c’è Matera, sua splendida controfigura, body double, stunt city, Matera adusa ad esporre il suo corpo di pietra vellutata color tortora alle cineprese. Lo ha fatto – tra i tanti – con Pasolini, con Rosi, con Beresford, con Gibson, con la Hardwicke. Così che a volte Matera stessa si trova a far confusione, o – più maliziosamente – a infondere confusione nei suoi visitatori. Quante finte croci (più vere della vera) sono state levate fra i suoi sassi, quanti finti Gesù vi hanno disteso le braccia a favore di obiettivo.
[Raccontava un amico pugliese che Matera è stata per molti mesi quasi ‘occupata’ dalla troupe di The Passion. Era stata reclutata gente del posto per fare da comparsa, soprattutto per interpretare la canaglia che inveiva contro Gesù nella sua salita al Calvario. Gibson aveva spiegato loro bene il compito: gridare, insultare, tanto la loro voce non si sarebbe mai sentita, tutto sarebbe stato doppiato in aramaico. I materani però, popolo religioso, vedendosi davanti James Caviezel coperto di sangue come i cristi barocchi delle loro chiese, non avevano proprio voglia di insultarlo. E venivano fuori parole come cattivo, mascalzone, al massimo carogna. Allora Gibson interrompe: le parole, d’accordo, non si sentono, ma le facce si vedono, e quelle parole quasi dolci non corrispondono a volti distorti dalla ferocia e dall’odio. Dovevano insultare davvero, dandoci dentro, come se passasse un odioso criminale. Ciak. Una comparsa: ricchione! Ecco, Matera, body double della Città Santa, è abituata a questo e ne sorride.]

Eppure Matera è stata veramente santa. Una tebaide, la Gravina un canyon / kedron scavata di grotte e popolata di anacoreti. Centinaia le chiese rupestri, scavate nella fresca roccia, vene spirituali nel tufo calcareo. I monaci basiliani vi sciamarono nell’ottavo secolo con le sante icone avvolte nei mantelli, poiché l’eresia iconoclasta sostenuta dall'Imperatore di Bisanzio impediva loro di rappresentare il bell’amore, di baciarne l’immagine a mmuerse de nanghe.
E vennero gli armeni, e i musulmani, e gli ebrei, lasciando memorie e graffiti, talvolta simboli noti, talvolta labirinti indecifrabili. Si è preparata bene, Matera, ad essere controfigura della città da Dio abitata.

E c’è una chiesa che abbiamo visto. Ampia, luminosa, con i consueti affreschi di bizantino nitore. Sotto però c’è una serie di grotte o di ipogei in cui si praticava la scolatura dei cadaveri. Il monaco defunto, rivestito – penso – della sua cocolla, veniva collocato seduto in uno stallo di pietra assolutamente simile a quelli riservati ai viventi, a fianco di altri cadaveri. Poi veniva lasciato a disfarsi lentamente, seduto in questo coro silenzioso con gli altri confratelli. Il luogo mi emoziona. Trovo uno stallo che mi si addica, e mi siedo. Appoggio la nuca nell’incavo apposito e sento le ossa del cranio sotto il velo di pelle viva. C non è contenta, avverte in questo mio gesto una malsana attrazione verso il macabro, però come sempre capisce che ho bisogno di solitudine e mi lascia. Eccomi, solo, nello stallo monastico fatto perché scoli la vita fino a lasciar solo il minerale. Penso ai monaci che mi hanno preceduto, seduti sulla medesima pietra, appoggiati al medesimo sedile. Morti?

