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venerdì 27 dicembre 2013

Il carato estinto. Invito all' Algor Danza

Confesso: ho sognato anch’io di diventare un diamante. Ho accarezzato l’idea di trasformarmi in carato, da quando ne ho appreso la concreta possibilità.

Venite con me, oggi vi porto in Svizzera. Oltre Lugano (città di banche e di eutanasia dove puoi andartene con un’iniezione letale in un appartamentino vista lago con la moquette e le stampe naif alle pareti – e sarà da indagare questa affinità strana tra Svizzera e morte), andiamo oltre Bellinzona, risaliamo insieme la strada a nord-nord-est fino a Coira/Chur, a Cuira l’antichissima città, che vide popolazioni umane fin dall’età della pietra, distesa com’è nell’alta valle del Reno. 

Fa un po’ freddo, prendiamo qualcosa da bere? Entriamo al Giger Bar. 




E’ un bar voluto e costruito da Hans Ruede Giger, scultore surrealista e simbolico nato qui e noto per essere l’autore di Alien, ma anche per aver immaginato i biomeccanoidi, creature composte da carne umana inembricata con metalli e meccanismi. Avreste preferito magari una cioccolata calda in centro, in una pasticceria grisonnaise, al caldo di una stube? Fidatevi, è meglio stare qui al Giger, nella sperduta zona industriale, qui, seduti su queste sedie fatte di ossa. Conviene stare qui, per il discorso che dobbiamo fare. Cosa prendete?

Perché poi dobbiamo visitare Algordanza, in Ringstrasse 34. Cosa vi viene in mente sentendo questa parola? A me viene in mente algos, dolore, e poi anche algor mortis, cioè il raffreddarsi del cadavere dopo la morte, e tutto questo associato al danzare. Ebbene, Algordanza (www.algordanza.com) è un’azienda, un gruppo internazionale presente in Austria, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Corea, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Messico, Monaco, Olanda, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Thailandia e Stati Uniti d’America. Se portiate le ceneri del vostro caro defunto, loro prima le catalogano, le protocollano, le identificano; poi le analizzano – per verificare che si tratti di ceneri umane; poi da esse estraggono, attraverso procedimenti fisico-chimici, il carbonio; poi trasformano il carbonio in grafite, che a sua volta sottopongono (con macchine di produzione russa) a una temperatura di oltre 2500 gradi e a una pressione pari a sessantamila volte l’atmosfera terrestre: in questo modo la grafite – in settimane di trattamento - si tramuta in diamante; poi il diamante grezzo viene tagliato e pulito secondo le vostre indicazioni; poi viene eseguito un controllo della qualità, e viene redatto un certificato riportante i dati di purezza, taglio, peso, colore del diamante, nonché l’attestazione del legame tra quel diamante e le ceneri del vostro caro defunto; poi, su richiesta, viene incisa sul diamante un’iscrizione con un potente laser; infine vi viene consegnato in una scatolina personalizzabile. Algordanza ha finito il suo compito, per cui si farà pagare bene. Del resto perché un diamante si formi in modo naturale, nel grembo della terra, cotto al fuoco della terra stessa, sotto l’immane pressione delle montagne, ci vogliono milioni di anni, e poi deve essere strappato alla madre dalla violenza della miniera. E’ quindi congruo pagare qualcosa per ottenerlo in modo tanto semplice. Potrete fare del diamante l’uso che vorrete: tenerlo lì, per guardarlo; oppure incastonarlo in un anello, in una collana, in un orecchino, o in una cavigliera, o magari utilizzarlo per un piercing all’ombelico.


Sì, Algordanza, sì. Trasformami in diamante. Adorna di me il pendaglio di una Devadasi, che mi tenga sulla sua pelle color ambra mentre danza il Bharatnatya davanti al Signore Shiva, mentre io sfrango diffrango e rifrango le luci delle lampade in milioni di riverberi. Mettimi al centro di un puro cerchio d’oro portato al dito dalla mia amata di sempre. O a tempestare la base di un calice da messa, elevato al cielo mattina dopo mattina da pallide mani sacerdotali. O ancora meglio, vendimi, vendimi, fammi costare caro, fammi passare di dito in dito, di collo in lobo, rendimi desiderio di donne, rendimi dono di uomini, rendimi eredità concupita. Oh Algordanza, come sembra preferibile questa sorte, questa allucinazione di luce, rispetto al realistico e chissà se prossimo giacere immerso nei propri liquami in un involucro di zinco, nel buio gelido di mattoni e di marmo, con fuori fiori di carta polverosi e una finta candela elettrica, mentre dentro il corpo si trasforma in cuoio teso su ossa o in viscida cerea sostanza saponiforme.

