Corsari. Sono questo, i monaci.
San Saba è una nave corsara. Così l'ho sentita, vista,
vissuta, così provo a raccontarla, ora, qui: dentro un barattolo di metallo bianco
e verde con scritto Alitalia, a diecimila metri sopra la Grecia, proprio sulla
verticale dello splendido Olimpo, d’auree
nubi adorno, andando verso occidente e già alle prese con la nostalgia –
che più passano le miglia più si tende e geme come la corda di un violino.
[e a proposito, ogni aereo ha un nome, proprio come una
nave; non so come si chiami questo che mi sta portando via; ma quello che mi ha
accompagnato in volo fino a San Saba
era l’Airbus A320 EI-EID battezzato appunto Umberto Saba. “me al largo / sospinge ancora il non domato spirito / e
della vita il doloroso amore”]
Ora, la differenza tra un pirata e un corsaro è che
quest'ultimo milita sotto le bandiere di un sovrano, che gli concede la patente
per la guerra di corsa, e che in cambio riceve una parte del bottino ricavato
dagli arrembaggi e dalle vittorie: ma per il resto è libero, decide da solo
quali sono i galeoni da attaccare, gonfi d'oro come favi di miele e altrettanto
pericolosi da avvicinare. Sì, il corsaro è un uomo libero, e nei racconti è di lui che si parla, del suo nome proprio,
di sir Francis Drake o di sir Henry Morgan, non del re o del principe che lo
autorizza alle battaglie.
San Saba, la nave corsara, naviga nel tempo da
millequattrocento anni, alla disperata caccia dell'Inviolato. Incrocia al largo
dell'Isola di Pasqua, che è Gerusalemme, come anche dell'Isola di Natale, che è
Betlemme. Abbastanza vicino da non poter essere da loro dimenticata, abbastanza
lontano da poter loro dimenticare. Abbastanza lontano per poterle amare,
abbastanza vicino per poterle inquietare. Perché, viste dalle murate di questa
nave, Gerusalemme e Betlemme sono un aggrovigliato sinistro bagliore, una
concentrazione di rumori del mondo. Quando, per caso, sono costretti a
sbarcarvi per qualche ora, i corsari sentono l'orrore del consumo, del consumo
di cibo, di cose, di denaro, di sacro; rabbrividiscono vedendo le orde
multicolori dei pellegrini di un giorno, foulard al collo e telecamerina, che
guardano toccano comprano; e subito hanno impazienza di riprendere il mare,
quel mare vasto e arido che è il deserto di Giuda. Vicino abbastanza, lontano
abbastanza.
Per antica tradizione il Comandante di questa nave è lo
stesso Governatore dell'Isola di Pasqua. Una volta all'anno sale a bordo, e i
corsari indossano gli abiti migliori che hanno, si metton - quasi -
sull'attenti davanti al Governatore, gonfio nella sua sfarzosa divisa da
Ammiraglio. Lo lasciano perfino qualche ora al timone. Che giochi per un po’, loro assecondano la
finzione. Ma si intuisce che non vedono
l'ora che sparisca, contano i minuti, guardano il cielo sperando di scoprirvi
il sole basso. E finalmente l'Ammiraglio se ne va, si può ricominciare a far sul serio la guerra.
Perché il vero Comandante è un
vecchio capitano segnato sul suo corpo - fuori da ogni metafora - da una grande
ustione presa durante un assalto notturno, un anziano lupo di maredeserto dal
volto severo ma dagli occhi dolci, che non sorride mai senza mai essere cupo. E
ancor più di lui il vero Comandante è
San Saba stesso, che costruì e varò la nave, e il cui corpo incorrotto è
custodito e esposto sul ponte, più vivo di tutti loro (e, se mi si consente,
anche con una cera migliore di molti di loro). E ancor più di tutti il vero Comandante è il Re, così come il Re
è il Mandante, così come il Re è il Destino. Perché questa è una nave del Re, non dei
suoi ministri, governatori, ufficiali, funzionari, subalterni.
