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domenica 29 dicembre 2013

[Quattro anni dopo] Dormire davanti a Dio

Ieri sera, parlando con una carissima amica, le raccontavo del personaggio che preferisco nel presepe. E' l'unico ad esserci sempre - eccezion fatta, ovviamente, per i protagonisti. E' il pastore dormiente. E' un piccolo specchio per me, innamorato del sonno e non sempre corrisposto.

Mi sono sempre chiesto come sia possibile dormire davanti a Dio. Insomma, seppur con il tipico understatement che caratterizza Gesù, stava accadendo qualcosa quella notte. Si muovono stelle nel cielo, la notte è piena di voci di angeli, caravanserragli pieni e carovane che si avvicinano. Il pastore, però, infischiandosene di tutto quello che c'è attorno, dorme. Dorme: et Verbum caro factum est. Dorme: e accade l'evento cruciale della storia del mondo. Dorme.

Poi ci sarà il biblista che ci dirà che il sonno è la reazione umana tipica sulla soglia delle teofanie (per esempio il sonno di Adamo, di Giacobbe, o del terzetto degli Apostoli prima della Trasfigurazione).

Poi ci sarà lo psicologo che ci dirà che la rivelazione ha come scena fondamentale il mondo onirico.

Poi ci sarà il filosofo (anzi c'è, Jean-Luc Nancy, "Cascare dal sonno") che scriverà: "Io casco dal sonno e, al tempo stesso, mi cancello in quanto 'io'. Io casco in me e me cade in sé. Non è più io, è sé, che non fa altro che tornare a sé. Di qualcuno che riprende coscienza (...) si dice che 'torna in sé'. Ma in realtà, torna alla distinzione dell''io' e del 'tu'. Torna al distacco dal mondo"

Va bene. Tutto giusto. Per me, se nel presepe c'è il pastore addormentato, è come se ci fossi io.

December 29, 2009 at 10:56am


venerdì 27 dicembre 2013

Il carato estinto. Invito all' Algor Danza

Confesso: ho sognato anch’io di diventare un diamante. Ho accarezzato l’idea di trasformarmi in carato, da quando ne ho appreso la concreta possibilità.

Venite con me, oggi vi porto in Svizzera. Oltre Lugano (città di banche e di eutanasia dove puoi andartene con un’iniezione letale in un appartamentino vista lago con la moquette e le stampe naif alle pareti – e sarà da indagare questa affinità strana tra Svizzera e morte), andiamo oltre Bellinzona, risaliamo insieme la strada a nord-nord-est fino a Coira/Chur, a Cuira l’antichissima città, che vide popolazioni umane fin dall’età della pietra, distesa com’è nell’alta valle del Reno. 

Fa un po’ freddo, prendiamo qualcosa da bere? Entriamo al Giger Bar. 




E’ un bar voluto e costruito da Hans Ruede Giger, scultore surrealista e simbolico nato qui e noto per essere l’autore di Alien, ma anche per aver immaginato i biomeccanoidi, creature composte da carne umana inembricata con metalli e meccanismi. Avreste preferito magari una cioccolata calda in centro, in una pasticceria grisonnaise, al caldo di una stube? Fidatevi, è meglio stare qui al Giger, nella sperduta zona industriale, qui, seduti su queste sedie fatte di ossa. Conviene stare qui, per il discorso che dobbiamo fare. Cosa prendete?

Perché poi dobbiamo visitare Algordanza, in Ringstrasse 34. Cosa vi viene in mente sentendo questa parola? A me viene in mente algos, dolore, e poi anche algor mortis, cioè il raffreddarsi del cadavere dopo la morte, e tutto questo associato al danzare. Ebbene, Algordanza (www.algordanza.com) è un’azienda, un gruppo internazionale presente in Austria, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Corea, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Messico, Monaco, Olanda, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Thailandia e Stati Uniti d’America. Se portiate le ceneri del vostro caro defunto, loro prima le catalogano, le protocollano, le identificano; poi le analizzano – per verificare che si tratti di ceneri umane; poi da esse estraggono, attraverso procedimenti fisico-chimici, il carbonio; poi trasformano il carbonio in grafite, che a sua volta sottopongono (con macchine di produzione russa) a una temperatura di oltre 2500 gradi e a una pressione pari a sessantamila volte l’atmosfera terrestre: in questo modo la grafite – in settimane di trattamento - si tramuta in diamante; poi il diamante grezzo viene tagliato e pulito secondo le vostre indicazioni; poi viene eseguito un controllo della qualità, e viene redatto un certificato riportante i dati di purezza, taglio, peso, colore del diamante, nonché l’attestazione del legame tra quel diamante e le ceneri del vostro caro defunto; poi, su richiesta, viene incisa sul diamante un’iscrizione con un potente laser; infine vi viene consegnato in una scatolina personalizzabile. Algordanza ha finito il suo compito, per cui si farà pagare bene. Del resto perché un diamante si formi in modo naturale, nel grembo della terra, cotto al fuoco della terra stessa, sotto l’immane pressione delle montagne, ci vogliono milioni di anni, e poi deve essere strappato alla madre dalla violenza della miniera. E’ quindi congruo pagare qualcosa per ottenerlo in modo tanto semplice. Potrete fare del diamante l’uso che vorrete: tenerlo lì, per guardarlo; oppure incastonarlo in un anello, in una collana, in un orecchino, o in una cavigliera, o magari utilizzarlo per un piercing all’ombelico.


Sì, Algordanza, sì. Trasformami in diamante. Adorna di me il pendaglio di una Devadasi, che mi tenga sulla sua pelle color ambra mentre danza il Bharatnatya davanti al Signore Shiva, mentre io sfrango diffrango e rifrango le luci delle lampade in milioni di riverberi. Mettimi al centro di un puro cerchio d’oro portato al dito dalla mia amata di sempre. O a tempestare la base di un calice da messa, elevato al cielo mattina dopo mattina da pallide mani sacerdotali. O ancora meglio, vendimi, vendimi, fammi costare caro, fammi passare di dito in dito, di collo in lobo, rendimi desiderio di donne, rendimi dono di uomini, rendimi eredità concupita. Oh Algordanza, come sembra preferibile questa sorte, questa allucinazione di luce, rispetto al realistico e chissà se prossimo giacere immerso nei propri liquami in un involucro di zinco, nel buio gelido di mattoni e di marmo, con fuori fiori di carta polverosi e una finta candela elettrica, mentre dentro il corpo si trasforma in cuoio teso su ossa o in viscida cerea sostanza saponiforme.

