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lunedì 25 novembre 2013

[Un anno dopo] Eros in esametri ultraortodossi - "La sposa promessa"

November 25, 2012 at 4:32pm

Tel Aviv non si vede mai. Se non si sapesse che si è lì, non si capirebbe. Potrebbe essere un quartiere di ebrei hassidici di dovunque nel mondo: a Parigi, a Chicago, a Gerusalemme. Tel Aviv, la città della spensieratezza israeliana, del lungomare, della musica, della cultura d'avanguardia, dell'amore, e del tentativo di dimenticarsi che si è ebrei, non si vede mai. Una volta si sente: quando, dalle finestre aperte sulla strada, entra il rumore dei woofer e delle risate di Purim. No, Tel Aviv non si vede mai, ma non per questo non c'è, anzi, ciò che non si vede e si cerca di non vedere è inevitabilmente rimosso destinato a ritornare: laddove chi vive a Tel Aviv è forse più 'ebreo' degli ebrei di Gerusalemme.

La diciottenne Shira vive nell'enclave hassidica di Tel Aviv, appunto, dove se una ragazza a ventun anni non è sposata sia lei che il padre si cominciano a preoccupare seriamente. Non essere sposate, non essere state 'prese' da qualcuno, è un'umiliazione che si sconta ogni giorno: ed è il caso della cugina Frieda, bella ragazza dai capelli rossi (che, essendo non sposata, non copre col tichel), un 'diamante' di tenerezza che però nessuno sembra volere: ciò scava di giorno in giorno sotto i suoi occhi delle rughe di sofferenza (ad ogni festa tutti le dicono 'che tu sia la prossima' e non accade mai), e che alla fine però sarà presa anche lei da un anziano vedovo dallo sguardo buono. In quel quartiere gli uomini indossano lunghi cappotti neri, tallit con tzittzit e gli shtreimel, caratteristici cappelli di pelo di certi askhenaziti oppure larghi borsalini neri, mentre le donne hanno calze spesse e coprenti e gonne a pieghe ben sotto il ginocchio, e camminano cinque passi dietro agli uomini. Tutto orbita attorno al rapporto con un D-o onnipresente e incomprensibile, che pervade le esistenze suscitando una devozione folle e danzante che però è chiamata ad esprimersi attraverso osservanze letterali e apparentemente nevrotiche. Proprio questa è, a mio parere, la chiave del film. Una passione travolgente può essere declinata nella metrica rigorosissima delle osservanze hassidiche. Eros non soltanto non è cacciato, ma assume precisamente quel ritmo per cantare il suo canto. Nonostante i colbacchi, i veli, i cernecchi, nonostante le prescrizioni, nonostante le famiglie invasive fino all'assolutamente inverosimile.

Shira, accompagnata dalla madre Rivka (campionessa mondiale del double binding e del ricatto affettivo), intra-vede il suo promesso sposo mentre sceglie uno yogurt in un supermarket kasher. E' un bel giovane biondo, dai lunghi payot ben arricciati. I grandi occhi della ragazzina si illuminano, e la madre è contenta. Solo il padre temporeggia. Fatto è, che l'Onnipervasivo ha altri progetti. Ester, la sorella maggiore di Shira muore dando alla luce il piccolo Mordechai. I parenti siedono in lutto, le comunità li visita e gli augura Hamakom y'nachem etkhem b'tokh sha'ar avelei tziyon viyrushalayim, [L'Onnipresente vi conforti fra i dolenti di Sion e di Gerusalemme], mamma Rivka si spupazza il neonato e se ne innamora. Il lutto finisce, e il contesto preme perché Yochai - il padre del bimbo - si risposi. Si fa strada l'idea che sposi una antica sua conoscenza e vada ad abitare in Belgio. Trema la nonna alla sola prospettiva di perdere il nipotino, e pur di evitarla farebbe tutto, sacrificherebbe tutto. In questo caso la vittima è pronta e vicina: proprio Shira, che viene proposta al più maturo Yochai.