Fatto terribile e spaventoso è che nessuna donna è mai
entrata in questo luogo. Mi si potrebbe dire: neanche all’Athos. Sì, ma
all’Athos c’è una intera flotta di navi corsare, di giorno da una si vedono le
vele dell’altra, di notte le lanterne, si sentono i colpi di cannone, i canti.
Basterebbe una lunga nuotata per raggiungersi. E poi è una flotta della Regina,
è lei la Donna, è lei che riempie i pensieri, i sogni, è lei che beatifica,
inquieta, tortura e colma di slancio i marinai, riempiendo la Santa Montagna di
divino femminile. Ora, chiunque sa che è facile morire per una donna e compiere
atti di valore davanti a una donna, figuriamoci per la Donna e davanti a la
Donna. Ma San Saba è una nave del Re. Non che la Regina non sia onorata, è
presente in mille immagini mille millanta volte baciate e venerate. Ma è una
nave del Re. L’assenza della Donna è qui più fitta e tetra. Non si ha il
conforto di un occhio femminile che ti ammira mentre combatti. Lo devi fare per
altro. Lo devi fare senza una che ti guardi. Lo devi fare così, senza nessuna
che ti dica mai bravo.
Ogni tanto qualche ufficialetto, qualche azzimato
guardiamarina nella sua uniforme stirata e fresco d’Accademia, qualche giovane
capitano di corvetta, viene in visita al vecchio galeone. E a volte pretende
pure di dire qualcosa di intelligente, di spirituale, di utile. San Saba è oltre
un millennio che insegna a mezzo mondo il combattimento per il Regno dei Cieli,
e quelli magari trovano pure da criticare. I corsari non rispondono nemmeno:
gli fanno fare il giro del ponte, gli fanno guardare il vasto maredeserto dai
bordi, e addio. Non perdono tempo con loro. Non c’è tempo.
Quando io sono salito a bordo, sono stato accolto dal
capitano e da gran parte dell’equipaggio: era sera. Il capitano aveva in mano
una enorme chiave, di un gigantismo surreale, quasi caricaturale, come fosse
una scultura neodadaista di Claes Oldenburg.
A un’ora che non si sa, il capitano chiude la porta, chi è dentro è
dentro, chi fuori fuori. A un’ora che non si sa: perché sulla nave non solo
vige un diverso calendario, indietro di tredici giorni rispetto a quello
normalmente in vigore. Ma vige un diverso orologio. Il computo del tempo
prevede che il tramonto coincida con la mezzanotte. Cosicché la prima notte (il
24 agosto, ossia l’11 agosto a san Saba), vado a letto alle 22 (ossia alle 2 e
50 di notte a san Saba). Ma il giorno seguente sarà diverso, perché il sole
tramonterà prima. Insomma, bisogna intuire, allenarsi al riconoscere i suoni
dei legni, dei ferri, delle campane, e infatti spesso arriverò in grande
anticipo o in ritardo. Se qualcuno vuole sperimentare un senso assoluto di displacement, non sapere dove e quando
si sia, san Saba è il posto giusto.
Sono stato condotto nel grande refettorio, di cui solo
una piccola parte era stata illuminata, per ristorarmi con un po’ di frutta. E’
scesa rapidamente la notte. E’ salito invece il vento del deserto, da oriente,
e prende possesso delle stanze aperte. Dondolano dondolano dondolano le
lanterne.
Poi mi viene assegnata una cella-grotta bellissima, in
cui avevano già acceso la lampada ad olio. Mi lasciano solo ad un riposo breve.
Imparo a conoscere gli abitatori permanenti di questa cella: la notte, il
vento, il silenzio. Forse ***, che è prudente non nominare. Forse anche ###,
che è un comandamento non nominare invano. Sono solo un ospite, è bene che lo
sappia. Rispettare queste presenze è l’unico modo per dormire bene qui.
[Excursus. Un antico corsaro imbarcato su questa nave si
chiamava Stefano. Discepolo (e nipote) di un altro, celeberrimo teologo e
poeta, Giovanni di Damasco. Fatto è che
Stefano visse in una di queste grotte. Eremita, si prendeva cura di ogni essere
vivente, colombe, storni, antilopi. Non solo, però, di questi animaletti
poetici che ci raffiguriamo con i disneyani occhi dolci e a cui è così facile
voler bene. Amava orribili vermi neri, temibili scolopendre, innominabili
ragni, li prendeva in mano e li spostava per non calpestarli inavvertitamente.