Sì ma. Davanti a me, su una poltrona del Giger Bar dove il mio piccolo Geist des Erzählung mi ha, e ormai vi ha, trasportato, è seduta A. A ha occhi chiari e mente chiarissima. Parlare con lei è come bagnarsi in un lago alpino di cui non riesci a vedere il fondo, nonostante l’assoluta trasparenza dell’acqua. Una mente adamantina, diamantina, tanto per rimanere in tema. Mi piace paragonarla alla lama affilatissima di una katana di samurai che – immersa e tenuta immobile in un ruscello – taglia in due un petalo di fiore di loto trasportato dalla corrente: tanto differente dalla mia, che penso fatta di metallo volgare, buono a forgiarci un badile arrugginito a forza di rovistare nel fango della contemporaneità, di vangare l’orto, di scavar fosse da morto – ancora in tema – per magari solo per caso trovare un modesto tesoro. Insomma, A. A dice: Mi piacciono i gioielli, ma quel diamante non saresti tu. Ma come. No, insiste A, e mi spiega pazientemente che il Carbonio sarà anche alla base della vita, ma nel girotondo chimico con Idrogeno e Ossigeno, per prima cosa. E poi il caro estinto più che nel Carbonio è del DNA, una molecola resistente, tenace. Che è certamente presente nel liquame, nella pelle fatta cuoio, nella carne saponificata, nelle ossa, e forse anche nelle ceneri e da quel DNA ti si potrebbe magari clonare: ma certo non è nel diamante sintetico. Il diamante non contiene alcuna orma chimica di quel che eri da vivo. Sì, i suoi atomi che hanno fatto parte del tuo corpo, ma il tuo sudario biologico, il lenzuolo molecolare che pietose veroniche deporranno nella cassa, è tutta un’altra cosa. 

Le dico: A, non so. Hai ragione, il diamante è molto più lontano dalla vita della putrefazione. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior, cantava De André invaghito di una prostituta genovese. Tuttavia mi sembra comunque un destino la atomizzazione, se non altro quando il Sole diventerà una gigante rossa e divorerà il pianeta nel suo infuocato ingrandirsi. Il punto mi sembra un altro. Trasformarsi in gemma è allettante, ma quando l’angelo suonerà la tromba per l’adunata finale e i corpi verranno chiamati alla resurrezione, ho l’impressione che – imprigionati nel reticolo cristallino ottaedrico o dodecaedrico o esaciottaedrico o rombododecaedrico – i miei atomi farebbero tanta fatica a districarsi l’uno dall’altro per ricomporsi nella mia forma secondo l’innamorato volere di Dio. E’ vero però che esiste tutta una teologia delle gemme. Adesso sto per dilungarmi in un excursus che forse annoierà A, ma non voglio che possa annoiare voi, quindi saltatelo pure e mentre parlo bevete il vostro cocktail Giger.

