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martedì 24 giugno 2014

Si salvò chi era atteso da un amore - Frêney 1961

Non è un anniversario, che si debba parlare adesso di quanto avvenne sul pilone centrale del Frēney nel 1961. Io non ne sono stato testimone, non c’ero neppure, nessuno ancora mi aveva – come si dice – dato alla luce, oppure messo al mondo: qualcosa di me in effetti c’era, chissà se ero già io, ma qualcosa c’era, ancora invisibile nell’utero materno, e si formava già in me la prima, assiale, struttura nervosa, e i foglietti embrionali primari si dividevano, e insomma se ero io è stato di certo un periodo notevole, straordinario, aggrappato all’endometrio con rischi di precipitare ben più grandi di quelli corsi dai sette uomini appesi al granito rosso della Chandelle, e chissà se mia madre – che ancora di me non poteva saper nulla - ascoltava il giornale radio, se quella notizia l’aveva sentita, se si era emozionata, se si era commossa, lei a cui poi la montagna avrebbe strappato un figlio che allora sgambettava treenne, e come son legati i destini degli uomini forse neppure Dio lo sa. Io il Monte Bianco l’ho veduto tante volte ma non mi sono mai avvicinato, non l’ho mai amato – così diverso com’è dal Rosa –; solo una volta, con dentro una tristezza infinita, ho preso con amici la funivia che tratto dopo tratto si inerpica fino all’Aguille du Midi, e in poche occasioni mi sono sentito così desolato e spento. E poi non sono Buzzati il gran poeta e mistico delle alpi, non sono Marco Albino Ferrari che della vicenda è lo storico più competente, non Erri De Luca sono, non Emilio Fede, che – più giovane ma già con ciuffo di ordinanza – presidiava allora i fatti nella piazza di Courmayeur per l’unico canale TV, e non Fabio Fazio che più di recente accolse Bonatti nel salottino dei benpensanti (che guarda caso ha nome ‘Che tempo che fa’, e lì fu veramente tutta questione del che tempo che fece). In questi ultimi due casi, e forse tre, devo dire, per fortuna non lo sono. E allora perché mi metto a scrivere – ora – del Frēney?

Perché una settimana fa il grande, austero vegliardo è disceso dalle scale afferrandosi al corrimano e appoggiandosi a un bastone di legno ricurvo, ormai quasi cieco, e – sedutosi presso di me nella stanza dell’analisi – lui, che il Monte Bianco lo conosce benissimo e lo ha salito molte volte da più versanti, lui, conoscitore minuzioso della storia della conquista del cuore umano da parte delle cime (Come le montagne conquistarono gli uomini, titolo eccellente anche se non originale della più interessante opera di Robert McFarlane), lui, testimone oculare dei fatti, cittadino onorario di Courmayeur, frequentatore del Bar della Posta e del negozio di Toni Gobbi, lui, che ancora ogni estate vi si reca, e me lo immagino intravedere velata dagli anni, seduto silenzioso in giardino, l’immensa cupola bianca, chissà con che nomi lui la chiama, chissà con che nomi lei lo chiama, chissà come amano l’uno le rughe dell’altra, l’una le rughe dell’altro. Lui, che adesso cammina con me presso le voragini del mio dolore. Sì, ecco, lui una mattina è entrato zoppicando, si è seduto come sempre fa, che pare non possa più rialzarsi, e ha detto: Lei dovrebbe leggere qualcosa sul Frēney. E io, che non ne sapevo nulla, in pochi giorni ho letto quasi tutto.

