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sabato 14 settembre 2013

I corsari del deserto

Corsari. Sono questo, i monaci.

San Saba è una nave corsara. Così l'ho sentita, vista, vissuta, così provo a raccontarla, ora, qui: dentro un barattolo di metallo bianco e verde con scritto Alitalia, a diecimila metri sopra la Grecia, proprio sulla verticale dello splendido Olimpo, d’auree nubi adorno, andando verso occidente e già alle prese con la nostalgia – che più passano le miglia più si tende e geme come la corda di un violino.

[e a proposito, ogni aereo ha un nome, proprio come una nave; non so come si chiami questo che mi sta portando via; ma quello che mi ha accompagnato in volo fino a San Saba era l’Airbus A320 EI-EID battezzato appunto Umberto Saba. “me al largo / sospinge ancora il non domato spirito / e della vita il doloroso amore”]

Ora, la differenza tra un pirata e un corsaro è che quest'ultimo milita sotto le bandiere di un sovrano, che gli concede la patente per la guerra di corsa, e che in cambio riceve una parte del bottino ricavato dagli arrembaggi e dalle vittorie: ma per il resto è libero, decide da solo quali sono i galeoni da attaccare, gonfi d'oro come favi di miele e altrettanto pericolosi da avvicinare. Sì, il corsaro è un uomo libero, e nei racconti è di lui che si parla, del suo nome proprio, di sir Francis Drake o di sir Henry Morgan, non del re o del principe che lo autorizza alle battaglie.

San Saba, la nave corsara, naviga nel tempo da millequattrocento anni, alla disperata caccia dell'Inviolato. Incrocia al largo dell'Isola di Pasqua, che è Gerusalemme, come anche dell'Isola di Natale, che è Betlemme. Abbastanza vicino da non poter essere da loro dimenticata, abbastanza lontano da poter loro dimenticare. Abbastanza lontano per poterle amare, abbastanza vicino per poterle inquietare. Perché, viste dalle murate di questa nave, Gerusalemme e Betlemme sono un aggrovigliato sinistro bagliore, una concentrazione di rumori del mondo. Quando, per caso, sono costretti a sbarcarvi per qualche ora, i corsari sentono l'orrore del consumo, del consumo di cibo, di cose, di denaro, di sacro; rabbrividiscono vedendo le orde multicolori dei pellegrini di un giorno, foulard al collo e telecamerina, che guardano toccano comprano; e subito hanno impazienza di riprendere il mare, quel mare vasto e arido che è il deserto di Giuda. Vicino abbastanza, lontano abbastanza.

Per antica tradizione il Comandante di questa nave è lo stesso Governatore dell'Isola di Pasqua. Una volta all'anno sale a bordo, e i corsari indossano gli abiti migliori che hanno, si metton - quasi - sull'attenti davanti al Governatore, gonfio nella sua sfarzosa divisa da Ammiraglio. Lo lasciano perfino qualche ora al timone.  Che giochi per un po’, loro assecondano la finzione.  Ma si intuisce che non vedono l'ora che sparisca, contano i minuti, guardano il cielo sperando di scoprirvi il sole basso. E finalmente l'Ammiraglio se ne va,  si può ricominciare a far sul serio la guerra. Perché il vero Comandante è un vecchio capitano segnato sul suo corpo - fuori da ogni metafora - da una grande ustione presa durante un assalto notturno, un anziano lupo di maredeserto dal volto severo ma dagli occhi dolci, che non sorride mai senza mai essere cupo. E ancor più di lui il vero Comandante è San Saba stesso, che costruì e varò la nave, e il cui corpo incorrotto è custodito e esposto sul ponte, più vivo di tutti loro (e, se mi si consente, anche con una cera migliore di molti di loro). E ancor più di tutti il vero Comandante è il Re, così come il Re è il Mandante, così come il Re è il Destino. Perché questa è una nave del Re, non dei suoi ministri, governatori, ufficiali, funzionari, subalterni.

