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giovedì 30 gennaio 2014

Bassa di Passaggio


Prima: alba con striscia di vivido arancio verso la pianura, e dall'altra parte l'oscurità delle alpi. Poi: montagne da ogni parte, cielo più chiaro, il punto luminoso di Venere al colmo dell'eclittica, la falce di Luna. Il treno percorre la val di Susa, assieme al sorgere di un giorno chiaro. [Quella valle l'ho sognata qualche giorno fa, proprio quelle ripide pareti di roccia, e incontravo il Dalai Lama che fuggiva dai cinesi]. Bevo tè caldo, ascolto musica (Chopin, i Baustelle, la Terza di Beethoven, i Winterreise di Schubert, Leonard Cohen, le Advaitic Songs degli Om e praticamente l'opera omnia di Joan Baez). Tutto tranquillo. Trovo scritto "le mancanze possono trovare uno spazio più grande, meno compresso; gli spostamenti, da soli, sono come un interstizio di libertà del cuore e dell'anima". Ed è proprio così che si sentono le mie mancanze, così, su questo treno quieto che se ne va, emettendo appena un flebile ronzio, a Parigi, e che mi depositerà per pranzo sotto il tetto in ferrovetro della Gare de Lyon.

Al confine, tra Bardonecchia e Modane, un terzetto di poliziotti in blu, sorridenti e assonnati, fingono di controllare i documenti. Io non estraggo neppure il mio, non mi viene chiesto. Il confine è ormai formale, nel senso che permangono solamente alcune formalità residuali di segnalarne il passaggio. Ma il treno lo attraversa in un sospiro, senza che i passeggeri quasi se ne accorgano.

Mentre scrivo - proprio in questo istante – siamo fermi a un'altra Gare de Lyon, cioè proprio alla stazione di Lyon / Saint Exupery, e all'inizio mi sembra molto strano aver dato questo nome a una sosta per treni e non a un posatoio per aeroplani. In realtà è la stazione interna all'aeroporto. Quella della città si chiama Part-Dieu, tanto per dire.

C'è un pensiero che da ieri mi insegue, ma delicatamente. Potrei dire che mi accompagna, ma il verbo non darebbe conto di una certa mia voglia di liberarmene, ed è forse per questo che scrivo, per liberarmene, pur sapendo che forse nessuno potrà comprendere. Lo prendano, se vogliono, come una fiaba, anche se fiaba non è.

Ho rivisto un'amica, un'amica del cuore, dell'anima, dell'esistenza. Forse più per vocazione che per scelta propria, un'esploratrice di territori misteriosi e terribili. Una donna che conosce gli scoscendimenti della paura, le vertigini del dolore, le voragini delle separazioni, le paludi dell'impotenza, le vette del coraggio. Con una sua certa allegria di naufragi spesso punteggiata da risate esplosive, con un suo certo lento ma inarrestabile procedere (proprio come è stata lenta e inarrestabile la rotazione della terra quando stamattina ha offerto il suo fianco alla luce proveniente dalla stella Sole), con un suo certo understatement romanesco, con un suo certo buonsenso materno, insomma con un'autoironia che spesso la nasconde e la difende e ci difende, la mia amica ne ha viste di tutte. Non è mai stata da sola, però. Una fiducia rocciosa, un affidamento tenace, un docile quotidiano confidare: tutto questo la legava come una corda da alpinismo alla sua Guida, al suo Maestro. Che l'ha sempre 'tenuta' nei momenti critici, e solo Dio sa se ve ne sono stati.

Fatto è che la mia amica, questa volta, si è spinta lontano. Tanto lontano. Proprio tanto lontano. Fino a quel Confine oltre il quale davvero nessuno sa cosa ci sia. Mentre si trovava in un luogo circondato da quegli alti monti che furono l'amore di Buzzati, lontana da casa e dai passi di danza dell'abitudine, qualcosa - improvvisamente, sorprendentemente, forse imprudentemente - la convinse ad andare a vederlo, quel Grande Confine. Non era certo se per attraversarlo o no. Quanto a lei, non che facesse una grande differenza. Una tipa così non è che perde tempo ed energie ad aver paura. Annodò la corda alla sua Guida e, come sempre, si mise in cammino. Accadde però che - proprio quando il Confine già si intravedeva - sentì la corda cedere la sua tensione: la Guida, il Maestro, se ne era andato. O piuttosto era lì, ma non per lei. L'aveva lasciata sola. Proprio allora, proprio ora. Non posso dire - perché non mi sono state descritte - le sue reazioni in quel momento di inconsueto abbandono. Conoscendola, posso solo immaginarle. Fece tesoro delle mille e mille ascese e discese compiute, delle mille e mille escursioni e incursioni, replicò, nel buio del cuore, le parole e i gesti noti, si comportò come se la Guida ci fosse, come se la sostenesse, come se la guardasse (e lei sotto il suo sguardo poteva far tutto), agì esattamente nello stesso modo. 