Dunque c’è il Monte Bianco, ormai salito e risalito da mille versanti, e va bene, ma c’è ancora una via mai percorsa, che appunto si chiama pilone centrale del Frēney [classificazione SOIUSA (Suddivisione Orografica Internazionale Unificata del Sistema Alpino): Grande Parte: Alpi Occidentali; Grande Settore: Alpi Nord Occidentali; Sezione: Alpi Graie; Sottosezione: Alpi del Monte Bianco; Supergruppo: Massiccio del Monte Bianco; Gruppo: Gruppo del Monte Bianco; Sottogruppo: Contrafforti italiani del Monte Bianco; Codice: I/B-7.V-B.2.b, Coordinate geografiche: 45°48′57.16″N 6°53′06.86″E, tanto per dire che è proprio lì]. E’ l’ultimo residuo della verginità europea: violato il pilone, Qualcosa di magico e di eterno si solleverà invisibilmente dal ventaglio trinato delle Alpi, quel Qualcosa che parla di mistero e di Dio, si solleverà e se ne andrà per sempre, lasciando il posto agli spiriti smaglianti dello sport e dell’athlesis, dell’aggiunta di difficoltà (stagioni, velocità, eleganza, solitudine, fair means). Ecco, quel Qualcosa è aggrappato alle Alpi solo in questo punto: poi si potrà trovare – e per poco – sull’Himalaya o in Patagonia, e poi se ne andrà dal pianeta e migrerà nei cuori, oppure su altri pianeti, nel 1968 sarà violata tuttavia perfino la verginità lunare, ma alla fine – semplicemente – si dissolverà. 

Che in fondo neanche questo è vero, perché più tardi arrivarono i californiani, capelli lunghi, braghe corte, magliette multicolori, intenti a rollarsi canne (e forse altro), a rotolarsi in promiscuità, a prendere il sole, a schitarrare, ma poi si alzavano e facevano di slancio vie impossibili, altro che sesto grado, e le battezzavano Mescalina, Tangerine Trip, Starfighter, o Pink Panther Gets Diarrhea, lasciando inebetite e accigliate le guide dai maglioni di lana cruda grigioverdi e dai calzoni di fustagno verdegrigi, e verde e grigio di collera anche il volto del curato di san Pantaleone di Courmayeur e quello dell’abate di Saint Michel a Chamonix.  E ne avevano ben donde: perché in quel momento preciso l’alpinismo divorziava dall’etica, e non era più necessario essere un cavaliere senza macchia e senza paura per sfidare la verticalità e danzare sull’abisso. Nemmeno farsi il segno della croce. Lo si poteva fare a torso nudo o in reggiseno, con al collo una japa e biascicando un mantra. 

Ma torniamo al Frêney

Ci sono i Sette contro Tebe.
I tre italiani: la star Walter Bonatti, il migliore di tutti, guardato torvo dagli alpigiani perché non è figlio dei monti ma della pianura, viene dalla ginnastica, dalle palestre, è forza pura; il piccolo Andrea Oggioni, anche lui di pianura, di Villasanta vicino a Monza, da cui al massimo vedeva le Grigne; e il terzo addirittura milanese, l’ingegner Roberto Gallieni, borghesissimo di via Vittorio Veneto, con moglie e figli e Alfa Romeo, che andava in montagna come da un’amante, all’insaputa di tutti (e ricordatevi questa cosa dell’amante, lo vedrete, non è solo uno scontato paragone).
I quattro francesi: Pierre Mazeaud di Lione, giurista e di stirpe di giuristi, futuro giudice costituzionale e uomo politico; Pierre Kohlmann, parigino, con problemi di udito, tanto da dover utilizzare un apparecchio acustico; Robert Guillaume, parigino, pasticciere; Antoine Vieille, figlio di un Ammiraglio, anche lui militare.
I tre e i quattro si incontrano per caso al Bivacco della Fourche, il 9 luglio. I francesi sono arrivati prima, sono i primi pretendenti all’ultimo brandello di verginità alpina europea, ma dall’altra parte c’è il grandissimo Bonatti. La salita la faranno assieme. Così scrivono sul libro del bivacco: Andrea Oggioni, Roberto Gallieni, Walter Bonatti. Meta il Pilastro Centrale di Frēney. Al bivacco troviamo i colleghi francesi Pierre Mazeaud, Pierre Kohlmann, Antoine Vieille e Robert Guillaume. Discussione cordiale e costruttiva. Decidiamo di collaborare tutti insieme in sincero spirito cameratesco e alpinistico. Partiamo circa alle 24. Tempo Buono.