Fatto terribile e spaventoso è che nessuna donna è mai entrata in questo luogo. Mi si potrebbe dire: neanche all’Athos. Sì, ma all’Athos c’è una intera flotta di navi corsare, di giorno da una si vedono le vele dell’altra, di notte le lanterne, si sentono i colpi di cannone, i canti. Basterebbe una lunga nuotata per raggiungersi. E poi è una flotta della Regina, è lei la Donna, è lei che riempie i pensieri, i sogni, è lei che beatifica, inquieta, tortura e colma di slancio i marinai, riempiendo la Santa Montagna di divino femminile. Ora, chiunque sa che è facile morire per una donna e compiere atti di valore davanti a una donna, figuriamoci per la Donna e davanti a la Donna. Ma San Saba è una nave del Re. Non che la Regina non sia onorata, è presente in mille immagini mille millanta volte baciate e venerate. Ma è una nave del Re. L’assenza della Donna è qui più fitta e tetra. Non si ha il conforto di un occhio femminile che ti ammira mentre combatti. Lo devi fare per altro. Lo devi fare senza una che ti guardi. Lo devi fare così, senza nessuna che ti dica mai bravo.

Ogni tanto qualche ufficialetto, qualche azzimato guardiamarina nella sua uniforme stirata e fresco d’Accademia, qualche giovane capitano di corvetta, viene in visita al vecchio galeone. E a volte pretende pure di dire qualcosa di intelligente, di spirituale, di utile. San Saba è oltre un millennio che insegna a mezzo mondo il combattimento per il Regno dei Cieli, e quelli magari trovano pure da criticare. I corsari non rispondono nemmeno: gli fanno fare il giro del ponte, gli fanno guardare il vasto maredeserto dai bordi, e addio. Non perdono tempo con loro. Non c’è tempo.

Quando io sono salito a bordo, sono stato accolto dal capitano e da gran parte dell’equipaggio: era sera. Il capitano aveva in mano una enorme chiave, di un gigantismo surreale, quasi caricaturale, come fosse una scultura neodadaista di Claes Oldenburg.  A un’ora che non si sa, il capitano chiude la porta, chi è dentro è dentro, chi fuori fuori. A un’ora che non si sa: perché sulla nave non solo vige un diverso calendario, indietro di tredici giorni rispetto a quello normalmente in vigore. Ma vige un diverso orologio. Il computo del tempo prevede che il tramonto coincida con la mezzanotte. Cosicché la prima notte (il 24 agosto, ossia l’11 agosto a san Saba), vado a letto alle 22 (ossia alle 2 e 50 di notte a san Saba). Ma il giorno seguente sarà diverso, perché il sole tramonterà prima. Insomma, bisogna intuire, allenarsi al riconoscere i suoni dei legni, dei ferri, delle campane, e infatti spesso arriverò in grande anticipo o in ritardo. Se qualcuno vuole sperimentare un senso assoluto di displacement, non sapere dove e quando si sia, san Saba è il posto giusto.

Sono stato condotto nel grande refettorio, di cui solo una piccola parte era stata illuminata, per ristorarmi con un po’ di frutta. E’ scesa rapidamente la notte. E’ salito invece il vento del deserto, da oriente, e prende possesso delle stanze aperte. Dondolano dondolano dondolano le lanterne.

Poi mi viene assegnata una cella-grotta bellissima, in cui avevano già acceso la lampada ad olio. Mi lasciano solo ad un riposo breve. Imparo a conoscere gli abitatori permanenti di questa cella: la notte, il vento, il silenzio. Forse ***, che è prudente non nominare. Forse anche ###, che è un comandamento non nominare invano. Sono solo un ospite, è bene che lo sappia. Rispettare queste presenze è l’unico modo per dormire bene qui.