Morti, certamente, dicevano i gesuiti che infaticabilmente combatterono questa consuetudine di doppia sepoltura, sentendovi odore di paganesimo. Morti, forse, penso io.
Ho avuto la fortuna di veder morire alcune persone, quindi di assistere direttamente al passaggio dalla cosiddetta vita a quel non-si-sa-cosa che riserva l’Oltre. Di vedere i respiri che cessavano, riprendevano, diminuivano la frequenza. Di udire il suono del famoso e paventato rantolo [Se questo respiro stressa la famiglia, scopolamina (0,3-0,6 mg SC o parenterale), atropina (0,4-0,6 mg IM, SC o nebulizzata ogni 4 h o parenterale), ipratropio (500 ég nebulizzati ogni 6-8 h) o glicopirrolato (0,2 mg EV parenterale o in infusione continua suggerisce pratico il Manuale Merck] Di essere testimone oculare dell’ultimo respiro (exspiravit). I saggi monaci materani ne vedevano molte di più, e sapevano che la morte non è un evento puntuale, ma un lungo processo che va accompagnato. La vita deve scolare. Come miele e spirito è colata nel sangue attraverso i sensi, come miele e spirito deve scolare. La medicina cosiddetta ufficiale, i bioeticisti, i giuristi, si affannano per trovare una definizione di morte perché possa essere vista come una sorta di interruttore acceso/spento. Comprensibile. Ma la morte non è lapalissiana, e non canta la canzoncina per cui Monsieur d'la Palisse est mort, / il est mort devant Pavie, / Un quart d'heure avant sa mort, / il était encore en vie. Monsieur de la Palisse non si sa bene quando muore. Se è tibetano, gli si sussurrano nell’orecchio gli insegnamenti del Bardo Thodol, se è materano lo si pone seduto sul suo stallo di pietra, se è un moderno fortunato gli si dirà un rosario e si farà un po’ di veglia vicino a lui. Perché scoli la vita.

Parlavo, qualche tempo fa, con l’amico pS, a proposito di un saggio terribile del teologo ortodosso Sergej Bulgakov, tanto intenso, vero e tremendo che lui non è riuscito ad arrivare in fondo, come se si spalancasse sotto una voragine di abissale e misteriosa verità. C’è uno svezzamento dell’anima dal corpo. Un lutto che l’anima deve fare. Essa deve accomiatarsi, congedarsi, sciogliere a poco a poco nodi e legami e ormeggi, prendere il largo. Non è facile, non ci sono nebbioline azzurro newage, è una grande sofferenza, è un periodo delicato e drammatico: per questo i vivi devono pregare con fervore, perché questo distacco sia soave. Questo contrario (o questo identico, chissà) dello svezzamento. Rilke lo intuiva: man entwögnt sich des Irdischen sanft, wie man den Brüsten milde der Mutter entwächst / ci si divezza da ciò che è terreno, soavemente, come dal seno materno – Prima Elegia di Duino, vv.86-87). Ma è davvero così soave divezzarsi dal seno materno?

Ecco, ho in mente un opposto logico di questo atteggiamento di svezzamento del morto. Talvolta vado al Cimitero Monumentale, qui a Milano, a salutare alcuni ‘amici’, Alessandro Manzoni, don Giussani, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci. Passando per il vialetto centrale, a un certo punto immancabilmente il respiro mi si blocca nel petto. Davanti a questa tomba.



Io penso che dentro questo massiccio parallelepipedo edipico le trombe della resurrezione non si sentano. O forse sì, ma che l’angelo avrà comunque il suo bel daffare a frantumarne il cemento, a sciogliere i cadaveri della madre e del figlio avvinti in un abbraccio, questo sì, mortifero e mortale. Possa un monaco materano, che ha avuto invece la grazia di disfarsi soavemente, di lasciar scolare la sua vita come miele in una fresca e ombrosa grotta, prenderli per mano e portarli via da lì.

Domine, iam fetet: quadriduanus enim est, dice la povera Marta al Cristo commosso che sembra delirare, allucinando un’apertura del sepolcro dell’amico Lazzaro. Puzzerà. Ma l’Apicoltore della Vita sa far colare il miele nuovamente jinde u sanghe.

L’addormentarsi della Madre, e il suo risveglio fulgente, alla presenza del Figlio, tra la meraviglia dei dodici trasognati convocati dai quattro venti, mi vedrà se a Dio piace sotto un altro cielo, ormai così vicino.



lunedì 12 agosto 2013

Si salverà chi non ha voglia di far niente non sa fare niente

Per i pigri, per gli inutili, per gli abusivi esistenziali, per i parassiti della vita non c’è e non ci può essere vacanza. Lo scriveva qualche giorno fa sul giornale, con altre e più efficaci parole, Alfonso Berardinelli. In particolare non ci può essere per i pigri che non amano la propria pigrizia, che non l’abbracciano, che non la indossano serenamente e se vogliamo anche letterariamente; per i pigri perseguitati da un super-Io atletico, nordico e militare, che ininterrottamente urla loro nelle orecchie che dovrebbero essere da un’altra parte a fare qualcos’altro: perlamordiddio a ‘fare’! Per i pigri infelici. Per i pigri come me.