Ore e ore di avvicinamento. Zaini immensi e carichi di ferro. Si procede attenti fra seracchi e crepacce. Sono i più forti di tutti. Pesi sul cuore: forse. Sempre ce ne sono, prima di un’ascensione. Presentimenti? A sentir Ferrari, Oggioni, prima di lasciare la funivia, avrebbe detto: La farem sì, ma mi me la senti no. Ah, e non è l’unico cupo presagio. Una vecchina, salita con loro in funivia per vedere da vicino i ghiacciai, chiede chi sia Bonatti, e, saputolo, si avvicina e gli dice (lei che è nessuno, una vecchina, al principe delle vette): Andate a scalare il Bianco? Risponde Bonatti che non è vero, che vanno solo a fare un giro. Ma la vecchina implacabile: Signor Bonatti, sa cosa le dico? E’ tardi per fare un giro. Io vi mando tutti a letto! Risero tutti, di che riso non si sa. Eran las cinco en punto de la tarde.

[Penso al vegliardo che tace, appoggiato al suo bastone, nella stanza dell’analisi o nel suo giardino. Una volta – già vecchio – era anche lui sul terrazzo della stessa funivia, ed era sera, più tardi, verso le sette, ma ancora faceva luce. Arrivò un giovane biondiccio, vestito di nero, con scarpe da città, lo sguardo azzurro spento e gli zigomi slavi. Gli chiese, in inglese stentato, in che direzione bisognasse andare per la cima del Bianco. Sbalordito – poiché l’immensa cupola di roccia e ghiaccio sovrastava nella sua tracotante evidenza – lui indicò: per di là. E il giovanotto slavo si incamminò con le sue scarpe da città, passo dopo passo, finché non lo vide più, mai più]

11 luglio (il giorno della formazione della corda neurale da parte di quello che forse ero già io) i sette sono alle pendici di quella che verrà chiamata – da loro – la Chandelle, trecento metri verticali di granito rosso. Si sale, rapidamente si sale, si attrezzano le soste. Bonatti Gallieni Oggioni Kohlmann Mazeaud Guillaume e infine Vieille a togliere i chiodi. Quota 4400 mt.

A questo punto accade l’imprevisto. Ancora oggi i siti dei meteorologi discutono e litigano se l’imprevisto fosse o meno imprevedibile, tenendo conto dei dati e degli strumenti del tempo. I tre italiani avevano sentito la RAI e Radio Monteceneri e si erano fidati del loro istinto. Fatto sta che ora dal basso sale l’uragano.

Geloso della sua ultima parete inviolata, l’alpe si ricopre di nuvole come di un mantello. Fiammelle azzurre cominciano a danzare sulle mani degli uomini, sui chiodi, sui moschettoni delle soste, sulle picche, capelli e peli si drizzano e l’aria frigge (tanto che, giustamente, Erri De Luca fa notare che chi in certe discussioni parla di aria fritta forse non l’ha mai assaggiata). Le folgori si scatenano sulla cuspide del Frēney. Una di esse stende un suo terribile tentacolo fino a raggiungere l’apparecchio acustico acceso nel padiglione auricolare di Kohlmann, bruciandogli metà del viso, certo la mente e forse anche l’anima.  I sette urlano dal dolore, ma la disciplina e il rigore continuano a dirigere il loro agire. Recuperano il materiale metallico e lo calano il più possibile in basso. Su minuscole cenge non so come stendono dei tubi di tela che servono da tende e ci si rifugiano. Più in basso, coperto da teli, giace Kohlmann, provato dal dolore dello schianto. Il temporale dura fino alle nove di sera. Poi tutto si trasforma, torna la calma, nevica fitto, una breve pace. E fu sera e fu mattina: 12 luglio