[Excursus. Un antico corsaro imbarcato su questa nave si chiamava Stefano. Discepolo (e nipote) di un altro, celeberrimo teologo e poeta, Giovanni di Damasco.  Fatto è che Stefano visse in una di queste grotte. Eremita, si prendeva cura di ogni essere vivente, colombe, storni, antilopi. Non solo, però, di questi animaletti poetici che ci raffiguriamo con i disneyani occhi dolci e a cui è così facile voler bene. Amava orribili vermi neri, temibili scolopendre, innominabili ragni, li prendeva in mano e li spostava per non calpestarli inavvertitamente. Quando celebrava la liturgia nella sua cella, la grotta oscura traboccava di luce. Dunque Stefano una volta si imbatte in un monaco che non riconosce. Mi immagino il loro incontro, Stefano chiede d’esser benededetto, camminano fianco a fianco, parlano poco, disabituati come sono alla relazione. Così Stefano comprende che oltre alla comunità dei monaci ‘visibili’ ve ne è un’altra, fatta da invisibili. Non però invisibili per uno speciale potere da supereroi dello spirito. E’ che quando il proprio ego viene completamente, definitivamente abbandonato, allora scompare anche quella minima, basica pulsione al riconoscimento che è la visibilità, la percepibilità del proprio corpo. In sedicimilionesimo è un’esperienza che capita a tutti (ah, ci sei anche tu? non ti avevo notato! ed eravamo proprio davanti ai suoi occhi, e ne soffriamo: in questo caso però non dipende dalla rarefazione del proprio Io quanto dall’inflazione dell’Io dell’altro). Stefano è affascinato da questa comunità parallela e misteriosa, come il gabbiano Jonathan quando incontra il luminoso Chiang. Anche Stefano vorrebbe lasciare la sua Brigata Colazione, e chiede di farne parte. Ahi. Chi non ha un ego non chiede di far parte di qualcosa che ritiene più prestigioso. Forse per un attimo a lui aperte, le sliding doors della comunità degli invisibili si chiudono. A Stefano viene raccomandato di tornare nella condizione precedente, e di amare tutto e tutti, il suo compagno si ritrae nell’invisibilità, e Stefano eccolo di nuovo alla sua grotta e ai suoi amici animali. Ciò avviene nell’ottavo secolo. Ma altri durante la navigazione nel tempo incontrano questi corsari invisibili. Anche pochi anni fa si sono manifestati. Quando chiedo al monaco A, simpaticissimo novizio greco, di quante persone è composta la loro fraternità, lui risponde: “Che io sappia, siamo venti. Poi – e il suo braccio traccia un ampio semicerchio sul canyon desertico e sui suoi mille occhi di grotta – poi chissà”. Certo è che quando i monaci visibili entrano in una grotta palesemente vuota, salutano e chiedono la benedizione al suo possibile abitante. Principio di precauzione. Hai visto mai.]

I suoni. Verso le due di notte – ora profana – booom booom booom una grande campana dal suono cupo. I corsari si alzano dai loro giacigli, è il tempo del combattimento a corpo a corpo, dell’esercizio individuale. Le mani si afferrano alle corde nere di preghiera, i corpi si flettono e ancora cento volte si flettono nelle metanie, le fronti toccano il suolo, le labbra lo baciano, per arrivare al cielo bisogna piegarsi molto, e avvicinarsi il più possibile alla terra. Questa è ciò che loro chiamano “l’ora del kanon”. Tre di notte. Un monaco passa in tutti i luoghi del monastero tenendo in spalla una sbarra di legno sonoro e percuotendola ritmicamente con un martelletto: toc tactactac toc tactactac toc tac toc tac toc tactactac. E per ultima dongdongdongdongdong la campana della chiesa. Tutti sul ponte, riuniti, ai posti di combattimento. Sono le tre e un quarto.    

