Pur se il cinema è
centrale, la cassiera – in vestaglia e occhialetti da portinaia vecchia Milano – è assolutamente
marginale. E anche la sala non concede quasi nulla allo spettatore, come si
direbbe in cinelinguaggio. Niente nomi suggestivi, come Urania o Truffaut o
Daphne o Fellini. Fuori: Milano da pre-ferragosto con cielo tra sole e
temporale, adattissimo ai cacciatori di arcobaleni. Dentro: A ed io attendiamo
l’inizio della proiezione di Ida, film di Pawel Pawlikowski. 80
minuti di bianco e nero sulla storia di una suora nella Polonia degli anni 60.
Non ho con me le lamette, e per giunta - circostanza assai rara - non ho
neppure sonno. Devo dire che A, mentre ancora le luci della sala sono
debolmente accese, mi consegna il dono da lei preso per me in India: un
meraviglioso set di merchandising di un sedicente asceta jaina digambara
(vestito di vento, quindi nudo) chiamato Acharya Sukumalnandi, consistenti in
n°1 poster adesivo stile Bollywood (capelli scolpiti e denti di un bianco
extraterrestre), n°1 biglietto da visita con fotina della testa retroilluminata
da aureola a dodici meravigliosi raggi, n° 1 microfoto di lui benedicente e
inscritto in un trono a forma di mandorla d’oro e d’argento, n°2 segnalibri
tipo clip di plastica bianca col volto radioso d’amore, e n°1 quaderno di
appunti con l’asceta – questa volta più severo - che benedice con la mano
sinistra due braccia con maniche di giacca e camicia che si stringono la mano,
sullo sfondo una specie di bandiera navale giapponese arancione e rosso. La
vera, verissima. kitschissima India. Da piangere per la commozione. Però,
aprendo il quaderno, vi trovo un’unica frase in inglese – tutto il resto è in
hindi – che l’asceta si attribuisce (le grandi frasi hanno sempre molti padri):
No pains no gains. Effettivamente al plurale non l’avevo mai ancora
letta. Che alluda a ciò che stiamo per vedere?
Gli ottanta minuti
passano – c’è perfino un intervallo ma senza gelataio in giacca bianca e
distintivo illuminato – e riemergo con una strana sensazione. Non mi sembra di
aver visto nulla di straordinario, eccetto dei meravigliosi grigi, caldi e
intensi, e la particolarità dell’aspect ratio (nozione compresa da noi
non cineintenditori solo dopo la visione di Grand Budapest Hotel, ossia il
rapporto tra la larghezza e l’altezza dell’immagine, e che Wes Anderson varia
continuamente facendone una modalità espressiva essenziale del suo magico
racconto) di 4/3, ossia volutamente retrò. La storia non mi ha detto niente.
Suor Anna, una novizia ex orfanella, un gelido convento sotto la neve, la madre
superiora che – proprio alla vigilia dei voti perpetui – anziché tenerla in
ritiro la manda a visitare la sua unica parente, Wanda, una zia per metà
sanguinario magistrato e per metà alcolizzata, fumatrice e sciupa maschi. Senza
l’ombra di un convenevolo la zietta le rivela chi l’orfana è davvero (e cioè
Ida Lebenstein, la figlia di una famiglia ebrea uccisa durante la guerra), qual
è il suo paese e che Dio forse non c’è. Poi le due donne vanno al villaggio, la
novizia prega, la zia inquisisce, beve e si dà da fare con omarelli raccolti al
bar, recuperano assieme i resti dei genitori della novizia, li seppelliscono al
cimitero ebraico di Lublino. Nel frattempo, in albergo, incontrano un
sassofonista che suona in una band Guarda che luna di Fred Buscaglione e
Con ventiquattromilabaci di Celentano, ma in segreto si strugge con John
Coltrane. La monaca torna al convento, la zia alla sua casa: per poco