Sì ma. Davanti a me, su una poltrona del Giger Bar dove il mio piccolo Geist des Erzählung mi ha, e ormai vi ha, trasportato, è seduta A. A ha occhi chiari e mente chiarissima. Parlare con lei è come bagnarsi in un lago alpino di cui non riesci a vedere il fondo, nonostante l’assoluta trasparenza dell’acqua. Una mente adamantina, diamantina, tanto per rimanere in tema. Mi piace paragonarla alla lama affilatissima di una katana di samurai che – immersa e tenuta immobile in un ruscello – taglia in due un petalo di fiore di loto trasportato dalla corrente: tanto differente dalla mia, che penso fatta di metallo volgare, buono a forgiarci un badile arrugginito a forza di rovistare nel fango della contemporaneità, di vangare l’orto, di scavar fosse da morto – ancora in tema – per magari solo per caso trovare un modesto tesoro. Insomma, A. A dice: Mi piacciono i gioielli, ma quel diamante non saresti tu. Ma come. No, insiste A, e mi spiega pazientemente che il Carbonio sarà anche alla base della vita, ma nel girotondo chimico con Idrogeno e Ossigeno, per prima cosa. E poi il caro estinto più che nel Carbonio è del DNA, una molecola resistente, tenace. Che è certamente presente nel liquame, nella pelle fatta cuoio, nella carne saponificata, nelle ossa, e forse anche nelle ceneri e da quel DNA ti si potrebbe magari clonare: ma certo non è nel diamante sintetico. Il diamante non contiene alcuna orma chimica di quel che eri da vivo. Sì, i suoi atomi che hanno fatto parte del tuo corpo, ma il tuo sudario biologico, il lenzuolo molecolare che pietose veroniche deporranno nella cassa, è tutta un’altra cosa. 

Le dico: A, non so. Hai ragione, il diamante è molto più lontano dalla vita della putrefazione. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior, cantava De André invaghito di una prostituta genovese. Tuttavia mi sembra comunque un destino la atomizzazione, se non altro quando il Sole diventerà una gigante rossa e divorerà il pianeta nel suo infuocato ingrandirsi. Il punto mi sembra un altro. Trasformarsi in gemma è allettante, ma quando l’angelo suonerà la tromba per l’adunata finale e i corpi verranno chiamati alla resurrezione, ho l’impressione che – imprigionati nel reticolo cristallino ottaedrico o dodecaedrico o esaciottaedrico o rombododecaedrico – i miei atomi farebbero tanta fatica a districarsi l’uno dall’altro per ricomporsi nella mia forma secondo l’innamorato volere di Dio. E’ vero però che esiste tutta una teologia delle gemme. Adesso sto per dilungarmi in un excursus che forse annoierà A, ma non voglio che possa annoiare voi, quindi saltatelo pure e mentre parlo bevete il vostro cocktail Giger.

[Penso al pettorale del giudizio indossato dal sacerdote Aronne (Ponesque in eo quattuor ordines lapidum: in primo versu erit lapis sardius et topazius et zmaragdus; in secundo, carbunculus, sapphyrus et iaspis; in tertio, ligyrius, achates et amethistus; in quarto, chrysolitus, onychinus et berillus. Inclusi auro erunt per ordines suos. Habebuntque nomina filiorum Israhel, duodecim nominibus celabuntur, singuli lapides nominibus, singulorum per duodecim tribus – Esodo 28). La stessa Gerusalemme Celeste, che in Apocalisse san Giovanni vede descendentem de caelo, a Deo, paratam sicut sponsam ornatam viro suo, è sorprendentemente minerale (Et erat structura muri eius ex lapide iaspide, ipsa vero civitas auro mundo simile vitro mundo. Fundamenta muri civitatis omni lapide pretioso ornata. Fundamentum primum iaspis, secundus sapphyrus, tertius carcedonius, quartus zmaragdus, quintus sardonix, sextus sardinus, septimus chrysolitus, octavus berillus, nonus topazius, decimus chrysoprassus, undecimus hyacinthus, duodecimus amethistus. Et duodecim portae duodecim margaritae sunt per singulas, et singulae portae erant ex singulis margaritis. Et platea civitatis aurum mundum tamquam vitrum perlucidum ). Nel Nome della Rosa, quando siamo già al sesto giorno e ci sono un sacco di morti ammazzati alle spalle, e tutto si apparecchia alla fosca apocalisse finale, l’Abate Abbone, conversa con il novizio Adso sulle virtù spirituali delle gemme, facendogli sfolgorare ipnoticamente davanti agli occhi il suo meraviglioso anello. Ricalcando Ildegarda di Bingen – onnisapiente monaca medievale, corteggiata e sdoganata dalla new/next age per i suoi interessi cosmonaturalistici che i moderni scambiano per tendenze panenteistiche, nonché per il suo tendere al benessere del corpomente (è la madre della cristalloterapia) più che al punire la carne fomite di peccato – l’Abate decanta la virtù delle pietre preziose. Ogni gemma racchiude in sé acqua e fuoco. Tuttavia il demonio rifugge, abomina e disdegna le pietre preziose, che ridestano nella sua mente il ricordo del loro originario splendore, quando ancora egli rifulgeva della gloria concessagli da Dio, e nel contempo scaturiscono dal fuoco che danna la sua stessa esistenza, dice Santa Ildegarda, che in un inno meraviglioso chiama Maria splendidissima gemma. Ma ancora prima, nella storia, l’Abate si dimostra un teologo delle gemme, e argomenta che se ogni creatura – anche la merda o il millepiedi – indica la via della risalita causale verso il Padre delle Luci, quanto più le gemme, che sono luce condensata, possono additarla chiaramente.]