Per loro - intendo: per quelli come me - i giorni di agosto sono come maglie di una grande graticola di tempo, ‘ferragosto’ – la parola -  fin da bambino mi richiamava la mia carne e il mio spirito fatti ai ferri dal sole e dalla noia, e naturalmente agosto ha il suo gran santo in Lorenzo, il dieci: Lorenzo, quello che sulla graticola ci salì davvero. Ad agosto il super-Io potrebbe lasciar la presa, e invece – e paradossalmente – tende le redini al massimo, facendoti schiumare come un cavallo da dressage. Ti somministra ininterrottamente piccoli ma feroci colpi di frustino. Quando sei nel pieno dell’attività dell’anno il super-Io ti lascia fare: della punizione del pigro si incaricano altri soggetti, i capi, i colleghi, i creditori, coloro che da te si attendono presenza e prestazioni; ma in agosto, dove quasi nessuno ti cerca, è lui a fartela pagare, e ah se ci prova gusto.

La casa di C, sulle dolci colline che si levano a oriente del Verbano, è collocata in un luogo incantevole. Il grande lago disteso, quasi da Locarno a Stresa, la sua costa occidentale, le prealpi che lo separano dalla selvaggia Valgrande, e poi, miracolosamente resa visibile da una mezzaluna concava del profilo dei monti, la maestosa parete ovest del Monte Rosa con le sue quattro cime (Gnifetti Zumstein Dufour Nordend), il Lyskamm e i crestoni intitolati ad alpinisti coraggiosi e forse morti. Forse, perché chissà, Zapparoli, se è morto davvero. La casa di C è un parallelepipedo leggero rivestito di legno chiaro, e vedendola per la prima volta non c’è chi non pensi alla Scandinavia. Per qualche misteriosa ragione, in questo incanto, non è infrequente che il super-Io mi attenda, e mi dica che dovrei utilizzare il tempo per far qualcosa di maschile, di virile, di salutistico e salutare, tipo svegliarmi presto e andare a camminare sulle alte vie con i bastoncini telescopici, tic toc tic toc, e la frutta secca e una mela nel leggero zainetto, e tornare tonificato dal vento e dall’aria pura. O, non so, spaccare la legna, o costruire un capanno per gli attrezzi, o almeno scrivere, studiare, o mettere un po’ d’ordine nella mia agenda. Un ritmo, una regola. Suvvia. Meritarmela, la vita. E a me tutte queste cose piacerebbe farle, davvero, ma non so da che parte cominciare, mi prende un gran sonno (un sonno immenso, costante, non un riposo ma una condizione stabile, intervallata da risvegli allucinati e – diciamolo – anche un po’ ebeti) e allora non riesco altro se non a stendere un’amaca tra due alberi e rovesciarmici dentro, essendo da essa fagocitato come un fagiolo da un immenso baccello di tela odorosa, portandomi dietro l’ipod e un libro. Eh, ma non credete, è il super-Io che mi dondola lentamente, e intanto mi canta la sua nota canzoncina. La casa di C è in un territorio abitato da gente lavoratrice, alacre, e l’indolente che è in me si trova fuori luogo, mentre il super-Io si sente proprio a suo agio ed estrae i suoi strumenti per l’ agotortura.