entrambe. La zia sfratta dalle lenzuola il suo ultimo omino, mette sul
giradischi la sinfonia Jupiter di Mozart (che, per Woody Allen, è una di
quelle cose per cui vale la pena vivere,
e detto da lui…), si accende la sigaretta, gira a piedi nudi per la stanza, poi
spegne la sigaretta, apre la finestra e si getta di sotto. La giovane novizia,
avvisata, lascia nuovamente il monastero – mentre le altre sue consorelle
prendono i sacri voti incoronate di fiori – va a casa della zia, si toglie il
velo e si scioglie i capelli, indossa un tubino sexy nero e le scarpe a tacco
alto della zia, va a trovare il sassofonista belloccio, danza con lui, torna
con lui a casa e ci va a letto. Al mattino si svegliano, lui le dice Andiamo
a Danzica. Vuoi venire?, lei: Perché?, lui: C’è il mare, hai mai
visto il mare?, lei: Non ho visto niente., lui: Andremo in
spiaggia, lei: E poi?, lui: E poi ci sposiamo, compriamo una
casa, facciamo dei bambini, lei (bellissima, appoggiata sul gomito): E
poi?, lui: E poi cominciano i problemi. Logico che lei aspetti che
lui si riaddormenti, logico che quindi si alzi, indossi nuovamente il suo abito
di novizia e torni in tutta fretta al monastero. Per far cosa non si sa, finale
aperto. Bene. A me come storia non sembra granché. Esco un po’ deluso.
Poi passa una notte
silenziosa e i ricordi maturano nel sonno e nei sogni, così che al risveglio il
mio giudizio si è completamente rovesciato. I personaggi di Ida non
hanno praticamente alcuna psicologia. Il volto della monaca è di slavità
assolutamente indecifrabile, quello della zia è intenso ma fisso come una
maschera tragica. Se l’attesa – e probabilmente era la mia – si collocava al
livello della psicologia, il film non poteva se non risultare deludente. Tanto
da avermi fatto pensare che la storia altro non fosse che un pretesto per
sciorinare bellissimi bianchi, neri accesi e un infinità di gradazioni
perlacee. C'è però chi mi ha fatto notare che in realtà le due protagoniste
sono molto differenti, anche dal punto di vista psicologico. Pur essendo praticamente 'nata' nella gelida
e iperessenziale nudità del monastero, Anna/Ida sa stare nelle
circostanze che le capitano in modo adeguato e fluido. Sa accogliere l'impensabile, sa aprirsi
all'avventura, sa scavare nella terra umida, sa avvolgere - come una tra le
tante Antigoni della storia - il cranio dei genitori in un foulard per dare
loro sepoltura, sa innamorarsi, sa andar via, sa vestirsi da donna, sa svenire
di libertà ruotando come un derviscio dentro una tenda di tulle, sa far l'amore
e sa porre domande radicali. Wanda, pur con la sua età e il suo savoir vivre,
è invece sempre sbilanciata, sghemba, instabile: deve aggrapparsi ogni volta a qualcosa
o a qualcuno, un amante, una sigaretta, una bottiglia.
Tuttavia a me pare che le
due donne siano esistenzialmente più simili che diverse. Lo sono nel verificare
lucidamente come la vita, e Dio, tutto fanno fuorché mantenere le promesse di
pienezza, di bellezza e di bene. Lo verifica Wanda rispetto all'ideologia
rivoluzionaria e socialista, alla libertà sessuale, alle zeppe consolatorie di
cui si circonda. Lo verifica Anna/Ida rispetto al Gesù di gesso, al pupazzo
senza vita portato nella neve al centro del chiostro in una scena iniziale
mozzafiato, all'innamoramento, alla giovinezza. Ed entrambe traggono le
conseguenze: darsi la morte, buttandosi da una finestra o tornando in convento.
Perché - evidentemente - sono due suicidi.