Più oltre non spingo il racconto, perché non c'è. C'è invece - appunto - un magistrale cogliere la trama delle passioni sull'ordito delle osservanze, l'accadere del desiderio, della paura, del subbuglio, delle farfalle nello stomaco, dello slancio, della ritrosia, della tristezza, della solitudine, della separazione, della distanza e della vicinanza: e tutto secondo passi di danza tassativamente regolati. Ogni tanto qualche perla. Shira che suona la fisarmonica per far danzare i bambini in un asilo, e, smarritasi improvvisamente nel sentire il dolore, vira senza accorgersene in una melodia struggente. Un vecchio Rebbe dalla barba bianca, a cui la famiglia si rivolge per dirimere la questione, e che cita Nachman di Breslav ove dice che il Signore id D-o si compiace se nell'arco di una vita un uomo riesce a dire una parola autentica, e che lascia ad attendere tutti per dare consigli a una vedova a proposito del numero dei fuochi e dell'altezza di una cucina che deve comperare.

Poi finalmente le nozze, tremante la sposa vestita di pessimo gusto, affranto lo sposo sostenuto dagli anziani, attorno canti che non si sa siano di gioia o di pianto. perché così è per gli ebrei, non si capisce mai, l'una cosa vira sempre nell'altra e forse per questo sono il Popolo amato dall'Altissimo.

Ultima, straordinaria, brevissima, necessaria scena. I due sposi entrano in casa, lei si toglie il soprabito, lui appende lo shtreimel all'attaccapanni. Si guardano dagli angoli della stanza. Ancora  l'accadere del desiderio, della paura, del subbuglio, delle farfalle nello stomaco, dello slancio, della ritrosia, della tristezza, della solitudine, della separazione, della distanza e della vicinanza. Ma questa volta non cornici di famiglie o di riti a difendere e a indicare i passi da danzare. Solo, forse, D-o. L'Onnipresente onniassente.




sabato 23 novembre 2013

[Un anno dopo] Dannata Firenze (note su 'Salviamo Firenze' di Luca Doninelli)

Venezia 22 novembre 2012, 11.52

Premetto che il libro di Doninelli è bellissimo, e regala a fiorentini e non una prospettiva straordinariamente acuta e originale su Firenze, le sue origini, il suo presente, la sua sorte. Lo fa - inoltre - utilizzando un genere letterario in qualche modo unico, che incrocia il saggio con il romanzo, la poesia, l'autobiografia, la dichiarazione d'amore, l'invettiva, l'assurdo, che in qualche modo mi ha ricordato 'La scomparsa di Israele' di Alessandro Schwed. Altro fiorentino, guardacaso. Sì, è un libro bellissimo, e io l'ho letto tutto a Venezia, e anche questo ha il suo perché. Leggevo di Firenze, che è la mia città, da Venezia, che è per diverse e indicibili e intimissime ragioni ancor più profondamente mia, mia di me
naturalizzato milanese, e che ora vive a Milano solo col corpo, perché mente, passioni, anima e spirito sono tutti in Israele, in Russia, in Birmania, altrove, chissadove.

Però devo ritrattare il mio primo moto d'esultanza: quando, avendo letto le prime righe, ho pensato che il mio odio per Firenze avesse trovato il suo 'autore'. Non è così: Doninelli non odia Firenze. La ama disperatamente, ahimé. Scagliandole addosso giudizi pesantissimi, come ogni innamorato deluso, ma la ama. Dovevo accorgermene dal titolo, esortativo, che chiama a salvare Firenze, come se fosse ancora possibile. Come se Dio non avesse provato a distruggerla in modo onorevole con l'Alluvione del '66 (e io avevo quattro anni, la mia casa fu interamente sommersa dalle acque nere, e molti ricordi mi restano), ma essendo intervenuti gli angeli del fango (uno dei quali fu Pierluigi Bersani, oddio, che ora rivendica e sbandiera la sua azione salvifica dicendo che alla stessa età il suo attuale contendente fiorentino giocava con Mike alla Ruota della Fortuna e comprava le vocali), essendo intervenuti gli angeli del fango, dicevo, - e si sa, Thomas Mann lo dice molto chiaramente, gli angeli, anche quelli cosiddetti buoni, non sono mai andati tanto d'accordo con il Signore Iddio - ha portato a compimento la sua sentenza mediante lo squallore. Non c'è più niente da salvare, Doninelli. Firenze è morta. Rest In Peace.

