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giovedì 20 marzo 2014

Finimondi di fuoco

La sala dedicata a Giuseppe Verdi - nel Conservatorio di Milano - è immensa vista dal palco. Si innalza sul fondo come un'onda azzurra di poltroncine che sembra quasi travolgerti. In questa stessa sala, seduto su uno di quegli stessi sedili, tanti anni fa - così tanti che quanti neppure ricordo - ho veduto otto dervisci appartenenti all'Ordine fondato dal Poeta, dall'Innamorato, dal Mistico Sufi Jalāl al-Dīn Rūmī celebrare il loro rito d'estasi e di incanto. Verticali, immobili, incappati di nero, un copricapo rigido e conico a simboleggiare la pietra del sepolcro: così essi si sono mostrati sul palco - dove io ora mi trovo - i dervisci della confraternita Mawlawiyya. Vicino a loro un Padre, un Anziano, un Maestro. Lentamente, uno dopo l'altro, gli otto si sono recati da lui, gli hanno baciato la mano e la spalla sinistra, si sono tolti il mantello, rimanendo con un bianco corsetto aderente sul torso, ma che diventava largo come una gonna a pieghe appena sotto la vita, e pantaloni bianchi.  Poi han cominciato a ruotare sul proprio asse, prima adagio, come pensosi, poi lentamente-e-improvvisamente (possono stare insieme, sì, come anche danza-e- immobilità, come Dio-e-uomo) aprivano le braccia con il palmo della destra rivolto verso il cielo e quello della sinistra verso la terra, inclinavano docilmente il capo su una spalla, la rotazione si faceva rapida, i volti assorti, gli abiti si aprivano come corolle di fiori. Gli uomini-pianeta per decine di minuti orbitarono attorno all'invisibile Sole che è il-Dio, o piuttosto l'-Amore, al batticuore di un tamburo. Si capiva che non erano più nel corpo, quello era abbandonato al cosmo dove tutto ruota. In una segreta cella dello spirito essi ricevevano la visita dell'Amore. Corteggiavano il jadhb, il fanāʾ, l'estinzione, la theiosis, il nirvana. Ma fu lo stesso Amore che d'un tratto - e da un altro imprevedibile versante - levò la sua voce struggente: il ney, flauto dal suono che non si dimentica mai, li chiamò da lontano: fu l'amore dell'anima - così differente da quello dello spirito - che li fece tornare nel corpo, nel mondo, nella vita-e-morte. Lentamente-e-improvvisamente la rotazione si concluse.

Adesso sul palco ci siamo noi. A, B, e io. Le nostre pietre sepolcrali - i nostri indigeribili "sassi", come direbbe A - ce li portiamo chiusi dentro. Non abbiamo il conforto di rappresentarli in un cappello da far vorticare. E la dolce e forte A adesso proverà a  mostrarli con le parole, davanti all'onda di poltroncine che ora è diventata multicolore e travolgente di giovinezza di ragazzi e di ragazze delle scuole superiori di Milano.

Ci ha portato lì una giovane suora dai modi semplici, concreti, sbrigativi. Pochi direbbero che questa donna velata è cintura nera di judo, che ha passato infinito tempo a piedi nudi sulla pedana, tra leve e strangolamenti, e che non è andata alle Olimpiadi solo perché all'epoca il judo femminile non era specialità olimpica. Nessuno lo direbbe. Nondimeno è così. In quell'abito dimesso, scontato, color navy blue, col piccolo velo, con le calze spesse, le scarpe col leggerissimo tacco, insomma in quell’abito così da suora, c'è un corpo che ha volteggiato come un derviscio, pur dentro una diversa danza. E chissà quale judo pratica ora, ora che porta sul petto un crocifisso di metallo decorato con due cuori sbalzati: l'uno - dell'Amato - ardente e spinoso come il roveto di Mosè che rivelo il Nome che neppure Dio sa pronunciare; l'altro - il proprio - teneramente trafitto da una freccia, come quelli che gli innamorati delle storielle romantiche incidono sulle scorze degli alberi. Chissà quali leve, quali strangolamenti, quando - esausta di azione e di missione - in una cappella disadorna, l'Angelo la chiama ancora alla lotta di Giacobbe.