L’excursus è concluso, prestatemi attenzione adesso. Sto dicendo ad A che la resurrezione dei corpi continuo a immaginarmela ingenuamente secondo la visione delle ossa aride di Ezechiele 37, col grido profetico su di esse: ed ecco che quelle ossa cominciano a muoversi, gli scheletri cominciano a comporsi, crescono i nervi, la carne, e la pelle (et ecce commotio, et accesserunt ossa ad ossa unumquodque ad iuncturam suam, et ecce, super ea nervi et carnes ascenderunt, et extenta est in eis cutis desuper). Ma i corpi sono come zombie, disanimati, il profeta deve aumentare l’intensità del suo grido, che adesso è un urlo spaventoso, finché viene convocato lo spirito che finalmente possiede quei corpi e li fa rivivere (et ingressus est in ea spiritus, et vixerunt, steteruntque super pedes suos: exercitus grandis nimis valde). Insomma, e se i miei atomi in quel momento sono incatenati nella rigida geometria del cristallo, anziché distesi in forma d’ossa sulla polvere della valle di Iosafat? Riusciranno ugualmente a trasformarsi in carne che possa fremere di nuovo al soffio? A sorride. Se Dio conosce ogni stella e la chiama per nome, conosce certo per nome ogni atomo, ogni particella subatomica, e perfino il suo famigerato bosone. Accorreranno, stai tranquillo, da ogni parte del cosmo. Il cristallo non sarà un problema.

Qui però interviene C. Ma non è come pensate. Gli atomi dell’universo sono finiti, sono stati componenti di molti esseri diversi. A chi apparterranno alla fine? C ha ragione: ciascuno di loro è stato mattoncino di innumerevoli forme di Lego, costruite e distrutte dal Bimbo Divino nel suo gioco creativo. E cosa avverrà? Le forme si contenderanno i mattoncini? I patterns lotteranno l’uno contro l’altro onde avere la materia necessaria ad esistere ancora?

Non è possibile. Risorgerà un unico corpo cosmico. Saremo gli uni negli altri, gli uni dentro gli altri. Un singolo atomo sarà contemporaneamente parte di un fiocco di neve, di un barattolo, di un ammonite, di una libreria Ikea modello BORGSJÖ, di un’onda marina, del becco di un piccione di san Marco, di un ciottolo di fiume, dell’anello di zucchero formato dal boccale di birra di un tifoso olandese in un pub di Glasgow alla vigilia di Celtic Ajax il 5 novembre del 2013, di sterco liquido di bovino terrorizzato mentre viene macellato, della vetta del monte bianco, del muro occidentale a Gerusalemme. Di un diamante Algordanza. Del cervello di chi inventò e fondò Algordanza. Di Hans Ruede Giger. Dell’abside della cattedrale romanico-gotica di Coira. Di te che leggi e che ora hai dentro un sentimento che non comprendi bene. Degli occhi chiari di A. Dei capelli scuri di C. Di me.

E di Te, oh, forse di Te , certo di Te.

giovedì 19 dicembre 2013

Il discorso del Re

Per chi parlava? A chi si rivolgeva con quel suo linguaggio gestuale incomprensibile a tutti – e credevano fosse per i sordi, ma i sordi lo capivano meno degli altri -, chi è che serviva, con quel volto impenetrabile, serissimo, tutto compreso nella sua funzione? Per chi, e volendo dir cosa, quell'uomo si toccava fronte, labbra, cuore? Chi era che sedeva nello stadio, e aveva mandato quel traduttore, apparentemente a mediargli le parole degli Importanti della Terra?



Muore Mandela e il mondo si ritrova nella com-unione e nella con-divisione, nelle con-doglianze e nella con-vivialità. Muore uno statista, un simbolo, un guerriero, un profeta, un rivoluzionario, un capo, una speranza, muore l' icona delle icone (come titola un giornale irlandese), muore un gigante, una nera luce, un padre, un apritore di sentieri, un logo tardomoderno, un nobel-per-la-pace , un santo, un'ispirazione per l'umanità, muore Madiba.

Il web lo celebra, lo piange, lo esalta, il suo solo volto compare su milioni di profili, e anche sul mio, sì, anche io, che mi faccio punto d'orgoglio di non unirmi alle campane delle concelebrazioni social mediatiche, anche io pubblico su Facebook una sua immagine - pur se triste: lui a letto, con quel pallore particolare che appare sulla faccia dei neri, lui cupo, lui solo, e i colori freddi di uno schermo digitale in un angolo, chissà. Poi però la cambio subito, mi sposto sull’allusivo, e metto la foto di un elefante morto, immenso, disteso su un fianco, con un giovane indiano che gli cosparge il capo di fiori colorati e di burro fuso: perché l’India è così, nascita o morte, gioia o dolore, bellezza o orrore, uomini animali piante sassi, è sempre il dio che bussa alla porta, e credo che anche l’Africa sia un po’ così, e forse specialmente il Sudafrica in cui ci sono tanti indiani, così che perfino il Mahatma è venuto da lì. Forse nessuno lo ha capito che era una foto per Mandela. O magari qualcuno sì.

Perché infatti, la commemorazione, il memorial service, lo sappiamo tutti com’è andata. C’era il popolo ma c’erano anche i vip. C’era il Principe Carlo d’Inghilterra con accanto l’invisibile fantasma della Madre Immortale che gli sbarra la strada al trono, poi c’era l’Ultimo Re di Scozia, al secolo l’attore Forest Withaker, e c’era Oprah – poteva non esserci? – e la bellissima attrice afrikaneer Charlize Theron, e Bill Clinton, e Bono degli U2, e George Bush, e tanti presidenti e capi di stato, c’era perfino Letta, e Obama che naturalmente diventa anzitutto primo miracolato di san Madiba e stringe la mano a Raul Castro, poi protagonista di un gossip divertente: si scatta un selfie sorridente e malandrino con l’affascinante primo ministro danese Helle Thorning-Schmidt, provocando l’immediato protrudersi del labbro inferiore di Michelle, e infine un saggio scambio di posti fra loro.

Ci si immagina la security. I cecchini su ogni tetto coi loro mirini reticolati e i puntatori laser. I marcantoni in completo nerofumo con i Rayban e l’auricolare a spirale che chissà mai cosa gli dicono. I metal detector che scannerizzano ogni cosa che passa. Le perquisizioni minuziose. I documenti da presentare, controllare, verificare. Insomma, ci si immagina una fitta ragnatela anti-intrusione. Ed ecco che questo signore se ne fa un baffo della sicurezza, e si mette calmissimo accanto ai Potenti. Nessuno lo ferma, nessuno gli domanda nulla. E traccia in mondovisione gesti incomprensibili nell’aria. Rivolti a chi? E cosa diceva?