Non basta, per resuscitarla, applicare la scossa elettrica defibrillante delle tue idee geniali e bizzarre (in ordine: abolire il sottopasso tra le due Sante Marie Novelle, realizzare un Museo della Città, commissionare a un'archistar il rifacimento di piazza della Repubblica, affidare a un giovane architetto la facciata di san Lorenzo, cedere il David di Michelangelo al Louvre (non ci crederete, ho dovuto correggere, avevo scritto: a Lourdes), cedere palazzo Strozzi alla Apple, acquistare il teschio di diamanti di Damien Hirst e installarlo permanentemente sul tabernacolo dell'altar maggiore del Duomo, e per finire con il trasformare la città in un'immensa casa di riposo per intellettuali dolcemente affetti da demenza senile, che a colpi di scalpello e martello potrebbero distruggere il Corridoio Vasariano). No. Come nei telefilm di medici di pronto soccorso, il corpaccione di Firenze certo sussulterebbe, scosso dalle scosse, ma ricadrebbe inerte sulla barella. Perché non 'la stiamo perdendo', Firenze. L'abbiamo già persa. Non c'è ER, non c'è Doctor Home (ehm, House) che tenga. E Doninelli non se ne fa una ragione.

Una delle idee forza del libro è che Firenze non è la culla del Rinascimento, ma la madre dei Rinascimenti (passati, presenti e futuri). "Una madre è il contrario di una culla", scrive. "Una madre può disconoscere il figlio, ucciderlo, oppure semplicemente non comprenderlo. Una madre può impedire al proprio figlio di diventare quello che è, può rovinarne il volto reale a furia di volerlo sostituire con il volto che lei si immagina."
[e mi chiedo, non è questo divorare il Figlio da parte della Madre, impedirgli di avere un volto compiuto e autonomo, ciò che Michelangelo ha espresso, novantenne, nella Pietà Rondanini?]
Continua Doninelli: "Una madre è responsabile, perché sa che il figlio, una volta nato, si allontanerà da lei, e se vorrà mantenersi prossima a lui dovrà trattarlo come si tratta un altro, come un 'io' in faccia a un altro 'io'. Il figlio è tale perché è fuori dalla madre. La culla, viceversa, è una temperatura, è un microclima che avvolge chi è nato piegandosi su di lui, come un prolungamento del ventre materno,così che il nato viene sempre richiamato da questa parte della nascita, quasi risucchiato nell'inazione, nel calduccio adatto al riposo, dove non si sa in quale punto finisca la madre e cominci il figlio, dove 'tu' e 'io' si confondono in una generale sonnolenza. La culla mantiene l'essere in questa sospensione, in questa non-nascita, in questa negazione dell'altro. E' al posto di madre che Firenze deve aspirare"

La culla non muore. La madre a un certo punto muore, è morta, va sepolta. Non si può convivere col cadavere della madre, come si legge talvolta di qualche pazzo in un trafiletto di nera. Si smontino i monumenti, dal battistero alla stazione di Michelucci, pietosamente, fra le lacrime si smontino. Si collochino smontati in un caveau immenso predisposto, non so, nel deserto nel Nuovo Messico o dell'Arizona. Si mettano al loro posto delle copie di cartongesso, realizzate da una azienda giapponese o cinese, tanto per dare agli occhi il contentino di ciò che han già visto. E si trasformi "Firenze" nel più grande outlet village del pianeta. I fiorentini, vedrete, saranno contenti.

"Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più." (Pasolini)

martedì 12 novembre 2013

[Un anno dopo] Atman e Brahman - Tiziano a Venezia

7 novembre 2012. ore 14.26

Da fiorentino – come spesso ho detto – detesto Firenze e la rinnego, e potesse scendere un fuoco dal cielo e consumarla con tutti i suoi figli, quelli residenti e quelli dispersi sul pianeta, incluso me stesso, certo, ma per ultimo, perché per favore voglio almeno assistere. Ah come godrei nel vederla lì distesa, tra i colli di Fiesole e il Valdarno, trasformata in un calderone ardente e fumante e bestemmiante, come mi gusterei – appena prima di intizzonirmi felice me medesimo – quel piccolo e povero dayafter provinciale, e saiquantomenefregherebbe degli Uffizi, del belsanGiovanni, dell’Angelico, di Michelangelo. Crepino i fiorentini e crepitino nelle fiamme i monumenti. Cenere cenere cenere.

Invece Venezia – in sé, ovvio, altrettanto banale e in quanto tale meritevole di fuoco, o meglio di annegamento (e ci sarà pure e certamente un confratello apocalittico veneziano che lo desidera e che prega per questo) - è per me soggettivamente sempre incanto e meraviglia, mistero miraggio miracolo mistica mimesi miele minaccia mirabolanti visioni. E’ sempre iniziazione. E’ sempre spalancamento. E’ sempre stravedamento.
E a Venezia lunedì c’era tanto sole, e c’era ancora un poco di acqua alta, e i veneziani se ne andavano tranquilli con i loro stivaloni ascellari, e i turisti invece si affollavano sulle passerelle piazzate lì dai netturbini, e l’acqua ricopriva il pavimento dei ristoranti cinesi e dei negozietti di maschere, e diligentemente e rassegnatamente e rispettosamente e quasi gentilmente veniva scopata fuori: l’acqua del mare, l’acqua della laguna verdecupo, scopata fuori lei che è la vera Signora.

Girovagando per il sestiere Castello, per il solito caso e per la solita necessità, serendipicamente mi trovo nel palazzo Grimani di santa Maria Formosa. C’è la temporanea esposizione di una tela restaurata di Tiziano, appartenente al ‘trittico’ della sacrestia della Salute: tre conflitti, Caino e Abele, il legamento di Isacco e questo appunto: Davide e Golia. Ma prima è imposto al visitatore un percorso – e dico ‘al visitatore’ non usando un gergo da guida turistica, ma perché questa volta c’ero in pratica solo io – un percorso, dico, sorprendente, inquietante e bellissimo. Si passa per stanze prevalentemente vuote, dai muri bianchi e dai soffitti deliziosamente decorati. Ogni tanto capolavori. Non si può non iniziare con l’atto di hybris che commise Psyche lasciandosi onorare come una dea, e che le costò la gelosia di Afrodite, ma infine anche l’amore di Amore, e in aggiunta dolori e cammino e compimento e oscurità e luce;  poi c’è la stanza di Callisto, che è una stanza dedicata alla trasmutazione, ove la ninfa amata da Zeus – che per poterla amare si muta in Artemide  la signora delle belve –  si trasforma in Orsa, la costellazione che mai tramonta. E poi la tribuna, che è un delirio classico, un sogno geometrico, e letteralmente sospeso nel cielo e tra la luce che discende dalla cupola ecco Ganimede, giovanetto anch’esso amato dall’infaticabilmente erotico Giove, ghermito e portato in alto dall’Aquila divina. E la misteriosa frammentata Nuda del Giorgione. E i pannelli di Hyeronimus Bosch, visioni gnostiche di inferni dai sinistri bagliori e paradisi in cui Dio è puro abisso di luce – l’’occhio liquido, rotante’ di Luzi nella sua Dormitio Virginis, e alla fine la stanza del Davide e Golia.