Mesonyktikon, Orthros, ora Prima. Tanto tempo nel buio caldo e denso,  e quasi non respiro dal sonno, dall’incenso, dalla cera bruciata delle candele, dal sudore dei corpi. Mi viene data una candela e un pacco di fogli scritti in greco e in russo, tutti nomi, un’infinità di nomi che chiedono ai corsari di san Saba di essere ricordati. Ciascuno se ne prende un grosso pacco, e silenziosamente li recita. Io appena sono in grado di star sveglio, faccio scorrere questi nomi scritti in una calligrafia improbabile, Alexandros, Fotinì, Sergej, Ekaterina, all’inizio tento di traslitterare, poi non ce la faccio più,, dico /questa persona, questa persona, questa persona/ ci penserà Dio a traslitterare, penso, facendo scorrere davanti al mio sguardo stanco, ai miei occhi-essi-stessi-caverna, il fiume interminabile di questi nomi-storie, di questi nomi-destino scritti su foglietti quadrettati di varie dimensioni, logori e sporchi di cera. Poi mi viene in mente che l’unico libro che mi sono portato dietro contiene due saggi brevi di Pavel Florenskij, Le radici universali dell’idealismo e Il nome di Dio, e in entrambi si parla della forza spaventosa dei nomi. Non siamo noi ad avere dei nomi, sono i nomi ad avere noi, a renderci compartecipi del loro senso e della loro sorte. E quindi avanti, pur con fatica traslitteriamo, Basilios , Panaghiotis, Irene, Olga…
E aggiungevo le persone che io avevo nel cuore, tutti gli amici, tutti i nomi, tutti i volti, tutti i dolori, tutti gli amori, tutti i dimenticati, cioè quelle persone che, inavvertitamente, scivolano via una notte – come scrive Buzzati – dal cerchio dei ricordi per mai più ritornare.

E spesso il sonno vinceva, anche se stavo in piedi. Elettroencefalogramma piatto, spirito annientato. Imballavo il pensiero su stupidaggini, per esempio componendo filastrocche. Per dare una saggio di quali vertici abissali di mistica sia stato in grado di sperimentare in quei momenti, di quali alte vette spirituali abbia raggiunto, invito a dare un’occhiata alla seguente poesiola, messa a punto tra le quattro e le cinque in quelle tenebre:

Dorme questo, dorme quello,
dorme il gruppo nell'ostello,
e la guida, e il torpedone,
dormon tutti e stan benone;
il custode del parcheggio
dorme, forse un poco peggio.

Dorme l'uomo del deserto
la cui casa e nell'aperto;
dorme sodo il cittadino
nel suo appartamentino;
dorme (un poco) anche il barbone
steso sopra il suo cartone.

Il cristiano con l'armeno,
il giudeo col saraceno,
dormon: pronti, all'albeggiare,
ad ancora litigare
fra i quartieri della stanca
disperata Città Santa.

Nella pace della sera
dormon quieti gli haredim;
presto si alzerà il muezzin
per chiamare alla preghiera
dall'antico minareto,
ma - per ora - dorme lieto.

Dorme il rabbi e l'accattone,
il soldato sul gippone
dorme con un occhio solo
per poter cogliere al volo
ciò che render può insicuri
quei della città dei muri.

Dorme il frate nel convento
e russando fa spavento
al vicino suo di cella
che ora inquieto sogna un mostro
e gemendo si ribella
mentre attorno dorme il chiostro.

Dormon savi, dormon matti,
dormon cani, dormon gatti,
i malati e le malate
fra le lor luci azzurrate.
Si assopisce anche il dolore
che ciascun porta nel cuore.

Dormon gli esseri viventi,
l'uomo in tutte le sue forme.
A San Saba non si dorme:
l'una son le sette e venti!
Si sta svegli e chi lo sa
se ciò ha un senso o se non l'ha.

…eppure queste stupidaggini mi consentivano di non crollare. La notte non è tempo per affettare doti spirituali che non si hanno.

Ogni tanto si forma una fila nell’oscurità: è il momento del bacio delle icone. Una processione che in un ordine da me mai compreso conduce ciascuno a baciare tutte le icone della chiesa, che sono tantissime. Nessun uomo del mondo bacia così tante volte come questi uomini che non vedono donna. Baciano volti, piedi, membra, reliquie (e uno di loro, vedendo la mia inadeguatezza, si avvicina e mi sussurra: you must kiss more ‘juicy’, if you know what I mean. Juicy. Lo dice lui. A me, che di veri baci dovrei essere più esperto. I corsari non baciano pezzi di legno dipinti, questo è certo. Cosa o chi bacino non so, ma non dei quadri o delle immagini. Io bacio immagini, invece, ed è per me già tanto tuffare il mio volto a labbra protese per baciare una figura che non so perché è avvolta dal buio, e solo a tratti colgo – tra le rare candele, l’enigma di uno sguardo bizantino o il tratto patetico di un volto naif ottocentesco. Ogni volta sono decine e decine di icone, e le volte sono tante.