Pensa. Per quanto detesti Firenze e lo si sappia, quando qualche settimana fa sono tornato nella mia casa sui tetti, lasciata in totale abbandono dagli affittuari precedenti, nello squallore totale che esprimeva tra bottiglie di whisky rotolanti sul pavimento, ciarpame abbandonato, letti sfasciati con le doghe che ricordavano il relitto spiaggiato di una nave, le ante degli armadi aperte e scardinate, le finestre rimaste anch'esse aperte da tempo immemorabile, ecco, mi son sentito meglio. Ho potuto gettarmi su un materasso sporco, in qualche modo relitto io stesso di un antico naufragio, lasciar entrare da fuori il suono delle campane e i sistri degli Hare Krishna, dormire bene, abbandonarmi. Il super-Io non mi avrebbe mai trovato lì dentro. Nella penombra gli armadi aperti su un buio profondo alludevano all’ingresso misterioso di una possibile Narnia. Fantasma fra i fantasmi, non mi potevo neppure far paura. Relitto fra relitti, che senso aveva compatirsi? Anzi c’era tra noi come una fraternità d’armi, da reduci o da sopravvissuti.

Eppure, sul lago, una sera la luna del ramadan era cresciuta fino al primo quarto e tramontava tra rosa perlacei, tra cinquecento sfumature di grigio, tra pervinca e indaco. A destra, Venere vespertina. Sdraiati in giardino, vicino a un’incongrua palma a rafforzare il tocco islamico. Tacevano finalmente i tosaerba ruggenti, dal suono così amato dal super-Io. Il lieve odore di BBQ lasciava il campo ai quello dei fiori notturni. Il tè vicino, fumante e consolante. Piano piano una concavità colma di stelle, Arturo Vega Deneb Altair e altre bellissime. Nessuna realizzazione cosmica, non questa volta. Non il meraviglioso sgomento cosmico, non la vertigine. Invece come il cielo stellato di un presepe, di quelli arrotolati che si comprano in cartoleria. Dentro, un’attesa semplice. Qualche desiderio da sottoporre all’ordalia divertente delle stelle cadenti. E venti, dico venti ne sono cadute. Una dopo l’altra, alcune piccole e afferrate con la coda dell’occhio, altre maestose e solenni e pascoliane, una perfino doppia. Venti, e non c’erano più desideri. E a un certo punto (la aspettavo, avevo letto del suo passaggio su un’applicazione apposita dell’IPhone) da WNW verso NE, la Stazione Spaziale Internazionale, punto veloce e luminoso, clausura nell’infinito abitata da romiti tecnologici.

Marie Dacke et al, in Current Biology, dice che gli scarabei stercorari, notoriamente nutriti di merda, si orientano guardando la Via Lattea. Toi galactique stercoraire, mon semblable, mon frère.


Si salverà chi non ha voglia di far niente, non sa fare niente. Cantava Battiato. Un ritornello, un mantra da cantare, povera speranza pop alla quale non si riesce a credere.


venerdì 2 agosto 2013

"come iri da iri" - tre giorni a Binanville

Gare Saint-Lazare, Parigi, più o meno ora di pranzo di venerdì. Non ci posso credere: e questo forse è un buon presupposto per la tre giorni di dialogo interreligioso che sta per iniziare.
Ho un appuntamento con un rabbino che non ho mai visto, ma il signore che si sta avvicinando, studiandomi come io studio lui, ha in testa una calottina beige fatta all'uncinetto, un camicione aperto su una maglietta nera che non riesce a snellire affatto uno dei più rispettabili e prominenti addomi che io ricordi, esso medesimo morbidamente appoggiato su pantaloni chiari che gli arrivano appena sotto il ginocchio, da cui si protrudono bianchi polpacci nudi che terminano in due scarpe nere lucide indossate senza calze. Or: io non è che mi aspettassi proprio shtreimel, cernecchi e cappotto nero ma.
Non ci posso credere, insomma è vero che sono imbottito di farmaci per arginare uno spaventoso mal di schiena, e che ci saranno trentacinque gradi, quindi non crederci magari è segno di salute, che ancora distinguo il delirio dalla realtà. Si vede che non ho letto bene il bugiardino, che ci sono effetti collaterali che non ho considerato, oppure che il combinato disposto di tante e differenti sostanze genera conseguenze imprevedibili.
"Monsieur le Rabbin" azzardo, tendendo timidamente la mano. Ecco, la sua faccia, avreste proprio dovuto vederla, a quel punto. E io che mi ero pure preparato cercando su internet (comment s'adresser politement à un Rabbin).