Golia è immenso, nudo, rovesciato, a braccia aperte, e se non fosse per la possanza dei muscoli potrebbe sembrare il Cristo mentre viene confitto sulla croce. Ma la grossa testa è spiccata dal busto, e il collo mozzato e sanguinante è ben definito. Il capo reciso, livido, dalla fronte ferita e corrucciata, dal grosso naso, dal mento forte, giace a terra nel sangue. Quasi cavalcando il gigantesco braccio sinistro del Filisteo, Davide più che giovinetto, Davide bimbo, la veste sollevata dal vento, è come un tuffo verso l’alto, è una freccia viva e senza volto, il cui bersaglio è il Numinoso, appena squarciatosi di luce. Dominus, qui eruit me de manu leonis et de manu ursi, ipse liberabit me. I due sono, sembrano, un'unica cosa. Cade felicemente la testa corrugata dell’uomo vecchio, balza fuori il puer aeternus e spicca il volo, atman che si riunisce al brahman, atman è la freccia, bersaglio il Brahman da colpirsi senza distrazione, come dicono le Upanisad. Più che una vittoria sembra l’uscita da un carcere, soma e sema, corpo-tomba e lo spirito se ne affranca non senza dolore.

Riesco fra sole e acqua. A duecento metri dal Palazzo degli incantesimi, nella Cattedrale di san Giorgio dei Greci, stanno, sereni, seri, solenni, il Figlio e la Madre. Con gli incorporei che li onorano occupando le vuote stassidie, i due siedono quieti, nel silenzio e nella luce d’oro.

domenica 3 novembre 2013

Blue(tooth) is the coldest colour. Commento a "Vita di Adele"

“Oddio! Oddio!”

La silhouette di una signora magra con i capelli lunghi si staglia contro lo schermo luminoso del cinema. Rispetto a me è (diciamo) a ore due. Nella battaglia navale della sala, io (diciamo)  sono H9, lei potrebbe essere E4. “Oddio!” grida balzando in piedi, e si leva poco più di un brusio di commento.
Mie ipotesi: 1. ha visto un topo, oppure un grosso insetto ronzante le si è posato sulla spalla. Oddio! 2. la persona che le siede accanto si sta sentendo male, o magari è morta, lei si è voltata e ha visto il capo reclinato e il bianco degli occhi rigirati. Oddio! 3. ecco, tre è proprio quanto sta accadendo. La signora, non so come, ha scoperto che il suo vicino di posto è intento in pratiche onanistiche. Oddio! Ma la reazione mi pare esagerata. Infatti l’anziano signore che sedeva in E3 (diciamo), colpito e affondato, si alza e se ne va. Lentamente. Compostamente. Vorrei dire dignitosamente. Sul volto una maschera tragica ma calma. Gli ‘Oddio!’ diminuiscono di frequenza e di volume, ma la signora rimane in piedi, alla fine silenziosa, abbastanza a lungo.

Perché, mentre tutto ciò si verificava, veniva proiettata la lunga e supercontroversa scena di sesso saffico contenuta nel film Palma d’Oro a Cannes. Le Bleu est une couleur chaude. Ossia La vita di Adele, di Abdel Latif Kechiche. Una quindicina di minuti, direi, camera spietata e indagatrice, audio spietato e fragoroso, gli spettatori inchiodati alle poltrone dall’imbarazzo, dal turbamento, dal desiderio, dalla paura. Battono forte i cuori di tutti noi che restiamo nondimeno immobili Tranne il signor cosidddetto porco, che con logica e metodo si dà da fare con il suo attrezzo, e che forse, unico, agisce come il regista vorrebbe. Il cinema sarà pure dedicato ad Apollo l’Obliquo, la sala sarà anche consacrata a Fedra figlia di Pasifae e sorellastra del Minotauro, ma è Pan, il dio mortale, il masturbatore, il violentatore, l’urlatore, a scivolare giù dallo schermo e a prendere possesso della sala. A poco a poco alcuni cominciano a sentirlo. Una ragazza (diciamo) in H5 si alza e ancheggia al ritmo catturante di I Follow Rivers di Lykke Li. Una vecchietta (diciamo) in L12 risponde al telefono a voce alta come fosse nel salotto di casa.