Quasi inavvertitamente si scivola nella Divina Liturgia, celebrata con assoluta sobrietà e anche con una sorprendente rapidità. Però poi le Porte Regali si dischiudono, e lo ieromonaco grida di avvicinarsi per il bacio a Colui che si fa mangiare, un bacio che può bruciare,  anzi che deve bruciare, ma dipende da noi se per incenerirci o per renderci incandescenti [Abba Lot andò a trovare abba Giuseppe e gli disse: “Secondo le mie possibilità, recito il mio ufficio, digiuno un po’, prego, medito, vivo nel raccoglimento e, per quanto posso, purifico i miei pensieri. Ora, cosa devo fare ancora?”. Allora il vecchio si alzò, distese le mani verso il cielo, le sue dita divennero come dieci fiaccole. “Se vuoi – gli rispose – diventa tutto di fuoco”]. Le finestre della chiesa ora sono visibili, piccoli archi ritagliati dalla pallida luce dell’alba. Poi ancora si mangia il pane rimasto, poi si beve l’acqua attingendo da un fonte di pietra.  

Terminato il combattimento, ci si ritrova su una grande terrazza aperta, sopra di noi la luna e un cielo ormai azzurro-rosa. Ci sediamo sul muretto a ristorarci e a respirare. Un monaco distribuisce tè, un altro del dolce, un altro bicchierini di liquore. Sono circa le sei del mattino – ora profana.

Vi saranno altre chiamate al combattimento ufficiale, quello che si svolge sul ponte della nave. Al pomeriggio, prima della trapeza, ossia del pasto leggero consumato in refettorio, con il monaco che legge le vite dei santi, con  i piatti e i bicchieri di ferro, e alla fine viene incensato un bel pane e un calice di vino, e vengono dati a tutti, trapeza, ‘altare’ e ‘mensa’, l’uno e l’altra, l’uno con l’altra, l’uno nell’altra non solo nella parola, ma nel gesto, nell’attitudine interiore. Mangiare è un gesto misterioso – sotto certi aspetti tragico, perché allude alla consumazione e al sacrificio delle vite, delle forme, dell’essere a beneficio di un altro essere – e quindi va celebrato.

Ma – sia chiaro – i corsari non si osservano. Non ho trovato traccia di autocompiacimento nel loro celebrare. Non si coltiva alcun atteggiamento ieratico (che sarebbe, ancora una volta, una maschera, un personaggio). Vanno alla preghiera così come sono, con le scarpe polverose, gli abiti non pulitissimi, i paramenti logori. C’è solo sostanza, e naturalmente questa è anche forma, ma mai orpello.

Cosa accade durante il giorno, quando il sole non lascia ombre e i monaci sono prevalentemente nascosti, non so. Credo che essi attendano nelle grotte e nelle celle i loro demoni, e con la grazia di Dio li combattano. Specialmente il demone meridiano, che predilige queste ore infuocate e aride, distillando nel cuore quella tendresse de soi, rammollendo la psiche, riempiendo l’immaginazione di nostalgia di quegli alberi, di quegli occhi, di quelle braccia, quando invece si ha davanti solo questo odioso deserto, questa vita sprecata e sempre uguale, questa solitudine soffocante con l’aggravio della miseria di questi compagni…

Vespro finalmente, le rocce da gialle diventano rosa, ancora sul ponte, ancora baci, canti. Si avvicina la Dormizione di Maria, e i corsari depongono in mezzo alla chiesa un’icona di tessuto della Vergine morente, su un piccolo catafalco che la tiene orizzontale, la cospargono di erbe profumate, la baciano. Il momento tra il vespro e la compieta è forse il più sereno, il calore ha ceduto, si conversa un po’, si prende un tè o una bevanda fresca. Poi l’Apodipnon: reciprocamente i monaci si chiedono perdono e se lo danno, e si inchinano verso i punti cardinali del mondo. Ecco di nuovo, col vento del deserto, la notte breve della nave corsara.