Quando celebrava la liturgia nella sua cella, la grotta oscura traboccava di luce.
Dunque Stefano una volta si imbatte in un monaco che non riconosce. Mi immagino
il loro incontro, Stefano chiede d’esser benededetto, camminano fianco a
fianco, parlano poco, disabituati come sono alla relazione. Così Stefano
comprende che oltre alla comunità dei monaci ‘visibili’ ve ne è un’altra, fatta
da invisibili. Non però invisibili per uno speciale potere da supereroi dello spirito. E’ che quando
il proprio ego viene completamente, definitivamente abbandonato, allora
scompare anche quella minima, basica pulsione al riconoscimento che è la
visibilità, la percepibilità del proprio corpo. In sedicimilionesimo è
un’esperienza che capita a tutti (ah, ci
sei anche tu? non ti avevo notato! ed eravamo proprio davanti ai suoi
occhi, e ne soffriamo: in questo caso però non dipende dalla rarefazione del
proprio Io quanto dall’inflazione dell’Io dell’altro). Stefano è affascinato da
questa comunità parallela e misteriosa, come il gabbiano Jonathan quando
incontra il luminoso Chiang. Anche Stefano vorrebbe lasciare la sua Brigata
Colazione, e chiede di farne parte. Ahi. Chi non ha un ego non chiede di far
parte di qualcosa che ritiene più prestigioso. Forse per un attimo a lui
aperte, le sliding doors della comunità degli invisibili si chiudono. A Stefano
viene raccomandato di tornare nella condizione precedente, e di amare tutto e
tutti, il suo compagno si ritrae nell’invisibilità, e Stefano eccolo di nuovo
alla sua grotta e ai suoi amici animali. Ciò avviene nell’ottavo secolo. Ma
altri durante la navigazione nel tempo incontrano questi corsari invisibili.
Anche pochi anni fa si sono manifestati. Quando chiedo al monaco A,
simpaticissimo novizio greco, di quante persone è composta la loro fraternità,
lui risponde: “Che io sappia, siamo venti. Poi – e il suo braccio traccia un
ampio semicerchio sul canyon desertico e sui suoi mille occhi di grotta – poi
chissà”. Certo è che quando i monaci visibili entrano in una grotta palesemente vuota, salutano e chiedono
la benedizione al suo possibile abitante. Principio di precauzione. Hai visto mai.]
I suoni. Verso le due di notte – ora profana – booom booom booom una grande campana dal
suono cupo. I corsari si alzano dai loro giacigli, è il tempo del combattimento
a corpo a corpo, dell’esercizio individuale. Le mani si afferrano alle corde
nere di preghiera, i corpi si flettono e ancora cento volte si flettono nelle
metanie, le fronti toccano il suolo, le labbra lo baciano, per arrivare al
cielo bisogna piegarsi molto, e avvicinarsi il più possibile alla terra. Questa
è ciò che loro chiamano “l’ora del kanon”.
Tre di notte. Un monaco passa in tutti i luoghi del monastero tenendo in spalla
una sbarra di legno sonoro e percuotendola ritmicamente con un martelletto: toc
tactactac toc tactactac toc tac toc tac toc tactactac. E per ultima dongdongdongdongdong
la campana della chiesa. Tutti sul ponte, riuniti, ai posti di combattimento.
Sono le tre e un quarto.
Mesonyktikon, Orthros, ora Prima. Tanto tempo nel buio
caldo e denso, e quasi non respiro dal
sonno, dall’incenso, dalla cera bruciata delle candele, dal sudore dei corpi. Mi
viene data una candela e un pacco di fogli scritti in greco e in russo, tutti
nomi, un’infinità di nomi che chiedono ai corsari di san Saba di essere
ricordati. Ciascuno se ne prende un grosso pacco, e silenziosamente li recita.