Al mattino, grand beau temps. Molto stanchi, i sette – Kohlmann compreso – si ritrovano alla base del pilone. Si è deciso che questa volta andrà su Bonatti. Alle sei e mezzo è pronto a partire. Ma Oggioni, con la sua faccia tonda, guarda le nuvole: l’è minga bel. Tutto ricomincia, come e peggio del giorno precedente. Vanno avanti a biscotti e coramina. Gallieni distribuisce vitamine. Questa volta l’uragano non molla nella notte, va e torna, va e torna, concedendo brevissime illusorie tregue. Ecco che i sette sono raggiunti da presagi di morte, che a quella quota prendono forma di ricordi struggenti. Si pensa agli amori, ai figli, al Tour de France (che – come pronosticato dai sette – sarà vinto da Anquetil). Oggioni pensa alla sua Gilera nuova, bellissima, e si rammarica di aver portato con sé la chiave dopo averla chiusa. Pensa che quando sarà morto nessuno potrà aprirla e arrugginirà tutta. Spaventosa – direbbe C – la tenace sopravvivenza degli oggetti. Se si può parlare di chiarezza in una condizione del genere, nella mente di Bonatti è chiaro che tornare indietro sarebbe una follia. Mancano 120 metri, poi si può arrivare alla cima e scendere dal versante francese, oppure fino al Gonella, lungo la via normale italiana, come accadde nel ’56, sul versante della Brenva, (quando a sbagliare e a morirci furono Vincendon e Henry, rimasti a congelare nella carcassa sventrata di un elicottero venuto a soccorrerli). E un temporale estivo non può durare a lungo, si sa.  Meglio aspettare, basterebbero sei ore di tempo decente. Nelle ‘tende’ non si respira più, pur a -22° si preferisce squarciarne i teli per poter tirare il fiato, si usano i caschi come pitali per urinare quella poca urina, la fame cessa, le lingue si gonfiano e si crepano. E fu sera e fu mattina: 13 luglio. 

Ma quando passano ancora delle ore e la furia del vento e delle nubi non accenna a placarsi, anche Bonatti capisce che è finita. In una simile condizione di epuissement non possono certo salire. Devono scendere, ed è un rischio grandissimo perché il pilone si è trasformato in una spessa lastra di verglas, le soste attrezzate durante la salita. saranno coperte, forse invisibili, quasi sicuramente non utilizzabili. Ma è l’unica possibilità rimasta. Alle 3.30 del 14 agosto proprio Bonatti inizia la discesa. 

Ma in montagna non si va mai da soli. E con questo non alludo ai compagni di cordata, ma a una comunione invisibile intessuta da legami d’amore, di desiderio, di pensieri e di pena. Gli angeli, poi, chissà. Ma in quel momento preciso, proprio alle 3.30 del 14 agosto, la comunità invisibile che circondava i sette si desta allarmata. Quale precisamente degli spiriti decide di agire in modo tanto inconsueto non è facile da dire, anzi non si saprà mai. Tuttavia, Gianna – la moglie di Roberto Gallieni – riceve una telefonata nel cuore della notte, nella casa di Courmayeur, risponde, è una voce femminile, imperativa ma calma, che le dice Suo marito in questo momento si trova sul pilone centrale del Frêney, deve dare subito l’allarme, mi raccomando, non si tratta di uno scherzo! – Ma chi parla? – Non ha nessuna importanza, chiami i soccorsi! Ora, nessuno sapeva che suo marito era lì, nessuno sapeva che nessuno dei sette fosse lì (il Pilone ingolosiva molti, e serviva il segreto), se non Bianca, la compagna di Bonatti, che però aveva una voce del tutto diversa e sempre negò di aver telefonato. Fu dunque uno spirito che valicò l’abisso e si fece voce, o forse lucido sogno. Forse lo spirito di Gianna stessa, quella parte di lei che mai lasciava Roberto. Forse Gianna parlò con Gianna quella notte. Lei agisce.  Si muovono i soccorsi nella cittadina spazzata dalla pioggia. Comunque Gianna fino alla fine si chiese chi fosse, con un’ombra di gelosia dentro.

E si mobilitano le guide. E giungono i genitori di Roberto da Milano. E giungono i Ragni di Lecco, compagni di Oggioni da sempre. E giungono i giornalisti, le radio, la tivù. Mandano due guide alla Fourche, che ritornano riportando il contenuto del libro di bivacco: ora i soccorsi sono certi, sette alpinisti sono sul Pilone. E tutt’intorno la bufera. Poi accadrà che i soccorsi si attorciglieranno come le corde fanno in parete, e ci saranno i lecchesi, e i valdostani, e gli inglesi, e un’altra cordata da soccorrere, e l’accavallarsi delle idee, e il fare la voce grossa per chi deve prendere la decisione finale. Alla fine sono tutti alla capanna Gamba, distesi sul pavimento, qualcuno dorme, molti vegliano, fuori nevica. 