E ci sarebbe da parlare del mal di mare, di quel male che a volte mi ha preso in quei giorni e in quelle notti. Non è sempre facile stare con i corsari. A volte, e anzi spesso, non li condivido. E allora ho un po’ di nausea, perché li ammiro così tanto, eppure in coscienza non posso approvarli. Ma sono appunto corsari, non gente perbene. A sentir loro l’eretico lo si sbatte fuori senza complimenti, con tanti saluti al religiosamente corretto. Quel che non è di Dio è del demonio, i confini sono netti, le zone grigie inesistenti. Gli intellettuali sono gente sospetta, i teologi non ne parliamo, e anche il loro prete è in fondo uno che ha studiato un po’ troppo. Le Accademie – nella migliore delle ipotesi – sono luoghi dove ci si trastulla coi concetti, nella peggiore un serio ostacolo sulla via della salvezza. Gli episcòpi e le sedi patriarcali, palazzi in cui si scende a compromesso con la verità. Apparentemente poche ma salde idee nel tascapane della loro mente – non è questo il credo di ogni soldato? Poche, talvolta rozze, granitiche idee: quelle che servono a stare in piedi, a vegliare, a digiunare, a far la guardia dinanzi all’incomprensibile in quest’avamposto desertico, e a rischiare di farsi ammazzare di acedia qui dentro. A chi è in prima linea e vede gli occhi del nemico non si chiede diplomazia, ma coraggio: di marciare decisi e di finire morti in una trincea, tranquillamente, senza essersi slacciati mai lo zaino – come mi pare scrivesse Bernanos. Le sottigliezze sarebbero di peso. Eppure ne sorprendi talvolta qualcuno la notte, seduto su una roccia, a guardare semplicemente la luna, o c’è chi ti porta il tè esattamente nel momento in cui ti senti solo e ne hai bisogno, e ti viene in mente che esiste un mondo di delicatezza interiore, un loro giardino segreto, di cui loro hanno gran pudore e che puoi solamente intuire.

Corsari: sono questo, i monaci. O Dio li prende così, nonostante siano così, anzi proprio perché sono così, oppure è davvero inutile parlarne. Ci si imbarca sulla nave di San Saba per tanti motivi: molti di questi uomini hanno un passato interessante e spesso tempestoso, altri uno proprio semplice: si viene qui in pellegrinaggio, si capisce che questo è il luogo, si torna in patria, si chiude il lavaggio auto che si possedeva, si salutano i parenti e gli amici, si parte per sempre. Oppure c’è la storia del Corsaro Russo, che è però così particolare e vertiginosa che penso di dedicare ad essa un capitolo a parte. Si viene qui per pentirsi, piangere il proprio male, prepararsi a morire. Non solo non è richiesto di esser perfetti, ma anzi è esattamente il posto in cui si va se si è peccatori.

Lascio la nave un mezzogiorno. I corsari mi sommergono di doni, dall’icona del Capitano al barattolo di olive greche, dalla corda di preghiera al dolce macedone fatto di sesamo, insieme ad olio e ad acqua che miracolosamente sgorga in una grotta e che chiamano aghiasma. Tirano fuori tutto dalle loro povere grotte, perfino dei leccalecca per i bimbi presi da chissadove. Mi chiedo cosa mi accadrà quando mi presenterò davanti all’inflessibile dogana israeliana.

Chissà quale sarà di loro quello che la prossima notte prenderà il foglio che ho lasciato tra gli altri, e mi nominerà, così, nelle tenebre dense, tra un Demetrios e un'Anastasia.










giovedì 12 settembre 2013

Il segreto del Papa vecchio

Meno di quattro anni fa, e sembra passato così tanto. Era la vigilia di Natale del 2009. Joseph Aloisius Ratzinger il bavarese, Papa Benedetto XVI da quattro anni, entrava in san Pietro a celebrare la messa di mezzanotte. Una ragazza svizzera con una maglia rossa, forse una squilibrata, forse una devota eccessiva, forse non so, valicò le transenne e andò verso il Pontefice, per abbracciarlo o aggredirlo o chi lo sa. Il Papa cadde in avanti. Un evento da nulla. Tutto riprese regolarmente. La gendarmeria vaticana smentì voci di attentato. Il Cardinale Etchegaray ci rimise - poveretto - un femore. Ma quell'avvenimento mi colpì come un presagio, e due giorni dopo condivisi una nota con i miei amici di Facebook.