Si dice che nei cinema ‘a luci rosse’ dell’era precedente a Youporn, i vecchietti che li frequentavano – se l’infermiera, il fattorino, la segretaria, l’idraulico o la professoressa si scambiavano alcune battute prima di spogliarsi e passare all’azione – protestassero vivacemente urlando Troppa trama!. All’uscita, fulminante, C – che è dubbiosa sul film, mentre io ne sono entusiasta – commenta: ‘Ah, il film non ha trama. Se l’avesse avuta sarebbe stato perfino peggio’. Infatti il film non ha trama. Tre ore e venti – quasi la durata di un volo tra Milano e Mosca – di meravigliosa, incandescente banalità. Di essa si compiace e quasi si adorna. Perfino nelle scene di sesso non ci viene risparmiato nulla, neppure il romanticume di quart’ordine delle candeline accese sulla mensola. Troppa trama no: poca, niente trama. Ma questo film è il contrario di un film erotico.

La mystérieuse faiblesse du visage d’homme. E’ una delle tante citazioni letterarie presenti in Vita di Adele, in questo caso da Sartre (Moi, j’etais hyper Sartre dans mes années lycée, dice a un certo punto Emma, che è l’altra). Questa debolezza misteriosa Kachiche la protegge avvolgendola di esplicito, di nudo, di sesso brutale. Nel film erotico non-vedere provoca il vedere, in questo film il vedere esige il non-vedere. Questo vedere tutto, questo vedere troppo, esige da chi guarda l’atto pietoso del coprire, del velare, e velando si rivela (ancora una volta) e quindi si incontra la misteriosa debolezza del volto.

Nello specifico il volto che si incontra è quello – incantevole – di Adèle. Volto reso deliziosamente e perennamente imbronciato (anche e specialmente quando sorride) dalla conformazione del labbro superiore inarcato, con in aggiunta uno dei più meravigliosi filtri labiali che Nostro Signore o l’Universo abbia mai creato. Dicesi filtro labiale la nota fossetta tra naso e labbra, che si forma quando la prominenza nasolabiale incontra quella mascellare durante l’embriogenesi: ciò secondo la scienza. Secondo la tradizione ebraica invece è questo il punto su cul alla nascita l’Angelo poggia il dito perché il bimbo dimentichi quel che conosce in quanto anima preesistente e lo rende così pronto per una nuova umana avventura. Insomma, un punto importante, e nel caso di Adèle Exarchopoulos si può francamente dire senza timore di smentita che embriogenesi e angelo dell’oblio abbiano fatto le cose benissimo.

Il volto viene mostrato, inquadrato inquisito, strapazzato dalla cinepresa in mille modi, sottoponendolo a primissimi piani mentre mangia forchettate di spaghetti al pomodoro (e la salsa ricopre il filtro labiale di una patina rosa), mentre succhia ostriche vive che si agitano nel guscio al contatto col limone, mentre bacia ed è baciato, mentre divora ed è divorato, mentre fuma e mentre dorme. Mentre arrossisce quando viene insultato o ritratto. Mentre lotta con dei capelli bellissimi e indisciplinati, capelli vivi che si agitano, si avviluppano, si scompigliano,  si intromettono fra gli occhi e fra le labbra, capelli di Medusa. Mentre è schiaffeggiato. Mentre piange piange piange e le cola il naso, e il filtro labiale si inumidisce. Ma tutto questo assedio di visioni del viso ne conferma la debolezza ma anche l’inviolabilità. Non è questa la via giusta della conoscenza del volto. [Adèle è arabo, e vuol dire Giustizia, dice all’amica: forzando l’etimologia, perché Adil vuol dire Giusto, ma al maschile]

Adèle la vediamo che mangia, danza e fa sesso, poi danza (in modo semplice ma dannatamente sexy), poi mangia. Certo, c’è la storia d’amore, ma è scontatissima, le due si incrociano in strada, lei liceale trasognata, l’altra lei sgamata coi capelli blu (e c’è pure, brrr, il ralenti), l’altra la va a prendere a scuola, lei ha l’immancabile e sensibile amico gay, poi lei takes a walk on the wild side che poi tanto wild non è (son tutti bravi e gentili) e poi fanno sesso, e poi si presentano ai rispettivi genitori, e poi tradimenti e scenate di gelosia, e lei che fa la maestra, e l’altra che fa l’artista e si circonda di fighettame alla moda sottovuoto spinto, e commozione, e patemi d’animo. Ma è una trappola. Questo non è un film sui sentimenti, sulla trasgressione, sulle passioni, sull’eros. E’ un sentiero ingannevole, sembra quello giusto ma vi deluderà, e uscirete sentendo la fatica di tre ore di scontatezza.