Intanto scendono scendono scendono i sette lungo lo strapiombo ghiacciato, e ogni sosta è una scommessa con la vita e la morte come posta. Non mangiano e non dormono da giorni, ma prendi un po’ di carne, non riesco guarda, allora un cucchiaino di marmellata, va là, mandalo giù. Si imboccano come bambini malati questi ciclopi delle montagne. Sono alla base della parete, e tutto è ancora da fare, il ghiacciaio della Brenva fa paura, la neve fresca copre i crepacci. 

Il primo a morire è Vieille. Il secondo Guillaume. Si lasciano i cadaveri coperti di teli perché i corvi non ne strazino le carni. Notte, freddo, vento, neve, disorientamento, infinita stanchezza, eppure dovrebbe essere qui vicino, vedi delle luci, no, sem propi del gatt. Incastrati da un maledetto nodo si bloccano Mazeaud e Oggioni, e siamo a poche centinaia di metri dalla salvezza. Mazeaud prova a risalire per sganciarsi, ma ricade spossato. Spira anche Oggioni, delirando della sua moto. 

Sull’ultimo declivio ne restano tre, Kohlmann, Gallieni e Bonatti. Vanno un po’ a caso verso i punti più scuri, sperando sia l’agognata Capanna, ma niente. E poiché ormai é l’ora e l’impero delle tenebre, e tutto può accadere, succede che il tempo si inverte. Kohlmann smarrisce totalmente la ragione, pensa che gli altri due vogliano ucciderli, stanco com’è si ribella, li assale, in una terribile lotta disfatta. E alla fine Bonatti e Gallieni si sciolgono da lui e lo lasciano rotolare nella neve, spacciato. Quindi Kohlmann profetava, in effetti lo hanno ucciso, lui lo aveva visto in un cortocircuito temporale, ove la causa coincide con l’effetto. Ogni orrore è possibile nel manifestarsi del caos primordiale, e non ci si innalza mai così tanto senza - prima o poi - incontrarlo.

Dentro la Capanna Gamba qualcuno scavalca i corpi distesi, si infila gli scarponi e esce a pisciare. Ne ha fatta di neve. Guarda l’ora, non conviene tornare a sdraiarsi, attendiamo la sveglia generale. E se li trova davanti, Bonatti e Gallieni. Bonatti entra nel rifugio, si accendono le lampade frontali, due sono morti – dice Bonatti – due sono bloccati là in alto, uno è proprio qui fuori. Gallieni si accascia fra le braccia della sua amica guida alpina. Si vanno a cercare gli altri, si recuperano i corpi di Oggioni e Kohlmann, Mazeaud è distrutto ma vivo. 

Al mattino fu mandato un elicottero Alouette alla Gamba. Mentre scende coi superstiti nel cerchio di attesa sfibrante, dolore cieco, curiosità mondana che è la piazza di Courmayeur, salgono già – inevitabili – le polemiche, che poi divamperanno. Bonatti, per la medesima vicenda, riceverà dai transalpini la Legion d’Onore, mentre dai cisalpini – che lo ammirarono, ma non lo amarono mai – una patente di opportunismo e di incompetenza, tanto da dover fuggire dal cimiterino di Villasanta, il giorno che vi sotterrarono Oggioni, perché volevano aggredirlo. Ma delle meschinità, che fan da triste corteggio ad ogni grande impresa, ora non voglio dire.

Voglio invece dire delle tre donne. Bianca, la donna di Bonatti, Gianna, la donna di Gallieni, e Dany, la donna di Mazeaud. Dei loro primi abbracci, in cui chi non doveva piangere pianse, e chi doveva non versò una lacrima, perché ben più ripide del pilone maledetto e incantato sono le muraglie del cuore, e quando ci si sporge su di esse non si può e non si deve capirci più niente. Ma Bonatti disse: Ci siamo salvati solo noi tre: Mazeaud, Gallieni ed io. Gli unici che avevano una donna e un amore ad aspettarli