Fatto è che, con tutta probabilità, una coorte invisibile era stata mandata dall’alto – o dal profondo, ché non è diverso – a ricondurre Madiba nel luogo ove ogni conflitto tace, e ove anche la pace non è che una parola senza senso. Ma in quel luogo si entra nudi, bambini, smascherati. Combattere ad alta voce è da coraggiosi – scrive la Dickinson – ma so più valoroso chi si appunta dentro al petto la Cavalleria del Dolore. Quelli che vincono, e le nazioni non vedono, quelli che cadono, e nessuno li osserva, i cui occhi morenti nessun Paese gratifica di uno sguardo patriottico. In incorporea schiera, nelle loro uniformi di neve con gli elmi piumati,  - mentre il loro messaggero disegnava nel silenzio un discorso rivolto solo a lui - pietosamente spogliavano il defunto di ogni ruolo, gli toglievano dalle rughe ogni espressione di circostanza, lo liberavano da ogni personaggio, lo alleggerivano di ogni premio, lo affrancavano da ogni simbolo, lo sollevavano da ogni virtù di rappresentanza, lo aiutavano a deporre ogni peso – perfino da quello di dover essere colui che portava il bene e la pace nel mondo. E volete la traduzione del famoso discorso dei segni? Eccola. Dunque diceva:” Rolihlahla, Combinaguai,  è venuto il momento di mollare tutto, di dimenticare l’isola e la cella e il palazzo, e i ventisette anni e i ventitre anni, e l’apartheid, la rivolta e il trionfo, l’ingiustizia e la giustizia, la violenza e la pace, e l’arcivescovo Tutu e il presidente De Klerk e perfino il compagno di galera Ahmed Kathrada, e le mogli e le figlie e l’amore e i litigi e le separazioni, e il tuo paese arcobaleno ancora straziato e insanguinato, dimentica tutto, Combinaguai, è venuto il momento di lasciar andare tutto, ti è perdonato il tuo male (che è facile per Dio), ti è perdonato il tuo bene (che è più difficile perfino per Dio), a te - che tanto hai perdonato e convinto al perdono - è perdonato anche il tuo perdonare, ti è perdonato l’esserti considerato master of your fate, ti è perdonato l’esserti ritenuto captain of your soul [e qui gli elmi piumati hanno ondeggiato appena, e ciò perché gli angeli ridevano di un riso di cristallo, tanto assurde erano quelle parole, come fa l'anima ad avere un capitano], non sei Invictus, sei solo Rolihalhla, Combinaguai e ora devi lasciarti vincere”. Ah, c’è voluto tempo per convincerlo. La svestizione è stata lunga: Nelson Mandela, Presidente dell’African National Congress, Presidente del Sudafrica, Sakharov Prize for Freedom of Thought, Международная Ленинская премия, Nobel Prize for Peace, Istitutore della Truth and Reconciliation Commission, Balì di Gran Croce dell’Ordine di San Giovanni, Presidential Medal of Freedom degli Stati Uniti d’America, Bharat Ratna – ovverosia Gioiello dell’India - , Liberatore della Città di Soweto. Ma alla fine tutto è stato abbandonato, Combinaguai ha potuto finalmente andare, mentre sotto la pioggia assistevano, attente e intense, le anime ancestrali dell’Africa.

Leggo proprio adesso sul giornale che il signor Thamsanqa Jantjie il gesticolatore è uno schizofrenico con trascorsi criminali. La celeste schiera ha voluto vergare nell’aria il discorso del Re utilizzando – come pennello vivo – uno intriso del sangue e della follia dello sterminato, misterioso continente.

To fight aloud, is very brave—
But gallanter, I know
Who charge within the bosom
The Cavalry of Woe—

Who win, and nations do not see—
Who fall—and none observe—
Whose dying eyes, no Country
Regards with patriot love—

We trust, in plumed procession
For such, the Angels go—
Rank after Rank, with even feet—
And Uniforms of Snow. 


Combattere ad alta voce è da coraggiosi
Ma so più valoroso
Chi si appunta dentro il petto
la Cavalleria del Dolore.

Quelli che vincono, e le nazioni non vedono,
Quelli che cadono, e nessuno li osserva,
I cui occhi morenti nessun Paese
Guarda con amore patriottico.

Crediamo che – in piumata processione –
per coloro gli angeli procedano,
schiera dopo schiera, con passo cadenzato,
e le uniformi di neve.

Emily Dickinson


domenica 8 dicembre 2013

"Se nourrir des inscriptions, des tracés instinctifs" - Art Brut a Verona

Presento una mostra d'arte. Alla Gran Guardia di Verona. Dove - se verificate - è in corso "Verso Monet. Il paesaggio dal Settecento al Novecento". Con opere di Poussine, Lorraine, Van Ruisdael, Van Goyen, Hobbema, Canaletto, Guardi, Bellotto, Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, Caillebotte, Degas, Manet, Van Gogh, Gauguin e Cézanne. Però io non presentavo quella. In un grande stanzone dal soffitto altissimo, illuminato con faretti assieme troppo forti e troppo deboli che lo fanno assomigliare alla biglietteria di una stazione ferroviaria, un gruppo di amici generosi e cari immolano i loro giorni prenatalizi alla causa di un ciclo di incontri sulla condizione carceraria (http://www.verona-in.it/wp-content/uploads/2013/12/FRATERNITA-tra-murales-manifesto-1.jpg). Al centro della sala, la ricostruzione filologicamente fedele di una cella per quattro persone, in cui si può entrare e assaggiare la claustrofobia, moderata: perché la ricostruzione non ha il soffitto, e perché è fatta di legno caldo e non di intonaco sordido. Ai lati tanti cavalletti e tanti quadri, dipinti da detenuti e da detenute che han frequentato un corso di Pittura. Questa è la mostra che devo presentare: qualche decina di persone, mentre a qualche metro ce n'è una lunga fila in attesa di vedere i Grandi Maestri, e in piazza Bra impazzano gli ormai onnipresenti mercatini di Natale.

Inizia l' "evento". Un po' di musica: Renato dei Kings. I Kings, hanno inciso con la Durium i Kings. Cinquant'anni fa.  Renatodeikings. Viene così presentato: Renatodeikings unmitounaleggenda. Non scherzo. Morandi, Dik Dik, Equipe 84, Jimmy Fontana (il mo-ooondo, non si è fermato mai un mome-e-e-e-e-nto). Musica che si sentiva quando ero appena nato. renatodeikings si esibisce appollaiato su una postazione da one-man-band - senza che gli venga fatta neppure la carità di un abbassamento di luci - con davanti un amplificatore e un pc su cui scorrono, tipo karaoke, le parole delle canzoni. Poi in serie vengono lette: una poesia bellissima di un detenuto di Volterra, una conversazione con Ho Chi Minh, una terribile lettera di Gramsci, e viene recitato - benissimo - un monologo in romanesco sul carcere di Alessandro Mannarino. "E ora si presenta la mostra d'arte". Tocca a me. Sono nel posto giusto, altro che i sussiegosi paesaggisti della porta accanto...