E così fu che la mia amica ritornò dal Grande Misterioso Confine. Per un certo tempo si tenne un po' in disparte. Le persone andavano a visitarla, la accarezzavano, la vezzeggiavano, e magari qualcuno si è spinto a chiederle qualche parola su quella terra terribile. Lei, così stanca, rispondeva calma. Nessuno poteva capire che aveva fatto esperienza di qualcosa di più tremendo ancora del Grande Confine oltre il quale nessuno sa. Che anzi quasi non si ricordava più di quel che aveva visto: mentre invece era ancora viva in lei la sensazione di quel che non aveva visto, di quello, cioè, che non aveva "più" visto. Del suo Maestro. Che aveva sciolto la corda, lasciandola - forse per la prima volta - sola. E c'era dentro di lei confusione. E c'era dentro di lei desolazione. E la ferita sul cuore. E forse c'era anche delusione, e un po' di rabbia.

Fatto è (sì: "fatto", fatto è), che qualcuno - sorprendentemente, improvvisamente, forse imprudentemente - valicò il Grande Confine in senso contrario, utilizzando chissà quale Bassa di Passaggio (*), chissà se mandato da altri o piuttosto senza autorizzazione alcuna. Fatto è che le fece visita discreta, un po' sperduto - immagino - nella grande città. E fatto è che questo qualcuno io ben lo conosco, ed è un qualcuno così giovane e così ormai vecchio da esser quasi ormai nessuno, chissà perché lui proprio, ma certi legami chi li conosce, e sa il Cielo se li conosceremo mai. Da quando se ne andò io non lo rividi mai. Anche lui partì quando era fra i monti, con la corda slacciata: un breve fatale volo e il Confine fu passato in un sospiro. Ebbene, questa volta lui raggiunse la mia amica e rimase un po' con lei. Quel che si son detti lo ignoro. Credo vi sia stata una condivisione di tecniche di alpinismo ed esplorazione esistenziale, con magari qualche accenno alle particolarità di quel territorio specifico, e al senso - più che alle ragioni - di attraversarlo in arrampicata libera e non assicurata. I due sono tipi concreti, e il tempo concesso non era forse molto. La lasciò: più quieta, più consolata, almeno così lei mi ha raccontato.

Fatto è che - con tranquillo pudore - la mia amica e io abbiamo parlato di tutto questo, nell'anticamera di una grande casa rossa, che è poi uno di quei posti come Bet-El già Luz, in cui Dio poggia le sue scale perché gli angeli possano scendere e salire. E che questo pensiero mi segue, e ha attraversato insieme a me un confine inesistente a bordo di un treno veloce e silenzioso, che ora mostra dal finestrino la terra delle Cattedrali. Parigi non può essere lontana. Non è però a Parigi che vado, ma in un altro luogo di quelli dove gli angeli scendono e salgono. Terribili questi luoghi, case di Dio e porte del Cielo (Terribilis est locus, domus Dei et porta Caeli, Gn 28, 17).



(*) La Bassa di Passaggio, nel gergo dei soldati, è quel documento che autorizza il trasferimento da un Reparto all’altro. Cesare Musatti, padre della psicoanalisi italiana, ricorda in un suo scritto – intitolato appunto Bassa di Passaggio – di come al fronte, in quanto Ufficiale di Artiglieria, gli fosse stata assegnata una mula. Ai muli venivano dati dei nomi presi a caso dal vocabolario italiano: quella che toccò a lui si chiamava “Inibizione”.