Guardando le scene di sesso, e i due corpi bellissimi e bianchi che si attorcigliano in ogni modo senza poter veramente congiungersi, mi vengono in mente due IPad. Ora salterete su e penserete che io sia perverso. No. Va bene: forse un po’. Però, se ci pensate, gli IPad non hanno porte USB, non hanno aperture per CD. Non ci si può ‘infilare’ nulla dentro. La connessione è immateriale, bluetooth, wifi. Una volta avevo appena installato sul mio smartphone un’applicazione chiamata Bump. Funziona così: si condividono dati e documenti facendo ‘scontrare’ (bump!) i telefonini. Stavo quindi divertendomi a  scambiare delle fotografie con la morosa di un amico. Bump, bump. A un certo punto il mio amico interviene: “E piantatela!”. La sua morosa sgrana gli occhioni: “E perché?” Lui: “Ma perché è allusivo!”. Aveva ragione, è effettivamente un po’ allusivo. Adéle e Emma fanno bump. Ma i corpi umani non sono progettati dalla Apple. Della Apple questi corpi hanno la bellezza e la sensualità (penso a F, un amico che ogni volta che vede il mio IPad costretto nel guscio protettivo mi rimprovera quasi fossi un talebano che impone il burqa alla sua splendida moglie, che non è disposto a lasciare esposte e nude le sue forme e le sue curve, a accarezzare le sue superfici che si eccitano e si illuminano al touch e osa perfino ricoprirle con una pellicola trasparente). Ma i magnifici corpi non hanno il bluetooth. Fanno bump e certamente qualcosa succede, però non si possono scambiare veramente cose senza una connessione fisica [particolare non credo inessenziale: curiosamente il film è ambientato in uno scenario tutto analogico: i telefoni sono fissi, non compare mai un computer, gli studenti leggono su libri Gallimard, i bimbi usano gessetti e lavagna]. E Adèle ha come una scossa elettrica quando tocca il pancione di una donna incinta, perché intuisce l’abissale differenza. La promessa di fecondità di un immensa magnolia fiorita è disattesa già in una delle prime scene. Vano e dolce il suo assopirsi accanto a un immenso tronco d’albero, la cui chioma la inonda di foglie. E dolce e vano è il suo tentativo di amplesso col sole, distesa sulla superficie marina nella posizione del morto, col filtro labiale ricoperto di acqua salata.

Lungi dall’essere un bildungsfilm che celebra l’omosessualità, non so quanto volontariamente ne denuncia la costitutiva incompiutezza. Però non è che un rapporto etero colmerebbe tanto di più il vuoto. Sarà perché è mia e la trovo ovunque, ma ho veduto in Adéle un’attesa più grande ancora, infinita. In fondo anche io ho avuto un appuntamento – in un giardino piuttosto segreto – con un’amica pianta che ogni anno in questo periodo mi dona una sua foglia, un piccolo ventaglio giapponese color giallo splendente.

No, non è un film di emozioni, è un film d’essere. Il tema è la generatività e la sua mancanza, il suo rimpianto. (J'ai l'impression de faire semblant, il me manque quelque chose dice Adèle studentessa, mentre legge La Vie de Marianne di Marivaux). L’esito non può essere che l’andar via traballanti, senza voltarsi, dalla terra degli uomini cavi, verso un destino di solitudine.

E allora forse aveva ragione il poveruomo: tecnoantropologicamente un vecchio 286  che, di fronte ai due corpi Apple che facevano bump, ha provato a tirar fuori il suo floppy da cinque pollici e un quarto, ovviamente obsoleto. Ed è stato cacciato.

Oddio!