Quel che segue è la trascrizione del mio intervento:

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Non sono un artista, non sono un critico, non sono un intenditore d’arte, e non so neppure disegnare. Inoltre non sono un giurista, non sono un operatore o un volontario nel carcere. E questa è una mostra di arte realizzata in carcere. Rimangono quindi per me piuttosto misteriose le ragioni per cui Arrigo ha voluto che fossi io a presentarla.
Il mio ‘avere a che fare’ con l’arte è comune a tanti: frequentarla, come e quando posso, in modo ingenuo, non colto, non raffinato, fa parte dei modi di nutrire la mia vita, come direbbero i saggi del Daoismo. Proprio qualche giorno fa mi trovavo in Università e ho sentito proprio nel corpo che mi mancava la bellezza, proprio la bellezza artistica, ed era una sensazione strana, di deprivazione, come se mi mancasse lo zucchero o i sali minerali e facessi fatica a camminare. Allora ho lasciato lì le cose che avevo da fare e mi sono precipitato a Palazzo Reale (che a Milano è il luogo dove si tengono le principali mostre), e non sapevo veramente neppure cosa andare a vedere, poi ho scelto Rodin, e per qualche ora mi sono abbeverato alle sue forme, ai marmi che lui rende luce liquida.
Il mio ‘avere a che fare’ con la Giustizia si limita all’aver condiviso – fin quasi dal suo inizio, in Italia – l’esperienza della mediazione, e particolarmente di quella fra reo e vittima. Di avere visto e ascoltato tante storie, di avere visto e ascoltato tanti volti, tante parole, di avere incontrato tanta sofferenza, di essere stato testimone di tante trasformazioni. Ho con incoscienza accettato la proposta così, senza pensarci troppo: mi metterò davanti a queste immagini, provando a essere vuoto. Come accade in mediazione: il mediatore siede con il reo e con la vittima, silenzioso, impotente, vuoto, inutile, solo “testimoniando” quel che avviene tra coloro che la sofferenza e talvolta la tragedia di un conflitto tengono legati l’uno all’altro.
Sì, proverò a mettermi così davanti a questi quadri, con gli occhi e la mente e il cuore vuoti, lasciando che i colori e che le forme entrino, tocchino, commuovano, scompiglino, turbino, chiamino, richiamino, piangano, ridano, danzino, pretendano, gridino: sì, gridino. Dando loro spazio, lo spazio che chiedono, lo spazio che meritano. E’ ciò che faccio quotidianamente in mediazione, con quelle particolari opere d’arte, tutte rivelanti la mano di un artista ignoto ma divino, che sono gli esseri umani.

Ho raccontato della mia piccola esperienza di deprivazione di bellezza.
Nel 1912, cento anni fa, il pittore allora ventunenne Egon Schiele fu arrestato e rinchiuso per 24 giorni nel carcere di Neulengbach, vicino a Vienna. L’accusa era di aver sedotto una ragazzina quattordicenne e di aver esposto materiale pornografico in un luogo accessibile ai minori. Dopo la sua morte (morì a 28 anni) venne pubblicato il suo diario relativo alla permanenza in carcere, su cui da sempre pesano dubbi di autenticità, ma in questo momento a noi non importa.



Scrive Egon Schiele:

Finalmente! – Finalmente! – Finalmente! – finalmente un sollievo alla pena! Finalmente carta, matite, pennelli, colori per scrivere, per disegnare. Le ore confuse e desolate erano un tormento, quelle ore uguali, informi, noiosamente grigie, che dovetti trascorrere tra mura fredde e nude, spogliato di tutto come un animale
Un uomo più debole interiormente sarebbe subito impazzito e anch’io sarei diventato pazzo se avessi dovuto continuare ancora a lungo in quello stato di continua ebetudine. Perciò, nella condizione in cui mi trovo, sradicato con violenza dal mio terreno creativo, con dita tremanti inumidite nella mia saliva amara, mi sono messo a dipingere per non impazzire del tutto. Servendomi delle macchie dell’intonaco ho creato paesaggi e teste sulle pareti della cella, poi osservavo il loro lento asciugarsi fino a impallidire e sparire nella profondità del muro, come fatti sparire dall’invisibile potenza di una mano incantata.
Ora per fortuna ho di nuovo il materiale per disegnare e scrivere; mi è stato restituito perfino il mio pericoloso temperino. Posso dipingere e così sopportare ciò che altrimenti sarebbe stato insopportabile. Mi sono sottomesso e umiliato per averli, ho chiesto, pregato, mendicato, avrei anche piagnucolato se non ci fosse stato altro modo 

Dentro da pochi giorni, Schiele sente acutamente la deprivazione, che nel suo caso non riguarda solo la fruizione della bellezza, ma la possibilità di generarla, di crearla.
Nel Diario ci sono parole molto chiare a proposito dell’assurdità e della disumanità della detenzione, ma non voglio impigliarmi in questo. Vorrei piuttosto riportare altre frasi.

Ho dipinto il letto della mia cella. In mezzo al grigio sporco delle coperte un’arancia brillante che mi ha portato Vally è l’unica luce che risplende in questo spazio. La piccola macchia colorata mi ha fatto un bene indicibile.

Io sono incarcerato, rinchiuso – non mi posso muovere, non posso far nulla – e fuori è primavera, la terra scusa e umida spande il suo profumo, la linfa sale, si dischiudono i primi fiori! Vorrei fare un giro a piedi verso prati pieni di fiori variopinti e sotto arbusti fioriti ascoltare il canto di piccoli e graziosi uccelli dagli occhi luccicanti come gemme incastonate o gocce di smalto colorato.

Ho sognato Trieste, il mare, posti lontani. Nostalgia, ardente desiderio! Per consolarmi mi sono dipinto una barca panciuta e colorata come quelle che dondolano sull’Adriatico. E con essa la nostalgia e la fantasia possono veleggiare in mare aperto, verso isole lontane, dove uccelli rari scivolato tra alberi inimmaginabili e cantano. Oh, mare!