Io appena sono in grado di star sveglio, faccio scorrere questi nomi scritti in
una calligrafia improbabile, Alexandros, Fotinì, Sergej, Ekaterina, all’inizio
tento di traslitterare, poi non ce la faccio più,, dico /questa persona, questa
persona, questa persona/ ci penserà Dio a traslitterare, penso, facendo
scorrere davanti al mio sguardo stanco, ai miei occhi-essi-stessi-caverna, il
fiume interminabile di questi nomi-storie, di questi nomi-destino scritti su
foglietti quadrettati di varie dimensioni, logori e sporchi di cera. Poi mi
viene in mente che l’unico libro che mi sono portato dietro contiene due saggi
brevi di Pavel Florenskij, Le radici
universali dell’idealismo e Il nome
di Dio, e in entrambi si parla della forza spaventosa dei nomi. Non siamo
noi ad avere dei nomi, sono i nomi ad avere noi, a renderci compartecipi del
loro senso e della loro sorte. E quindi avanti, pur con fatica traslitteriamo,
Basilios , Panaghiotis, Irene, Olga…
E aggiungevo le persone che io avevo nel cuore, tutti gli
amici, tutti i nomi, tutti i volti, tutti i dolori, tutti gli amori, tutti i
dimenticati, cioè quelle persone che, inavvertitamente, scivolano via una notte
– come scrive Buzzati – dal cerchio dei ricordi per mai più ritornare.
E spesso il sonno vinceva, anche se stavo in piedi.
Elettroencefalogramma piatto, spirito annientato. Imballavo il pensiero su
stupidaggini, per esempio componendo filastrocche. Per dare una saggio di quali
vertici abissali di mistica sia stato in grado di sperimentare in quei momenti,
di quali alte vette spirituali abbia raggiunto, invito a dare un’occhiata alla
seguente poesiola, messa a punto tra le quattro e le cinque in quelle tenebre:
Dorme questo, dorme
quello,
dorme il gruppo
nell'ostello,
e la guida, e il
torpedone,
dormon tutti e stan
benone;
il custode del
parcheggio
dorme, forse un poco
peggio.
Dorme l'uomo del deserto
la cui casa e
nell'aperto;
dorme sodo il cittadino
nel suo appartamentino;
dorme (un poco) anche il
barbone
steso sopra il suo
cartone.
Il cristiano con l'armeno,
il giudeo col saraceno,
dormon: pronti,
all'albeggiare,
ad ancora litigare
fra i quartieri della
stanca
disperata Città Santa.
Nella pace della sera
dormon quieti gli
haredim;
presto si alzerà il
muezzin
per chiamare alla
preghiera
dall'antico minareto,
ma - per ora - dorme
lieto.
Dorme il rabbi e
l'accattone,
il soldato sul gippone
dorme con un occhio solo
per poter cogliere al
volo
ciò che render può
insicuri
quei della città dei
muri.
Dorme il frate nel
convento
e russando fa spavento
al vicino suo di cella
che ora inquieto sogna
un mostro
e gemendo si ribella
mentre attorno dorme il
chiostro.
Dormon savi, dormon
matti,
dormon cani, dormon
gatti,
i malati e le malate
fra le lor luci
azzurrate.
Si assopisce anche il
dolore
che ciascun porta nel
cuore.
Dormon gli esseri
viventi,
l'uomo in tutte le sue
forme.
A San Saba non si dorme:
l'una son le sette e
venti!
Si sta svegli e chi lo
sa
se ciò ha un senso o se
non l'ha.
…eppure queste stupidaggini mi consentivano di non
crollare. La notte non è tempo per affettare doti spirituali che non si hanno.
Ogni tanto si forma una fila nell’oscurità: è il momento
del bacio delle icone. Una processione che in un ordine da me mai compreso
conduce ciascuno a baciare tutte le icone della chiesa, che sono tantissime.