giovedì 16 gennaio 2014

Scusate Brianza. Nota su "Il capitale umano" di Paolo Virzì

Un giorno di solicello settembrino, in una bara polverosa trasportata da un furgone Mercedes metallizzato, tra i timidi applausi di alcuni ammiratori in sandali, Lucio Battisti fuggì finalmente dalla sua Brianza velenosa. Non però per una Nuovissima Zelanda, ma soltanto per Rimini. Riposava a Molteno, in un cimitero che ben conosco e che si raggiunge perfettamente a piedi dal luogo dove lavoro. Un cimitero da cui si vedono Resegone e Grigne e gli altri monti sorgenti dall’acque ed elevati al cielo. Villa Battisti, a Dosso di Coroldo, è in abbandono e verrà venduta. La famiglia ora insiste perché venga distrutta anche la cappella vuota di spoglie, il cenotafio, ancora frequentato da qualche residuale fan brianzolo e per questo velenoso: non deve rimanere niente di lui in terra di Brianza, neppure l’impronta della bara.



Sogno il mio paese infine dignitoso 
e un fiume con i pesci vivi a un'ora dalla casa 
di non sognare la Nuovissima Zelanda 
Per fuggire via da te Brianza velenosa

Ma che colore ha una giornata uggiosa 
ma che sapore ha una vita mal spesa

La canzone gliela scrisse Mogol, pensando a giornate uggiose e citando l’ ICMESA. Io conosco bene l’uggia, altrimenti detta akedia. E’ il sentimento che conosco meglio. Mi sento un vero e proprio sommelier delle ugge possibili e impossibili, di tutte le immaginabili e inimmaginabili impazienze del corpo, del cuore, dell’anima e dello spirito, ne riconosco l’annata, la provenienza, il sapore, il retrogusto. La mia stabile dimora interiore è il voler essere altrove. Sono della stessa razza dei Captifs de Longjumeau descritti magistralmente da Leon Bloy. Come quella dei coniugi Fourmi, anche la mia casa è piena di mappamondi e planisferi, di atlanti in ogni lingua e perfino di una mappa della Luna, di libri di viaggio, di storie di navigatori, di riviste di società geografiche e di racconti di esploratori. Come loro, divorato dall’uggia, sono sempre sul punto di partire per l’India, per la Russia, per l’America, per la Nuova Zelanda, per la Micronesia e soprattutto per l’Altro Mondo, che mi sembra più nuovo e più facile da raggiungere rispetto al Nuovo Mondo. Come loro, non sono veramente partito mai, non dovevo e non potevo. Les atomes et les molécules se coalisaient pour me tirer en arrière. Io non vivo a Longjumeau, vivo a Milano in periferia, un quarto piano sull’infinito, come direbbe Pessoa di Rua dos Douradores. Ma potrei vivere in Brianza. E in effetti credo che la Brianza sia popolata da captifs, e che i suoi stradoni siano visitati e percorsi incessantemente da ugge di ogni tipo.

Ma nessuna di queste ugge compare nel film di Virzì, nessuno di quei captifs fa capolino dalle mansarde o dalle tavernette delle villette a schiera. Mi capita spesso di addormentarmi al cinema, e non è necessariamente indicazione che il film non mi piaccia: il brutto irrita, non assopisce, il brutto fa male e tiene svegli, se un film ti aiuta a farti una bella dormita tanto brutto non è di sicuro. Più raramente mi capita di agitarmi, smaniare sulla poltroncina di velluto, pensare e ripensare ora-mi-alzo-e-vado-via, rarissimamente mi capita in effetti di alzarmi e andar via [e anche questo non è in senso assoluto un cattivo segno, l’ho fatto per esempio con Le onde del destino di Lars von Trier, ed era perché mi rovistava troppo nel profondo, mi afferrava le viscere e le stritolava con le sue immateriali mani di luce]. Ma non mi era ancora mai accaduto di afferrare il braccio della mia vicina di posto – in questo caso l’incolpevole D – e addentarlo per disperazione. Ebbene è successo verso la fine de Il Capitale Umano.