Una mezzoretta dopo Rav G e io chiaccheriamo allegramente su un treno che ci porta verso le Yvelines. Prima di salire gli avevo chiesto se potevo offrirgio qualcosa da bere: "No, grazie, faccio il Ramadan, posso bere e mangiare solo dopo le 21.40". Questa volta tutta da vedere era la mia, di faccia. Eppure Rav G ci è, non ci fa. No, calma, un po' ci fa, ma in gran parte ci è proprio. E' un tipo anche abbastanza noto, almeno webwise, e tutti potremo apprezzarne la cultura straordinariamente vasta, l'erudizione piena di anima, il radicamento tradizionale totale e l'altrettanto totale apertura agli altri. Se è parco nel cibo, tuttavia, non lo è nella parola: in poco tempo vengo a sapere che appartiene a un rarissimo lignaggio sefardita, che ha sei figli (e dieci anni meno di me), che ha avuto anche Leon Askhenazi come maestro (ma ce ne sono di migliori), che è paleografo ed epigrafista, che ha madre turca e padre marocchino e che quindi abbraccia “geneticamente” – ma anche culturalmente - tutta la parte meridionale del bacino del mediterraneo, che è stato a Gerusalemme per vent'anni. Ah Gerusalemme. “Sei mai stato nella cupola della Roccia?” chiede, toccando un tasto per me dolentissimo. Ho tentato di entrare, rispondo, ma sono quasi stato arrestato dalla polizia palestinese, e invano ho protestato proclamandomi 'figlio di Abramo, rispettoso dell'islam': un tizio baffuto con la faccia inquietantemente simile a quella di Saddam Hussein mi ha risposto: 'Figlio di Abramo, sei dunque ebreo?' 'No, cristiano' 'Oh, cristiano! Ci sono tante chiese a Gerusalemme. Non le bastano per pregare?'. Rav G sorride un po' come il gatto Garfield. “Io ci sono stato, ci vado ogni volta”. E come fai? “Dico che sono musulmano. E' abbastanza semplice, se sai l'arabo come me”. Cioè ti chiedono se sei musulmano e tu rispondi di sì. “Bien evidemment...si dà il caso che lo sia. 'Muslim' in arabo vuol dire 'sottomesso a Dio'; io sono sottomesso a Dio, tu no, forse? Una volta mi hanno chiesto di recitare la sura aprente del Corano (Bismillāhi al-Rahmāni al-Rahīm Al-hamdu li-llāhi Rabbi l-ālamīn) ma mi hanno fatto arrivare solo al secondo versetto... Ma loro intendono un'altra cosa! protesto. “E' un loro problema, mi pare, siano più specifici”. Mi verrebbe da dirgli che sarebbe un ottimo gesuita, ma non lo faccio, nel timore che mi risponda che certamente, è anche gesuita.

JM ci attende sorridendo alla stazione. Anche lei non ha mai visto prima Rav G, ma avrà modo di apprezzarlo quasi subito. Il caldo è mostruoso. In auto, andando verso Binanville, JM racconta qualcosa sul castello in rovina, sulla fattoria biologica e il grande forno in pietra in cui suo figlio fa il pane biologico. Rav G annuisce soddisfatto: “Ah, bello. Io sono un fornaio”. JM ha un piccolo sobbalzo, io sogghigno sul sedile posteriore, reso ormai immune dalla meraviglia. “Un fornaio professionale beninteso. Forni a gas, industriali. Il resto è roba da bambini” aggiunge compiaciuto. Gli occhi grigi di JM si aprono lentamente: 'c'est pas vrai, c'est pas vrai' ripete sommessamente, e non mi risulta che abbia il mal di schiena.