Nessun uomo del mondo bacia così tante volte come questi uomini che non vedono
donna. Baciano volti, piedi, membra, reliquie (e uno di loro, vedendo la mia
inadeguatezza, si avvicina e mi sussurra: you
must kiss more ‘juicy’, if you know what I mean. Juicy. Lo dice lui. A me,
che di veri baci dovrei essere più esperto. I corsari non baciano pezzi di
legno dipinti, questo è certo. Cosa o
chi bacino non so, ma non dei quadri
o delle immagini. Io bacio immagini, invece, ed è per me già tanto tuffare il
mio volto a labbra protese per baciare una figura che non so perché è avvolta
dal buio, e solo a tratti colgo – tra le rare candele, l’enigma di uno sguardo
bizantino o il tratto patetico di un volto naif ottocentesco. Ogni volta sono
decine e decine di icone, e le volte sono tante.
Quasi inavvertitamente si scivola nella Divina Liturgia,
celebrata con assoluta sobrietà e anche con una sorprendente rapidità. Però poi
le Porte Regali si dischiudono, e lo ieromonaco grida di avvicinarsi per il
bacio a Colui che si fa mangiare, un bacio che può bruciare, anzi che deve
bruciare, ma dipende da noi se per incenerirci o per renderci incandescenti [Abba Lot andò a trovare abba Giuseppe e gli
disse: “Secondo le mie possibilità, recito il mio ufficio, digiuno un po’,
prego, medito, vivo nel raccoglimento e, per quanto posso, purifico i miei
pensieri. Ora, cosa devo fare ancora?”. Allora il vecchio si alzò, distese le
mani verso il cielo, le sue dita divennero come dieci fiaccole. “Se vuoi – gli
rispose – diventa tutto di fuoco”].
Le finestre della chiesa ora sono visibili, piccoli archi ritagliati dalla
pallida luce dell’alba. Poi ancora si mangia il pane rimasto, poi si beve
l’acqua attingendo da un fonte di pietra.
Terminato il combattimento, ci si ritrova su una grande
terrazza aperta, sopra di noi la luna e un cielo ormai azzurro-rosa. Ci sediamo
sul muretto a ristorarci e a respirare. Un monaco distribuisce tè, un altro del
dolce, un altro bicchierini di liquore. Sono circa le sei del mattino – ora
profana.
Vi saranno altre chiamate al combattimento ufficiale,
quello che si svolge sul ponte della nave. Al pomeriggio, prima della trapeza, ossia del pasto leggero
consumato in refettorio, con il monaco che legge le vite dei santi, con i piatti e i bicchieri di ferro, e alla fine
viene incensato un bel pane e un calice di vino, e vengono dati a tutti, trapeza, ‘altare’ e ‘mensa’, l’uno e
l’altra, l’uno con l’altra, l’uno nell’altra non solo nella parola, ma nel
gesto, nell’attitudine interiore. Mangiare è un gesto misterioso – sotto certi
aspetti tragico, perché allude alla consumazione e al sacrificio delle vite,
delle forme, dell’essere a beneficio di un altro essere – e quindi va
celebrato.
Ma – sia chiaro – i corsari non si osservano. Non ho trovato traccia di autocompiacimento nel loro
celebrare. Non si coltiva alcun atteggiamento ieratico (che sarebbe, ancora una volta, una maschera, un
personaggio). Vanno alla preghiera così come sono, con le scarpe polverose, gli
abiti non pulitissimi, i paramenti logori. C’è solo sostanza, e naturalmente
questa è anche forma, ma mai orpello.
Cosa accade durante il giorno, quando il sole non lascia
ombre e i monaci sono prevalentemente nascosti, non so. Credo che essi
attendano nelle grotte e nelle celle i loro demoni, e con la grazia di Dio li
combattano. Specialmente il demone meridiano, che predilige queste ore
infuocate e aride, distillando nel cuore quella tendresse de soi, rammollendo la psiche, riempiendo l’immaginazione
di nostalgia di quegli alberi, di quegli occhi, di quelle braccia, quando
invece si ha davanti solo questo odioso deserto, questa vita sprecata e sempre
uguale, questa solitudine soffocante con l’aggravio della miseria di questi
compagni…
Vespro finalmente, le rocce da gialle diventano rosa,
ancora sul ponte, ancora baci, canti. Si avvicina la Dormizione di Maria, e i
corsari depongono in mezzo alla chiesa un’icona di tessuto della Vergine
morente, su un piccolo catafalco che la tiene orizzontale, la cospargono di
erbe profumate, la baciano. Il momento tra il vespro e la compieta è forse il
più sereno, il calore ha ceduto, si conversa un po’, si prende un tè o una
bevanda fresca. Poi l’Apodipnon: reciprocamente i monaci si chiedono perdono e
se lo danno, e si inchinano verso i punti cardinali del mondo. Ecco di nuovo,
col vento del deserto, la notte breve della nave corsara.