Io avevo quattordici anni e Firenze era ancora per poco una città profumata di glicini, quando l’ICMESA vomitò 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina. La famigerata nube tossica si levò sulla Brianza. Tragiche ne furono le conseguenze. Nella consapevolezza della teratogenicità della diossina, con l’autorizzazione di Andreotti, furono eseguiti in deroga alla legge alcuni aborti spacciati per terapeutici, ma in realtà eugenetici. Contro questa decisione insorsero invano le voci del Cardinal Colombo e di Indro Montanelli, della sensibilità e dell’autorevolezza religiosa e laica lombarde. La clinica Mangiagalli iniziò così la sua carriera di luogo dove si va – spesso – a non nascere. I poveri resti dei feti non mostrarono alcuna malformazione. Le altre gravidanze in atto, portate a termine, consegnarono al mondo figli perfetti.

Poi naturalmente la Brianza si nutrì di altri veleni, questa volta morali. La ricchezza malvagia e arrogante, il potere corrotto, il libertinismo sfrenato di Arcore, che subito si trasformò in Hardcore nella bocca dei simpaticoni. Insomma Berlusconi e la sua villa, triste corte trash con stalliere mafioso annesso. Ricchezza e potere: ma la Brianza rimane – come scrive Maurizio Crippa – periferia esistenziale. Rimane colpevole di rotonde, di fioriere e di acciottolati che non le vorrebbero manco a Tblisi, colpevole di villette a schiera di orribili geometri, di pizzerie da frastuono di pesci fritti e di Averna ghiacciato, povera periferia esistenziale del mondo, non certo centro storico. Virzì, sdraiato sul divano del centro storico e morale, prova a maramaldeggiare, ora che il Caimano è moribondo, con una radunata d’attori celebri (due Valerie – Bruni Tedeschi e Golino, due Fabrizi – Bentivoglio e Gifuni – e Luigi Lo Cascio). Ma la decima musa è vigile e attenta. E forse anche i santi patroni della Brianza. Perché, guardacaso, il film risulta uno schifo sesquipedale, in cui l’unica cosa che si salva è proprio la Brianza e la sua gente.

Bentivoglio è una ridicola macchietta al cui confronto Giacomo e Giovanni – nell’episodio del Conte Dracula in “Tre uomini e una gamba” (Ma quell' li, l'è Toto Schillaci, el gran visir de tùch i terun!) hanno una profondità e uno spessore che levati. La Bruni Tedeschi – bellissima, va detto – miagola dall’inizio alla fine come una miliardaria gatta stretta all’uscio (toscanismo, Virzì capirebbe), ma soprattutto quando il pateticissimo intellettualoide Lo Cascio la intorta con il tradimento dell’arte per il soldo. Lei ovviamente miagolando se lo scoperà, dopo aver subito una squallida paesana manomorta, senza peraltro dare grande soddisfazione allo spettatore. Andrà su e giù senza pathos, illuminata dal videoproiettore che riproduce Salomè di Carmelo Bene, quando il Tetrarca viene sedotto al suono del mantra tiperdono tiperdono tiperdono; poi: stacco su sigaretta accesa postcoitale da siciliano doc. Non so se volontaria o meno, c’è anche una citazione della mitica pubblicità dei Ferrero Rocher: lei sul sedile posteriore dell’auto che dice all’autista vaiqui vailì nomeglioqui, hocambiatoideavailà, e lui che le risponde impassibile, professionale, verticale, con una voce di basso profondo: Signora, le ricordo che il suo programma prevede per le dieci il massaggio shiatzu. Valeria Golino noiosissima e superflua. Il migliore, per me, è Gifuni. Complessivamente, un film che non riesce neppure ad essere a 2D: solo una, quello del più frusto pregiudizio.