Nel mio intervento mi accade di parlare del fuoco: del fuoco come mediatore. Propongo la fantasia di due sconosciuti che si trovano davanti a un camino acceso. Essi silenziosamente guardano la legna. E cosa ‘fa’ la legna? Brucia. Illumina (rispettando però le ombre). Riscalda (rispettando però il freddo che, non vinto, ti tocca un po’ le spalle). Emette quei rumoretti graziosi, quegli scoppiettii, quei crepitii, il rumore del fuoco che un sondaggio inglese dichiara essere il sesto rumore più amato dopo le onde sulle rocce, la pioggia sulle finestre, i passi sulla neve, il riso dei bimbi e il canto degli uccelli (quanto affidabile sia tale sondaggio, o quanto affidabili siano gli inglesi testati, non so, dal momento che al 15° posto c’è il bacon che frigge, al 24° lo scoppio degli avvolgimenti a bolle, al 27° l’urlo della gente sull’ottovolante, al 29° la mazza da cricket che colpisce una palla da cricket, al 40° il tagliaerba, al 45° la metropolitana e al 47° il coro degli hooligans allo stadio; ma insomma). Insomma il fuoco non fa praticamente niente se non essere fuoco. E i due sconosciuti sentono affiorare intimità profonde finora mai condivise, e le condividono in questa occasione, grazie a quel fuoco che non lo saprà mai, visto che neppure conosce la sua stessa esistenza (forse). E' uno degli esempi che propongo più spesso quando voglio spiegare come i mediatori umani debbano imparare da quelli naturali a essere silenziosi, senza ego, ma densi di "presenza".

L'incontro finisce, l'onda di giovani vite si sparpaglia. Viene da me un uomo robusto che indossa l'uniforme verde dei Vigili del Fuoco, la pelle scura, lo sguardo luminoso. Fa parte del personale che per l'occasione ha prestato servizio al Conservatorio. Mi dice: "Sa, quel che lei ha detto sul fuoco mi ha molto colpito...". Penso ovviamente che si riferisca alla sua professione, e sorrido, ma lui continua: "Se lei mi permette, la userò nei sermoni." Lo guardo, sbalordito. "Sono un Pastore. Di una Chiesa Evangelica. Sì, faccio il pompiere, mi rendo conto anche io che è strano, la mia professione è spegnere, controllare il fuoco, regolarlo, mentre io desidererei che divampasse. Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già acceso! ". Gli dico che non mi sembra affatto casuale questa familiarità con il fuoco, materiale e spirituale,:spegnere quello che distrugge, accendere quello che vivifica. "Sì certo. Ma soprattutto fare il Vigile del Fuoco è esser disposti a dare la vita".

Penso a queste vite. Agli otto dervisci tourneurs della mia memoria. Alla suora cintura nera, chiamata un giorno sul tatami da un terribile Sfidante. Al Pastore pompiere che mi ha fatto ricordare Bloy: Enfin quelques journaux racontèrent la panique histoire d'un 'inconnu', accouru avec cinquante mille curieux, qui s'était précipité, on ne savait combien de fois, dans le volcan, ramenant surtout des femmes et des enfants, arrachant à la Justice éternelle un nombre incroyable d'imbéciles, semblable à un bon pirate ou à un démon pour qui c'eut été un rafraîchissement de se baigner au milieu des flammes, et qui avait fini par y rester, comme dans "la maison de son Dieu". Quelqu'un prétendit l'avoir aperçu, la dernière fois, au centre d'un tourbillon, brûlant immobile et 'le bras croisés...

Penso dunque a queste vite. E alla mia. Che secondo l'ordine della natura volge al tramonto. Se una vita media fosse un giorno, per dire, dalle 7 alle 22, io sarei giunto alle 17.30. Se fosse d'inverno, addirittura, il sole sarebbe già tramontato.

E se l'-Amore venisse a far rotolare la pietra del sepolcro, Lazare veni foras, o meglio, se tirasse fuori la pietra del cuore e la mutasse in carne palpitante e infiammata, se squarciasse i veli, se sfondasse i muri, se facesse crollare le colonne, i templi, gli idoli, se mi guardasse ancora una volta, una volta sola, e mi facesse vorticare in estasi, e non per praticare una via, un’ascesi, una disciplina, ma proprio perché l’-Amore è tale che il corpo non si tiene, oh se mi trascinasse, derviscio straccione, vestito di lana grezza e il sudario a cingermi la fronte, solo, a baciare i Suoi passi.


Ho bisogno di un amante che / quando si levi / produca finimondi di fuoco / da ogni parte del mondo! / Voglio un cuore come inferno / che soffochi il fuoco dell'inferno /  sconvolga duecento mari / e non rifugga dalle onde. (Jalāl al-Dīn Rūmī)