Eppure, nel profondo di
ogni vita, c’è almeno un momento in cui gratuitamente, graziosamente,
inaspettatamente, il più grande che
attendiamo si rivela, e ti parla, a te, a te, oh proprio a te. Solo un istante
magari. Una ferita sulla trama dell’ovvio. Un varco montaliano, prima che il
frangente ripulluli sulla famosa balza che scoscende. Il film, questo momento,
delicatamente, intensamente, magistralmente, ce lo mostra. Per le due donne
esso passa da un padre o un fratello che – con la dolente e struggente sapienza
dei figli di Israele – aveva allestito, nella tetraggine del paesaggio piatto e
gelato, una vetrata da cattedrale per consolare le mucche nella stalla. E la
zia si domanda: Chissà perché. Tutto
questo lavoro per una stalla, per due mucche. Ora, io ho la fortuna di
avere un amico così tanto caro che le vetrate le fa, e che un po’ mi ha
fatto conoscere l’infinita pazienza che richiede, e la mobilitazione del cuore,
degli occhi, delle mani, e la potenza del calore dei forni, e l’astronomia per l’orientamento,
perché una vetrata è fatta per la luce, per essere mediatrice tra la luce e l’occhio
umano. Wanda rovistando nel suo passato con il suo rammemorare amaro, Anna/Ida entrando
nella stalla ed essendo colpita da un raggio di sole trasfigurato e diffratto
in colori, che il bianco e nero rende più evidenti, perché quella scena è
riempita e saturata dai colori contenuti nei ricordi dello spettatore, entrambe
ricevono da quella vetrata da stalla il dono del rimando all’Oltre. Per la
ragazza è quasi un’Annunciazione, lei che guarda incantata quella fragile
bellezza che si è mantenuta integra, nonostante le guerre, le rivoluzioni, i
tradimenti, gli omicidi, e tutto il dolore e il freddo e il fango della vita.
Poi è vero: la vita, o Dio, non mantengono le promesse e può valer la pena
suicidarsi o farsi suora. Ma tenacemente la fragile vetrata continua ad
alludere al più in là, per citare
ancora Montale.
Questo tema è anche – e profondamente
– rilkiano. E concludo trascrivendo una sua poesia mesta eppure dolcissima.
Nonnen-Klage (Lamento di una monaca)
Gesù Signore – piegati /a
una come tante. / Tu sei ricco e possiedi / i più splendidi ammanti / del cielo
su di te.
Le donne che ti sei
scelte / un giorno, a te sono rese: / puoi leggere con loro / e giocare, e a
Teresa / mostrare le tue stanze.
Tua madre in cielo ora /
è una dama e fiorisce / il suo nome regale /dalle nostre preghiere,
qui, da questi giardini /
d'inverno, dove a volte / tu guardi, e strani cespi / trai dalle nostre voci.
Gesù Signore - hai tutte
/ le donne che tu ami. / Il mio grido che importa / se si perda o ti chiami?
Si perde in un lamento /
e lo spazio lo strema. / Altre voci tu senti; / non ti ingannare: appena
dal mio cuore mi accosto
/ al mio viso che canta. / E vorrei farti male, / Signore, ma mi manca
l'animo: se sollevo / verso te la mia pena / subito
ricade mite / e fredda come la neve.
Fuori fossi rimasta /
dove ho cominciato, / il giorno sarebbe angoscia / e la notte peccato.
Forse mi avrebbe presa /
un uomo, e sarei sola, / e un altro sarebbe venuto / e la mia bocca ancora
soffrirebbe dei baci. / E
un terzo a piedi l'avrei / seguito, ma, Signore, / per averne pietà;
e per stanchezza e paura
/ a un quarto mi sarei data / per non giacere più sola / e abbracciare una
creatura.
Ma se nessuno ha dormito
/ accanto a me, tu mi salvi? / Dov'eri quando cantavo? / Chi chiamo nei nostri
salmi?
La mia vita è lontana -/
Gesù, dimmi: è con te? / L'hai tu vista venire? / E sono in te, Signore? / E
sono in te, Gesù?
Pensa: così finisce / nel
rumore del giorno. / Ciascuno la rinnega, / nessuno più conosce / la mia vita,
Gesù-
Ed era la mia vita, /
Gesù Signore, sei certo? / Non un'altra in cui pure / nessun morso abbia aperto
/ un suo segno, Gesù?
O la mia vita forse / non
è con te, ma langue / spezzata, e intanto piove, / piove e l'acqua la bagna, /
e gela dentro, Gesù.