Ora che Benedetto XVI è eremita in Vaticano. Ora che Papa Francesco è acclamato ovunque - dai semplici per la Renault 4 e la Fiat Stilo e per le due stanze da albergo dove vive e per i conventi vuoti da dare agli immigrati e per le messe sui barconi di Lampedusa e per il dolce suono sudamericano della sua voce e per le telefonate al giornalaio e alla donna violentata, dai politici left winged per l'intransigenza coi curiali e per la corrispondenza con Papa Eugenio di Repubblica, dai sapienti per le sue interessantissime posizioni su verità e relativismo, dai cristiani perché crede così visibilmente e percepibilmente in Dio, ora il contenuto di quell'emozione davanti al niente di un Papa, che cade al solo tocco di una ragazza un po' esaltata, mi si fa comprendere di più.

Scriveva Buzzati nel Segreto del Bosco Vecchio: "Il genio, inesplicabilmente, era di colpo scomparso. Dal corpo dell'abete uscì un lacerante scricchiolio, il tronco cominciò lentamente a piegarsi, con movimento sempre più veloce. Poi crollò con un tonfo enorme. Per alcuni minuti i rami schiantati continuarono a gemere. Infine si udì soltanto la voce uniforme della foresta. I boscaioli, raccolti gli attrezzi, si allontanarono di corsa, perché il cielo diventava sempre più nero."

Il Papa, come lo abbiamo sempre conosciuto, non c'è più. E' caduto come il grande abete di Buzzati. "Si mancherà", come il Cipputi di Altan il giorno dopo la Bolognina ('Non siamo più comunisti, babbo?' ' No, ma ci mancheremo') ? Non sappiamo, troppo presto per dire, tutto è così aperto che il futuro è inimmaginabile. Ma il grande albero è caduto. E il cielo di che colore sta diventando, vedete?

Ecco il testo di quella mia nota di quattro anni fa (26 dicembre 2009).

Eppure, quel Papa che cade...

Non è accaduto nulla. In fondo la linea che separa lo slancio di un abbraccio da quello di un'aggressione è molto tenue. Chissà cosa pensava la giovane svizzera quando (sfidando i suoi sfarzosi compatrioti muniti di alabarda) ha scavalcato la transenna. Chissà se si saprà mai, o se gli psichiatri che adesso esplorano la sua mente con i loro saperi ci diranno qualcosa. Una persona carissima, a un'altra anche tanto cara che stava lasciando una riunione e non voleva disturbare con un abbraccio, ha detto: 'Gli abbracci non interrompono niente'. Ha ragione: non ha interrotto il rito notturno della messa del gallo - come si dice in Spagna.

Ma una cosa sono i fatti, un'altra le emozioni, e un'altra ancora i significati simbolici di un evento. Ho visto il video amatoriale molte volte. Solita folla, quadratini di videocamere o di telefonini accesi, una giacca rossa irrequieta agilissimamente scavalca, l'ombra nera di un uomo della sicurezza scatta in avanti, un inglese credo alle spalle di chi riprende emette il classico suono 'eow' (massima espressione dell'emozione per un anglosassone), un po' di caos, e poi...E poi. E poi il Papa mitrato cade in avanti. .

Beninteso, non è accaduto nulla, nulla di nulla, sul piano dei fatti. Non è di questo livello che scrivo. Io ricordo l'attentato al Papa nel 1981, le immagini, il Papa dalla vitalità prorompente che prendeva in braccio i bambini e li baciava e sembrava che se il mangiasse, lo sparo, la corsa sulla jeep, nel sole del maggio romano. Ben altra ovviamente la gravità fattuale, ben altra la portata storica.

Invece questo insignificante evento notturno, una ragazzina folle, forse un tentativo di abbraccio, forse un tentativo di lotta, e il Papa pallido, vecchio, diafano, che cade in avanti, rivestito dei paramenti pontificali, silenzioso, come un grande albero. Un sospiro, e tutto riprende. 

Perché quella caduta è dentro di me, e parla?