Ecco, di frasi come queste, scritte dagli autori a commento delle loro opere, ne troverete molte. Gli autori che qui espongono – indipendentemente dal loro talento che, lo ripeto, io non sono in grado di valutare – sono tutti in spirito confratelli di Egon Schiele, nel senso che hanno attraversato come lui questo genere di esperienza.

Quando un mediatore ascolta un conflitto, cercando di sentire nel profondo le persone che ha di fronte nelle parole e oltre le parole, a volte restituisce con una brevissima frase quel che ha sentito.

1. In questi quadri io ho sentito la vita e la morte. Che sono questione di vita o di morte.

Cerco di spiegarmi. Ciascuno di noi, forse, ha una vecchia zia, e forse disgraziatamente qualcuno di noi è una vecchia zia con l’hobby della pittura. Senza far niente di male, mentre i nipoti sono altrove, riempiono le ore vuote dipingendo sulla tela l’albero di melo nel giardino. Poi – ahimé – lo regalano a Natale e tu devi fingere di apprezzarlo. Che vuoi, ho l’hobby della pittura, ho fatto anche il corso del Comune, dice fiera la vecchia zia.

Qui c’è un corso e c’è la pittura: ma non si tratta di un hobby, di un passatempo. Si tratta – semmai – di una passione (nel senso duplice di sentimento intenso, potente trasporto e di sofferenza), di qualcosa che sporge sull’anima e che chiede di essere dato alla luce, alla forma, al colore. Il maestro Caldana [l'insegnante del Corso] è stato ostetrico (ossia colui che sta davanti – ob-stare – per servire) di questi parti creativi, educando, esortando, incitando, seguendo, trepidando.

C’è un travaglio e c’è un parto, perché in gioco – come nel caso di Egon Schiele – c’è la propria vita anche da rinchiusi. L’alternativa è generare o diventare folli.



2. Poi, ho sentito coraggio.

Il coraggio di esporsi intimamente agli sguardi, pur attraverso la mediazione tipica della creazione artistica. Ognuno di questi quadri è un gettare la maschera. L’arte, grande mediatrice, ci consente di entrare in contatto intimassimo con l’autore. Non è un caso che la categoria di empatia sia nata appunto nell’ambito dell’estetica, a descrivere il sentimento che si prova davanti a un’opera d’arte. Ma l’empatia è anche l’attitudine specifica del mediatore.
Il coraggio del denudarsi esige, da parte di chi guarda, un assoluto rispetto. Mi permetto di suggerire: non guardate questi quadri come si farebbe a una normale mostra. Accogliete invece nel rispetto il denudamento delle anime che si manifesta in forme e colori, e custoditelo nel vostro cuore. Osservate i dipinti, ma lasciatevi anche guardare dentro da loro. Un’opera d’arte è capace non solo di essere guardata, ma di guardare. E il coraggio di denudarsi non sopporta spettatori, ma esige coinvolti: persone cioè capaci di denudarsi a propria volta.

3. Poi, ho sentito la possibilità della libertà.

Tra le tante, tutte bellissime, frasi che accompagnano queste opere, ne cito – considerato il tempo a disposizione – solo una (ma vi esorto a leggerle tutte):
Ragazza con capelli neri: Ti avevo persa entrando in cella, ma ti ho ritrovato al corso di pittura.
E’ una frase semplice, ma di tale profondità che è difficile aggiungere qualcosa. Chi è chiuso in carcere perde tutto il prima (per usare un’espressione di Adolfo Ceretti)– e abbiamo sentito il grido di Egon Schiele – e in questo caso ci viene detto che è l’amore ad essere perduto, l’amore per o di una ragazza dai capelli neri. Ma ancora una volta l’arte ne media il ritrovamento, così che pur nella reclusione chi ha scritto questa frase ha compreso che non gli è negata la via della profondità, e che seguendo questo cammino tutto, in qualche modo, è ridato, restituito, ridonato, riparato, anche l’amore perduto della ragazza dai capelli neri.

Cosa fare dunque noi, che artisti non siamo? Pur non detenuti, ciascuno di noi ha dentro di sé il medesimo grido: di vita-e-morte, di coraggioso desiderio di denudarsi e finalmente esistere come noi stessi, di libertà. Forse dobbiamo metterci alla ricerca di un nostro ostetrico, non necessariamente il maestro Caldana, non necessariamente la pittura. E anche se non abbiamo alcun talento – come me, per esempio, che non ho alcun talento artistico – rimane il compito di rendere arte la propria vita.



Scrive la filosofa veronese Adriana Cavarero:

Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. “Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno, una cicogna?”, si chiede a questo punto Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere. il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso? 

E Picasso, in modo meno ingentilito della baronessa Blixen, scriveva: Se si segnassero su un foglio tutti i punti per i quali sono passato e li si unisse con un tratto, forse si otterrebbe un Minotauro.

Minotauro o cicogna, rimane per tutti il compito di dipingere con i pennelli del proprio corpo, anima, spirito, con i colori delle proprie emozioni e dei propri valori, un disegno che spesso rimane misterioso a noi medesimi (si cade, e si inciampa, ma retrospettivamente ci si accorge che proprio questi sono i punti di espressione del disegno, e talvolta i suoi punti di bellezza).

Proprio in questi giorni ci è dato di contemplare il disegno meraviglioso composto dalla lunga, intensa, oso dire felice vita di una persona che ha trascorso gran parte di essa chiuso in una cella di due metri per due a Robben Island. Quest’uomo è Nelson Mandela, che – sul livello in cui parlo, che non è quello delle personali responsabilità – è confratello degli uomini che con coraggio esprimono loro stessi pur reclusi nelle esteriori prigioni, e di tutti noi che tentiamo di esprimere noi stessi con la vita, pur reclusi nelle nostre interiori prigioni.

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Ci sono poi altri interventi: studiosi di diritto penale, un gesuita.

L'evento finisce: ma Renatodeikings non si tiene, recupera la posizione e si lancia in un personale e solipsistico autokaraoke. Gente un po' spersa. Freddo fuori, e anche un po' dentro. Proprio vicino alla porta questo quadro. Un detenuto ha preso il lenzuolo con cui un suo compagno di galera si è impiccato, ne ha tagliato una striscia, ne ha fatto un quadro, una sacrasindone di non risorti, o non ancora, e accanto i nomi e le date.


martedì 3 dicembre 2013

Indechiffrable - Una storia perversa

Questa è una storia in cui chi indossa l’armatura è più vulnerabile di chi ha solo un golfino. E’ una storia in cui le immagini dicono il contrario delle parole, ma tutte e due dicono in fondo la medesima cosa. E’ una storia in cui le labbra parlano in un modo ma baciano in un altro. E’ una storia in cui corpi, intenzioni, speranze vivono capovolte e muoiono dritte. E’ una storia in cui Ares e Afrodite si scambiano le parti, ma la loro prole rimane sempre la stessa. E’ una storia in cui per comprendere il comportamento di una contestatrice ventenne bisogna chiedere a un vecchio rabbino chassidico del settecento. E’ una storia in cui uno stolto mercante vende per pochi soldi il Fiore di ogni Fiore e alla fine guadagna ciò che nessun altro ha avuto mai. E’ una storia perversa.