Giunti a casa di JM, e bevuta una meravigliosa bevanda fresca a base di tiglio, conversiamo tranquillamente. A un tratto arriva T. Si presenta con nella mano destra una bottiglia di vino e dei cioccolatini, nell'altra un pomodoro morsicato. Assomiglia un po' a Kissinger giovane, ed è invece un Pastore alsaziano. Nel senso di pastore protestante alsaziano. Poggia sul tavolo vino e cioccolatini, e saluta tutti cordialmente, addentando di tanto in tanto il suo pomodoro. T è una persona meravigliosa, di straordinaria tenerezza. Ama veramente tutti, ogni essere vivente è oggetto della sua benevolenza, con la trascurabile eccezione dei Lorenesi, che invece detesta. Come credo dicesse Musatti, la guerra più desiderata è la guerra civile. Il barbaro che invade i sacri confini della Patria, vabbè, se si deve proprio, lo si combatterà: ma chi non ha mai sognato di accoppare il proprio vicino di casa sotto il pretesto che è papista, o ugonotto, o nero, o del pidielle, o comunista, o semplicemente – come diceva mia nonna – perché l’è di di là d’Arno?

Pomeriggio libero, chi legge, chi nuota, chi si riposa. Accanto a me dorme della quarta un sacerdote cattolico siciliano, pG. Ci vediamo la sera per la messa. Rav G arriva avvolto in una amplissima kandura marrone, e ora sembra veramente un grande vascello trionfalmente veleggiante. Sia il pastore che il rabbino partecipano attivamente alla messa cattolica, il primo leggendo le letture, il secondo cantando il Padre Nostro, con una voce meravigliosa, in dolci-aspri melismi aramaici. “Oh, il Padre Nostro, una preghiera ebrea al 100%” commenta fieramente.

E’ calata la sera, quindi è terminato il digiuno, si può dunque mangiare, e altroché se lo si fa. Parlando di uno dei miei poeti preferiti – Yehuda Amichai – vengo a sapere da rav G che naturalmente è anche poeta. “Poesia sefardita in rima e metrica, molto difficile da comporre. Saremo rimasti in cinque o sei al mondo a saperla fare”. E ve ne è di tradotta in lingue occidentali? “Oh no, una lingua occidentale non è in grado di accogliere la profondità di senso delle parole ebraiche. Per ognuna di esse occorrerebbe dare cinque o sei significati” Come la luce attraverso un prisma, commento. “Esattamente. Forse potrebbe essere tradotta in cinese.” Sai il cinese? “No.” Questa è una notizia. JM parla della sua esperienza zen, e del suo Maestro, alcune delle cui calligrafie sono appese alle pareti della casa. Rav G prende la palla al balzo, e dice che è anche calligrafo, che la calligrafia araba e ebraica hanno una grande tradizione, in nulla inferiore a quella cinese e giapponese. “Certo, c’è una differenza fondamentale: nel bacino del Mediterraneo si usa il calamo, in estremo oriente il pennello)”. Ah.

Tempo di andare a dormire. Con grande gentilezza, rav G chiede a T di portare anche la sua valigia. Allo sguardo interrogativo di tutti, risponde sorridendo: “E’ finito il digiuno di Ramadan, ma è iniziato Shabbat! Non posso portare alcun peso. Anzi, a questo proposito, a che ora cominciamo domani? Perché lo Shabbat prevede un sonno supplementare. Non è che si possa dormire di più: si deve dormire di più. Ed è un sonno mistico, generalmente pieno di sogni, di visioni, di intuizioni…”. Fuori il cielo è pieno di stelle. A notte fonda, però, si scatenerà un temporale.

Il giorno dopo arrivano tutti. S, D, la carissima C (antica Maestra), l’incantevole MC, la misteriosa AH, con i dreadlocks avvolti da un turbante che le conferisce un profilo egizio, G, fragoroso e simpaticissimo libanese, G il francescano, M lo spagnolo esperto di satelliti artificiali, il generosissimo e gigantesco S, che è esattamente come uno si immaginerebbe un guerriero musulmano dei primi tempi, un califfo di quelli con al fianco la spada Dhulfikar, P e soprattutto J.