C mi ricorda di Guillaumet. Vado a riprendere il racconto che ne fa Saint-Exupéry in Terre des Hommes. E’ un pilota che precipita sulle Ande, in pieno inverno. E che sopravvisse, camminando notti e giorni nella neve e nel gelo, quando tutti, tutti ormai lo davano per morto. E anche lui si dette per morto. Non ce la faceva più. Ma c’era un amore ad aspettarlo. «”Pensavo a mia moglie. La mia polizza di assicurazione le avrebbe risparmiato la miseria. Sì, ma le assicurazioni…” In caso di scomparsa, c’è una mora di quattro anni per la morte legale. Questo particolare ti si presentò abbagliante, cancellando le altre immagini. Ora, tu eri steso bocconi su un ripido pendio di neve. Il tuo corpo, col sopraggiungere dell’estate, sarebbe rotolato assieme alla fanghiglia verso uno dei mille crepacci delle Ande. Lo sapevi. Ma sapevi pure che una roccia emergeva, davanti a te, a cinquanta metri: “Ho pensato: se mi rialzo, forse posso raggiungerla; e, se addosso il mio corpo contro la pietra, in estate lo ritroveranno”. Una volta in piedi, camminasti per due notti e tre giorni.» E scrive ancora: «”Nella neve si perde totalmente l’istinto di conservazione. Dopo due, tre, quattro giorni che si cammina, non si desidera più altro che il sonno. Lo desideravo. Ma mi dicevo: mia moglie, se mi crede vivo, mi crede in cammino; i compagni mi credono in cammino, hanno fiducia in me, tutti quanti; e se non cammino sono un mascalzone.”»

Per farti andare avanti ci vuole qualcuno che sai che pensa: Se è vivo, sta camminando, sta venendo qui. Qualcuno davanti al cui amore devi rispondere, altrimenti sei un mascalzone, e forse da questo universa Lex pendet et Prophetae. Mi vengono in mente le innumerevoli ‘piazze di Courmayeur’ che sono le sale di attesa delle rianimazioni e dei reparti tragici, nelle quali ciò che si attende è l’esito delle imprese dei poveri esploratori obbligati del dolore, appesi come sono alla più vertiginosa verticalità che è un letto, quel letto  [classificazione: Azienda Sanitaria Locale: ASL numero X della città Tale; Presidio Ospedaliero: Policlinico Tale; Dipartimento: Emergenza e Accettazione; Unità Operativa Complessa: Rianimazione e Terapia Intensiva; Padiglione: Talaltro; Letto: Letto numero Y, tanto per dire che potrebbe essere così]. Poveri esploratori che se ne vanno tanto lontano, equipaggiati non con tessuti tecnici colorati ma con un pigiamino mesto di flanella magari bordò, e il bianco della neve è il bianco dei lenzuoli, ma il pallore e il rossore dei volti è il medesimo; e non sono legati a corde e a moschettoni, ma a cannule di fleboclisi e ad elettrodi, e le tempeste sono le febbri, gli arresti, gli edemi, ma identico è l’ansimare; e i compagni, ah i compagni li senti gemere e lottare accanto, proprio come in parete; e i bollettini meteo sono le analisi che arrivano, le tac, le lastre; e i soccorritori sono vestiti di camici bianchi o verdi o azzurri, ma uguale è il tentativo trepidante degli amici e dei parenti di decifrare una speranza nell’espressione dei loro volti. Anche Bonatti, che mai fu malato, dovette ormai piuttosto anziano affrontare quella terribile ascesa. Rossana, che gli fu accanto per trentacinque anni, lei che fu pin up e interpretò Nausicaa e Elena nei film sword and sandal, surclassando Liz Taylor e Ava Gardner, lei che la prima volta gli dette appuntamento all’Ara Coeli e lui andò all’Altare della Patria, e che razza di esploratore sei che non trovi l’Ara Coeli – gli disse – che razza di esploratore sei se non mi trovi, e lui fu perso e preso che neanche sul Petit Dru, ecco Rossana in quell'occasione fu mandata via perché non era ufficialmente la moglie, tantum potuit ius suadere malorum, perché non credo che la religio quella volta c’entrasse. Ma nessuno poteva aspettarlo nella piazza di Courmayeur sala d’attesa. E allora Bonatti, anziché scendere, salì ancora più in alto.