“Quel che hai scritto è orribile, sì, orribile. Disgustoso. E, se proprio devo dirla tutta, anche un po’ perverso.” Perverso? dico pensando al mio cinguettio serale, e ora sono le tre di notte. “Perverso. Un gesto è fatto per esprimere un sentimento e viene usato per dire il suo opposto: e questo, anziché respingerti, ti eccita. Sì, perverso. Ti sarebbe piaciuto anche il bacio di Giuda.” Fingo di prendermela ma sotto-sotto gongolo. E’ perverso gongolare quando ti viene detto che sei perverso?

[Mi sarebbe piaciuto anche il bacio di Giuda. Vero, mi piace. Mi piace che non abbia usato uno schiaffo per far capire alla canaglia quale fosse il Maestro. Mi piace perché è uno che non sa fare buoni affari, baciando. Judas, mercator pessimus / osculo petiit Dominum / ille ut agnus innocens / non negavit Judae osculum. Giuda, pessimo mercante, chiese un bacio al Signore, ed egli – agnello innocente – quel bacio non glielo negò. Non gli ha negato il bacio, Da nessun altro il Signore fu baciato, se non i piedi, da Maria. Mi piace perché alla fine, pur mercator pessimus, guadagna quel bacio, come  la donnina qualunque (ma ottima mercantessa) che con un bacio al matto ottiene un disegno di Antonio Ligabue – guardatelo su http://www.youtube.com/watch?v=B5kAhWA-Bko da 8.35 in poi, anche se non c’è l’audio – ed è diverso e forse opposto ma sempre questione di baci estorti e doni immeritati.]

L’accusa di perversione trova il suo fondamento su un mio tweet. Un commento alla foto in cui la ragazza militante no-tav cerca di baciare il poliziotto in equipaggiamento antisommossa, e il commento diceva: Solo io trovo più sexy il "bacio d'odio" che il bacio pacifista? Come ormai tutti sappiamo, lei non era una figlia dei fiori, non aveva forse mai sentito la canzone dei Giganti (Mettete dei fiori nei vostri cannoni perché non vogliamo mai nel cielo / molecole malate, ma note musicali che formano gli accordi / per una ballata di pace) e non voleva portare a compimento quanto accaduto a Washington nel 1967, a Isfahan nel 1979, a Seul nel 1987, ancora a Seul nel 1993, a Giakarta nel 1998, a Seattle nel 1999, ancora a Washington e a Montréal nel 2000, ad Halifax nel 2002, a Losanna e a Cancun nel 2003, a Kiev e a Brunswick nel 2004 a Baku e a Beirut nel 2005, a Lione nel 2006, a Rostock e a Islamabad nel 2007, in Minnesota e a Atene nel 2008, a Londra nel 2009, a Roma e a Toronto nel 2010, a Madrid e a Sanaa nel 2011, tutto un dolce rosario di fiori colorati infilati nelle canne dei fucili, cosparsi sui caschi e sugli elmetti e inghirlandati attorno alle bandoliere e alle baionette, no, non voleva superare tutti in un Valdisusa 2013 offrendo il fiore della propria bocca. Voleva al contrario esprimere disprezzo e odio. Almeno così ha dichiarato lei. E giù centinaia e centinaia di battute di commentatori e cronisti e corsivisti a dire che peccato, che tristezza, che delusione, come sarebbe stato più bello, più giusto, meno perverso – appunto - se.

Fossi in loro ci andrei piano con una che si chiama Nina De Chiffre, e come tale fin nel nome è indechiffrable.

E’ la situazione tutta ad essere indechiffrable. Un jackpot di simboli, a partire dal trivellone che sventra la montagna, uno stupro geologico. Il potere maschile romano contro la fiera dolcezza valsusina, occitana, provenzale, montanara; il cantiere contro le montagne innevate, le ruspe contro la Sacra di san Michele e l’abbazia di Novalesa; i camion contro l’aria pura di montagna.

Poi c’è questa ragazza di vent’anni, ninadechiffre in arte Jasper Baol, che nel suo profilo Facebook pubblica foto belle e intriganti, e tra di esse una in cui, nuda, esce dalla spuma marina (aphros): tanto per dichiarare ufficialmente e quasi anagraficamente che è una dea, e quale dea. Si avvicina a un poliziotto venticinquenne dal volto angelico e mite, alto, immobile, catafratto di nero e di blu. Prova a baciarlo, e non riuscendoci a causa della celata, si inumidisce le dita di saliva e – passando sotto la visiera – gli bagna le labbra. Lui chiude gli occhi. E anche lei li ha chiusi. Perché in certi momenti, lo sappiamo bene tutti, gli occhi si devono chiudere.

Ma questa è la prima parte: che dice di un gesto che, per sé, sarebbe imparentato con tutti gli altri gesti floreali, da Washington a Sanaa, solo un po’ più intimo. Ce n’è una seconda. Fatta di parole sibilanti, perfide. Può anche essere che la ragazza si sia pentita del suo trasporto, un po’ troppo ad alta velocità, visto che è di trasporti che si parla e si contesta. Io però non credo. Le parole cattive sono solo l’altra faccia della caccia d’amore, servono a creare quella differenza di potenziale tra i poli perché possa scoccare la folgore erotica. Il bene puro non è amore, è ideologia

[Quando fu vecchio, Rabbi Moshe Haim Efraim (che era niente di meno uno dei figli di Israel ben Eliezer aka Baal Shem Tov, fondatore del Chassidismo) decise di lasciare la città di Sedilkow e di trasferirsi a Mesbiz. Per non farlo andare via i preposti decisero, durante un'assemblea, di aumentargli lo stipendio. Quando lo seppe, egli disse: "Vi ringrazio, perché so che in questo modo voi volete fare una cosa buona per me. Il mio principio però è quello di accettare il bene solo se a esso è legato anche un po' di male. Questo perché al mondo non vi è vero bene, se assieme non c'è anche un po' di male. Ditemi, c'è del male in ciò che avete deciso di fare? " I preposti non trovarono niente di negativo. In seguito a ciò, Rabbi Moshe Efraim andò ad abitare a Mesbiz.]