J ha il volto severo e dolce come i santi delle vetrate di Chartres. E’ impassibile, ma come luminoso dall’interno. Rende spirituale praticamente ogni cosa che fa, dal mangiare a lavare i piatti. Raramente ho visto una persona fare la vaisselle come la fa lui. JM chiede a J se può far qualcosa per la mia schiena, e J – che è un osteopata professionista – immediatamente si dichiara disponibile. Il trattamento dura circa una mezz’ora. Con lievissimi movimenti J mette il mio corpo in equilibrio. Poi tocca delicatamente alcuni punti della mia colonna vertebrale, ascoltandola: sembra un musicista che accordi uno strumento musicale: la medesima attitudine di paziente precisione di un liutaio. Sento che respira profondamente e lentamente. A volte il tocco si fa più deciso e forte. In qualche modo, non è solo il corpo, è l’anima ad essere toccata e curata. Il corpoanimaspirito. La cura ti restituisce la totalità di te, ti ricompone. Il primo obiettivo non è il tuo dolore fisico, è il tuo essere-a-pezzi ontologico.  Ne esco con il mal di schiena ancora presente, forse leggermente migliorato, ma con un approccio al dolore completamente diverso. Tanto da pensare che la malattia ti sia data perché chiama il guaritore, che il conflitto ti sia dato perché chiama il mediatore, che la colpa ti sia data perché chiama il redentore, e perché la guarigione è una condizione più bella della salute. Beati coloro che hanno il mal di schiena, perché incontreranno J…

Ci sarebbero da dire tante cose dette. Cose dette, pensate, condivise, in questo castello senza mura, dietro a questo portale romanico e massiccio che si leva nella campagna, sotto un cielo incredibilmente vasto e in perenne movimento, come un tori giapponese in mezzo all’oceano. Il compito di questo blog però non è di esporre contenuti, ma di mostrare intravisioni, squarci, tagli nella tela del reale-banale.


Allora dirò piuttosto del rabbino e del musulmano che si levano alle quattro del mattino e fanno colazione assieme prima di iniziare il ramadan; delle benedizioni sul vino e sul pane in una lingua arcaica, rauca e dolce assieme; del colloquio con S, che mi spiega come il Corano sia un immenso koan, e si appassiona, e parla e parla e parla per un’ora e io so che non può bere perché digiuna e non potrà per molte altre ore, e ricevo ogni parola come un dono; delle risate e delle lacrime, di una pace che ci possedeva senza essere da noi posseduta, di un’eccedenza di bene che tutti percepivamo senza poterla definire.

Soprattutto dirò di una cena. Anzi non potrò dire, perché il gusto appartiene all’indicibile, e come si fa a spiegare la freschezza vivificante e in un certo senso terribile del tabbouleh preparato da G? Ci si può sentire indegni di un cibo? Come si fa a spiegare il buon vino, le courgettes ricolme di ogni sapore? Il Vijnanabhairava Tantra canta: jagdhipānaktollāsarasānandavijmbhaāt bhāvayed bharitāvasthā mahānandas tato brave, ossia: Nel momento dell’ebbrezza e della dilatazione dell’anima causata da cibi e bevande delicate, sii tutto in questa delizia, e, attraverso di essa, gusta la suprema beatitudine.
E il tè, preparato e anzi offerto da S in un modo straordinario, da S che poi non lo avrebbe bevuto,, affondando menta rugiadosa e appena colta nella teiera e facendolo passare e ripassare con gesti magnifici in una coppa piena di zucchero, ah il tè che ho bevuto in questa occasione si classifica senza alcun dubbio tra i dieci tè più intensi e buoni  della mia vita.

Se il Paradiso c’è, come dicono, non potrà essere tanto differente da così. Anticipazione degli eschata: ecco la cifra di queste giornate piene di luce. Ecco perché il Cristo li paragona a un banchetto.

Se ne vanno tutti, uno dopo l’altro, con silenziosa affettuosità e con un certo pudore. Il distacco non è semplice e va abbreviato e reso sobrio. Rimaniamo soli, JM, pG e io. Ci viene donato all’improvviso un clamoroso arcobaleno, un arcobaleno a pieno semicerchio, un’iride eccelsa e nitidissima, stagliata su nuvole ardesia, un arcobaleno, anzi due, celebrazione cosmica di un’alleanza divinoumana.


JM osserva silenziosa il grandioso spettacolo. Congiunge le mani con le palme rivolte verso l’altro. Chiude gli occhi. Merci, dice. Ma subito aggiunge: C’est trop.