E ci sarebbe da parlare del mal di mare, di quel male che
a volte mi ha preso in quei giorni e in quelle notti. Non è sempre facile stare
con i corsari. A volte, e anzi spesso, non li condivido. E allora ho un po’ di
nausea, perché li ammiro così tanto, eppure in coscienza non posso approvarli.
Ma sono appunto corsari, non gente perbene. A sentir loro l’eretico lo si
sbatte fuori senza complimenti, con tanti saluti al religiosamente corretto.
Quel che non è di Dio è del demonio, i confini sono netti, le zone grigie
inesistenti. Gli intellettuali sono gente sospetta, i teologi non ne parliamo,
e anche il loro prete è in fondo uno che ha studiato un po’ troppo. Le
Accademie – nella migliore delle ipotesi – sono luoghi dove ci si trastulla coi
concetti, nella peggiore un serio ostacolo sulla via della salvezza. Gli
episcòpi e le sedi patriarcali, palazzi in cui si scende a compromesso con la
verità. Apparentemente poche ma salde idee nel tascapane della loro mente – non
è questo il credo di ogni soldato? Poche, talvolta rozze, granitiche idee:
quelle che servono a stare in piedi, a vegliare, a digiunare, a far la guardia
dinanzi all’incomprensibile in quest’avamposto desertico, e a rischiare di
farsi ammazzare di acedia qui dentro. A chi è in prima linea e vede gli occhi
del nemico non si chiede diplomazia, ma coraggio: di marciare decisi e di
finire morti in una trincea, tranquillamente, senza essersi slacciati mai lo
zaino – come mi pare scrivesse Bernanos. Le sottigliezze sarebbero di peso. Eppure
ne sorprendi talvolta qualcuno la notte, seduto su una roccia, a guardare
semplicemente la luna, o c’è chi ti porta il tè esattamente nel momento in cui
ti senti solo e ne hai bisogno, e ti viene in mente che esiste un mondo di
delicatezza interiore, un loro giardino segreto, di cui loro hanno gran pudore
e che puoi solamente intuire.
Corsari: sono questo, i monaci. O Dio li prende così,
nonostante siano così, anzi proprio perché sono così, oppure è davvero inutile
parlarne. Ci si imbarca sulla nave di San Saba per tanti motivi: molti di
questi uomini hanno un passato interessante e spesso tempestoso, altri uno
proprio semplice: si viene qui in pellegrinaggio, si capisce che questo è il
luogo, si torna in patria, si chiude il lavaggio auto che si possedeva, si
salutano i parenti e gli amici, si parte per sempre. Oppure c’è la storia del
Corsaro Russo, che è però così particolare e vertiginosa che penso di dedicare
ad essa un capitolo a parte. Si viene qui per pentirsi, piangere il proprio
male, prepararsi a morire. Non solo non è richiesto di esser perfetti, ma anzi
è esattamente il posto in cui si va se si è peccatori.
Lascio la nave un mezzogiorno. I corsari mi sommergono di
doni, dall’icona del Capitano al barattolo di olive greche, dalla corda di
preghiera al dolce macedone fatto di sesamo, insieme ad olio e ad acqua che
miracolosamente sgorga in una grotta e che chiamano aghiasma. Tirano fuori tutto dalle loro povere grotte, perfino dei
leccalecca per i bimbi presi da chissadove. Mi chiedo cosa mi accadrà quando mi
presenterò davanti all’inflessibile dogana israeliana.
Chissà quale sarà di loro quello che la prossima notte
prenderà il foglio che ho lasciato tra gli altri, e mi nominerà, così, nelle
tenebre dense, tra un Demetrios e un'Anastasia.