Tornando a casa discuto appassionatamente con D, la quale si trova su una posizione del tipo sì-non-è-certo-un-capolavoro-ma. D sostiene che personaggi del genere esistono veramente. Sarà benissimo: e allora? Il cinema è necessariamente più povero della vita, non contiene tutte le ridondanze in cui ognuno di noi – e perfino un brianzolo – vive immerso, e quindi, se si deve rappresentare qualcosa o qualcuno, occorre un taglio di sguardo particolare che gli dia senso. In caso contrario l’esito è appunto una stupidità grottesca. Sfido pubblicamente D a sostenere che la riunione del consiglio di amministrazione del teatro che sta per chiudere e che la triste miliardaria vuol salvare, divorata com’è dai sensi di colpa (consiglio composto da lei, Lo Cascio professoretto in giacchetta di vellutetto e occhialetti di tartarughetta attraverso i quali getta di sguardetti da pescetto alla suindicata riccona, la giornalista figadilegno che si occupa di cultura per la Prealpina (ah, giornale varesotto, mica brianzolo), il venerabile teatrante in piena demenza senile dalla lunga barba bianca e dal mantello nero e che non si lava la mano da quando gliela ha stretta Pirandello, l’assessore leghista con capelli unti / cravatta verde / suoneria del telefonino con Va’ pensiero e proposta di cori padani, bene, sfido D a sostenere che questa accolita sia più verosimile del Consiglio di Elrond Mezzoelfo, con elfi, uomini, gobbi e nani, oppure del bar di Star Trek, con Klingon, Ferengi e Vulcaniani. D è intellettualmente onesta – anche se ha frequentato il Gregorio XIV (ops, o era un altro Papa?)  – e quindi dirà che no, non si può sostenere. Elfi e Klingon sono molto più veri, perché rappresentano aspetti veri del profondo o dell’immaginario, come gli dèi – che sono specchi meravigliosi della nostra bellezza e del nostro orrore. Invece, uscire dal cinema dicendo fra sé e sé: certa gente è proprio così, oppure - meno spesso - siamo proprio così è un pessimo segno: vuol dire che il film non ha aperto alcuna fessura sugli stereotipi che ci portiamo dentro, ma li ha vellicati, confermati, magari esagerandoli. Come quando il compagnone fa l’imitazione di Mike Bongiorno (allegria! la uno, la due o la trèh? ahi ahi ahi signora Longari) e tutti gli altri a dire ma è uguale! Insomma occorre considerare l’infinita differenza che c’è tra un imitatore (è uguale!) e un attore, differenza che – chissà – magari costò la vita a Alighiero Noschese. Flaiano – polemizzando con Duchamp e il suo L.O.O.Q – diceva di detestare chi faceva i baffi alla Gioconda, ma di non aver nulla da dire a chi la prendeva a pugnalate. Virzì mette i baffetti alla Brianza. A pugnalarla con tragico amore ci ha già pensato Testori.

Dentro un film orribile, squarci di una Brianza forse gelida, forse ostile, forse minacciosa, forse pretenziosa, illusoria, deludente, sontuosa, invalicabile, una Brianza di cui Virzì – alla ossessiva ricerca del briantopitecus SUVnormalis da svergognare nel suo circo Barnum – ignora e ignorerà per sempre il mistero struggente e l’incanto uggioso, anche se ne mostra involontariamente la neve, i prati, il cielo così bello quando è bello, così splendido, così in pace.

Io però in qualche modo la mia vita la devo  davvero alla Brianza. Non ai personaggi di Eugenio Corti, ai suoi brianzoli cristiani e concreti, d’industria, di moschetto, di preghiera e di carità, di Angelus Domini e di rigore morale. Non ho fatto in tempo a conoscerli, quelli. La devo piuttosto a un bambino che veniva portato dalla mamma (brianzola del tipo ‘cortiano’, quindi a me ignoto) a messa a Desio mentre era ancora notte, e da lei veniva istruito sulla bellezza del mondo e sulla grandezza di Dio, certo: ma che poi, crescendo, ha conosciuto l’uggia, sì, l’uggia, la mia stessa terribile uggia. E l’ha affrontata da uomo, con la sua voce roca, con Dostoevskij e Leopardi, Schubert e Chopin. Con Gesù, domandandolo, domandandolo, domandandolo dal profondo di quell’uggia. E così facendo è diventato padre. In  simplicitate cordis sui laetus obtuli universa. Nella semplicità del suo cuore, lieto, mi ha dato tutto. Tutto: cioè la possibilità di sperare nell’infuriare estenuante dell’uggia. Senza quell’uomo, l’uggia mi avrebbe già ucciso. Quindi è mio padre, anche se io non sono fra i suoi figli. E il suo sguardo, e la sua voce in me, voce e sguardo indimenticabili.

E, come si fa con un un padre, ogni tanto vado a trovarlo al cimitero. Prendo dei fiori semplici e tristi, fiori belli da morto. E passo le mani sul suo sepolcro, fatto di pietra dei monti magari della Brianza, pietra rugosa, irregolare, piacevole al tatto ma che può anche ferire. La accarezzo in silenzio. Qualche volta ci poggio sopra la fronte.