E infatti il cristianesimo, rispetto a questo punto, un po’ a rischio lo è. Io sono molto grato a quegli evangelisti che ci hanno narrato – per esempio – di quando Gesù si commuove (Iesus ergo fremuit spiritu et turbavit se ipsum, dice quando si trova davanti alla tomba dell’amico Lazzaro: che va onorato non in quanto risorto, ma in quanto pro-vocatore del pianto divino). Oppure di quando si arrabbia (Iesus, cum fecisset quasi flagellum de funicoli, omnes eiecit de templo). Commozione turbamento collera. Meno male. Sperimentando e agendo queste emozioni, le divinizza: quod non est assumptum, non est sanatum, secondo quanto insegnano i Padri a partire da Massimo il Confessore. Occhio al Gesù troppo buono, perché non salva un sacco di cose. Il Buddha di certo non è un bonaccione, ma non si commuove e non si arrabbia, è empatico senza scomporsi, e in effetti trovo il Buddha theravada un po’ a tinte pastello per i miei gusti; il buddismo ah lo preferisco contaminato con l’induismo hard boiled, in cui i Bodhisattva appaiono anche terribili, incazzatissimi, zannuti e unghiuti e danzano furibondi sui cadaveri nudi degli amanti. Mi pare fosse Lanza del Vasto a dire che un dio indiano se non sbrana, se non sbudella, se non taglia un po’ di teste, se non fa qualcosa di splatter, insomma, non può aspettarsi che la gente lo veneri e lo onori e cosparga di burro fuso, fiori e zafferano il suo lingam. Brahma, che pure è il principio cosmico supremo, non ha templi da nessuna parte. Non ha fatto nulla, a parte essere appunto il principe e amarsi narcisisticamente, tanto si ama da farsi spuntare millanta teste per guardarsi (la più alta della quale verrà appunto mozzata dal buon Shiva, dio invece amatissimo e veneratissimo).

Ma torniamo alla nostra indechiffrable Afrodite no-tav.
Ascolto un’intervista alla radio, un programma condotto da due giornalisti da battaglia, bravi a rendere pulp tutto quello che toccano. Lei no però, non ce la fanno. Lei è molto più pulp di loro.
“ Come sta?”
“Questo non è affar suo”, risponde, e la sua voce è veramente di carta vetrata.
“Lei ha detto: Nessun messaggio di pace, anzi questi porci schifosi li appenderei solo a testa in giù, dopo quello che è successo a Marta, la mia compagna molestata e picchiata
“Vero. E quindi? Ad appenderli per il dritto morirebbero.”
“E invece a testa in giù?” cerca di stare al gioco l’interlocutore.
“C’era un riferimento, ma non mi aspetto che lei lo capisca”
“Come Mussolini a piazzale Loreto…”
Silenzio prolungato. Non ha capito nulla. Eppure il giornalista appartiene al popolo ermeneutico per eccellenza, quello stesso del Baal Shem Tov per intenderci. Piazzale Loreto? Ma questo lo penserebbero tutti. E poi a piazzale Loreto mica vengono appesi vivi, i due. Andiamo. Io sarei andato a cercare piuttosto nella Philosophie du Boudoir. Avrei immaginato una pratica di bondage estremo. Perché ridurre subito una magnifica risposta (ad appenderli per il dritto morirebbero) a ideologia? Ma si sa, io sono perverso.
“Precisamente” sbadiglia alla fine lei. Ha ragione: non ha senso sprecare queste perle. Sia dato al cretino quel che vuole. Comportarsi come una sex worker? Ma se lo sanno tutti, fin dai tempi di Pretty Woman, che le sex workers fanno qualunque cosa except kissing on the mouth.

Poi certo, ci sarà anche stata veramente un po’ di voglia di morte. L’ indechiffrable è Afrodite, ma Afrodite Areia, sposa di Ares, guerriera anch’essa. E si sa come si chiamano i figli: Phobos (paura), Deimos (terrore) e secondo alcuni anche l’iti-mega-fallico Priapo. Poi anche Armonia.

Inoltre il povero ragazzo è in armatura. “Alle dame si consiglia – dice Agilulfo, il Cavaliere Inesistente di Calvino – come la più sublime emozione dei sensi, l’abbracciarsi a un guerriero in armatura.” (Every woman adores a Fascist, / The boot in the face, the brute / Brute heart of a brute like you  direbbe in altro modo – non fiabesco e terribile – la poetessa Sylvia Plath) “Bravo” continua in Calvino la vedova Priscilla “lo vieni a insegnare a me!” poi si arrampica su di lui e prova uno dopo l’altro tutti i modi in cui un’armatura può essere abbracciata. E quando l’intrepida Bradamante se ne innamora a sua volta, e i commilitoni la pigliano in giro “Ma se lo spogli nudo, poi, che acchiappi?” lei ribatte “E non credete che io sia talmente donna da far fare a qualsiasi uomo ciò che deve fare?

Ecco, “talmente donna da far fare a qualsiasi uomo ciò deve fare” E cosa deve fare un uomo? Per prima cosa, naturalmente, esistere. Indechiffrable così tanto donna – a dispetto delle e grazie alle sue parole anche ostili -ha reso esistente il Cavaliere Inesistente. E contemporaneamente l’ha spogliato. Insomma gli ha restituito il corpo.

Qualche giorno dopo sono andato a vedere la mostra di Rodin a Palazzo Reale, quei marmi liquidi e luminosi. C’è il celeberrimo Bacio. Quei due, sospesi tra esitazione e travolgimento, sprigionano il loro splendore sulla soglia della dannazione. E, se il Dante poeta vien meno di pietade, il Dante teologo (come direbbe il De Sanctis) li spedisce all’Inferno.

C’è un po’ tutto in quel bacio, in ogni bacio, a saperlo sentire. Tutto un concilio di dèi gloriosi, dispettosi, solenni, feroci, malandrini, terribili, languidi, misteriosi, splendenti, tutto un concilio di dèi, specie quando viene convocato da due ragazzi bellissimi messi dai divini giochi di Dio su parti avverse a far scoccare scintille. Di vita, di morte, di miracoli.