[Penso al pettorale del giudizio indossato dal sacerdote Aronne (Ponesque in eo quattuor ordines lapidum: in primo versu erit lapis sardius et topazius et zmaragdus; in secundo, carbunculus, sapphyrus et iaspis; in tertio, ligyrius, achates et amethistus; in quarto, chrysolitus, onychinus et berillus. Inclusi auro erunt per ordines suos. Habebuntque nomina filiorum Israhel, duodecim nominibus celabuntur, singuli lapides nominibus, singulorum per duodecim tribus – Esodo 28). La stessa Gerusalemme Celeste, che in Apocalisse san Giovanni vede descendentem de caelo, a Deo, paratam sicut sponsam ornatam viro suo, è sorprendentemente minerale (Et erat structura muri eius ex lapide iaspide, ipsa vero civitas auro mundo simile vitro mundo. Fundamenta muri civitatis omni lapide pretioso ornata. Fundamentum primum iaspis, secundus sapphyrus, tertius carcedonius, quartus zmaragdus, quintus sardonix, sextus sardinus, septimus chrysolitus, octavus berillus, nonus topazius, decimus chrysoprassus, undecimus hyacinthus, duodecimus amethistus. Et duodecim portae duodecim margaritae sunt per singulas, et singulae portae erant ex singulis margaritis. Et platea civitatis aurum mundum tamquam vitrum perlucidum ). Nel Nome della Rosa, quando siamo già al sesto giorno e ci sono un sacco di morti ammazzati alle spalle, e tutto si apparecchia alla fosca apocalisse finale, l’Abate Abbone, conversa con il novizio Adso sulle virtù spirituali delle gemme, facendogli sfolgorare ipnoticamente davanti agli occhi il suo meraviglioso anello. Ricalcando Ildegarda di Bingen – onnisapiente monaca medievale, corteggiata e sdoganata dalla new/next age per i suoi interessi cosmonaturalistici che i moderni scambiano per tendenze panenteistiche, nonché per il suo tendere al benessere del corpomente (è la madre della cristalloterapia) più che al punire la carne fomite di peccato – l’Abate decanta la virtù delle pietre preziose. Ogni gemma racchiude in sé acqua e fuoco. Tuttavia il demonio rifugge, abomina e disdegna le pietre preziose, che ridestano nella sua mente il ricordo del loro originario splendore, quando ancora egli rifulgeva della gloria concessagli da Dio, e nel contempo scaturiscono dal fuoco che danna la sua stessa esistenza, dice Santa Ildegarda, che in un inno meraviglioso chiama Maria splendidissima gemma. Ma ancora prima, nella storia, l’Abate si dimostra un teologo delle gemme, e argomenta che se ogni creatura – anche la merda o il millepiedi – indica la via della risalita causale verso il Padre delle Luci, quanto più le gemme, che sono luce condensata, possono additarla chiaramente.]

L’excursus è concluso, prestatemi attenzione adesso. Sto dicendo ad A che la resurrezione dei corpi continuo a immaginarmela ingenuamente secondo la visione delle ossa aride di Ezechiele 37, col grido profetico su di esse: ed ecco che quelle ossa cominciano a muoversi, gli scheletri cominciano a comporsi, crescono i nervi, la carne, e la pelle (et ecce commotio, et accesserunt ossa ad ossa unumquodque ad iuncturam suam, et ecce, super ea nervi et carnes ascenderunt, et extenta est in eis cutis desuper). Ma i corpi sono come zombie, disanimati, il profeta deve aumentare l’intensità del suo grido, che adesso è un urlo spaventoso, finché viene convocato lo spirito che finalmente possiede quei corpi e li fa rivivere (et ingressus est in ea spiritus, et vixerunt, steteruntque super pedes suos: exercitus grandis nimis valde). Insomma, e se i miei atomi in quel momento sono incatenati nella rigida geometria del cristallo, anziché distesi in forma d’ossa sulla polvere della valle di Iosafat? Riusciranno ugualmente a trasformarsi in carne che possa fremere di nuovo al soffio? A sorride. Se Dio conosce ogni stella e la chiama per nome, conosce certo per nome ogni atomo, ogni particella subatomica, e perfino il suo famigerato bosone. Accorreranno, stai tranquillo, da ogni parte del cosmo. Il cristallo non sarà un problema.

Qui però interviene C. Ma non è come pensate. Gli atomi dell’universo sono finiti, sono stati componenti di molti esseri diversi. A chi apparterranno alla fine? C ha ragione: ciascuno di loro è stato mattoncino di innumerevoli forme di Lego, costruite e distrutte dal Bimbo Divino nel suo gioco creativo. E cosa avverrà? Le forme si contenderanno i mattoncini? I patterns lotteranno l’uno contro l’altro onde avere la materia necessaria ad esistere ancora?

Non è possibile. Risorgerà un unico corpo cosmico. Saremo gli uni negli altri, gli uni dentro gli altri. Un singolo atomo sarà contemporaneamente parte di un fiocco di neve, di un barattolo, di un ammonite, di una libreria Ikea modello BORGSJÖ, di un’onda marina, del becco di un piccione di san Marco, di un ciottolo di fiume, dell’anello di zucchero formato dal boccale di birra di un tifoso olandese in un pub di Glasgow alla vigilia di Celtic Ajax il 5 novembre del 2013, di sterco liquido di bovino terrorizzato mentre viene macellato, della vetta del monte bianco, del muro occidentale a Gerusalemme. Di un diamante Algordanza. Del cervello di chi inventò e fondò Algordanza. Di Hans Ruede Giger. Dell’abside della cattedrale romanico-gotica di Coira. Di te che leggi e che ora hai dentro un sentimento che non comprendi bene. Degli occhi chiari di A. Dei capelli scuri di C. Di me.

E di Te, oh, forse di Te , certo di Te.

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