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venerdì 29 agosto 2014

Je décalque l'invisible. Ida, film in bianco e nero su una vetrata

Pur se il cinema è centrale, la cassiera – in vestaglia e occhialetti da portinaia vecchia Milano – è assolutamente marginale. E anche la sala non concede quasi nulla allo spettatore, come si direbbe in cinelinguaggio. Niente nomi suggestivi, come Urania o Truffaut o Daphne o Fellini. Fuori: Milano da pre-ferragosto con cielo tra sole e temporale, adattissimo ai cacciatori di arcobaleni. Dentro: A ed io attendiamo l’inizio della proiezione di Ida, film di Pawel Pawlikowski. 80 minuti di bianco e nero sulla storia di una suora nella Polonia degli anni 60. Non ho con me le lamette, e per giunta - circostanza assai rara - non ho neppure sonno. Devo dire che A, mentre ancora le luci della sala sono debolmente accese, mi consegna il dono da lei preso per me in India: un meraviglioso set di merchandising di un sedicente asceta jaina digambara (vestito di vento, quindi nudo) chiamato Acharya Sukumalnandi, consistenti in n°1 poster adesivo stile Bollywood (capelli scolpiti e denti di un bianco extraterrestre), n°1 biglietto da visita con fotina della testa retroilluminata da aureola a dodici meravigliosi raggi, n° 1 microfoto di lui benedicente e inscritto in un trono a forma di mandorla d’oro e d’argento, n°2 segnalibri tipo clip di plastica bianca col volto radioso d’amore, e n°1 quaderno di appunti con l’asceta – questa volta più severo - che benedice con la mano sinistra due braccia con maniche di giacca e camicia che si stringono la mano, sullo sfondo una specie di bandiera navale giapponese arancione e rosso. La vera, verissima. kitschissima India. Da piangere per la commozione. Però, aprendo il quaderno, vi trovo un’unica frase in inglese – tutto il resto è in hindi – che l’asceta si attribuisce (le grandi frasi hanno sempre molti padri): No pains no gains. Effettivamente al plurale non l’avevo mai ancora letta. Che alluda a ciò che stiamo per vedere?

Gli ottanta minuti passano – c’è perfino un intervallo ma senza gelataio in giacca bianca e distintivo illuminato – e riemergo con una strana sensazione. Non mi sembra di aver visto nulla di straordinario, eccetto dei meravigliosi grigi, caldi e intensi, e la particolarità dell’aspect ratio (nozione compresa da noi non cineintenditori solo dopo la visione di Grand Budapest Hotel, ossia il rapporto tra la larghezza e l’altezza dell’immagine, e che Wes Anderson varia continuamente facendone una modalità espressiva essenziale del suo magico racconto) di 4/3, ossia volutamente retrò. La storia non mi ha detto niente. Suor Anna, una novizia ex orfanella, un gelido convento sotto la neve, la madre superiora che – proprio alla vigilia dei voti perpetui – anziché tenerla in ritiro la manda a visitare la sua unica parente, Wanda, una zia per metà sanguinario magistrato e per metà alcolizzata, fumatrice e sciupa maschi. Senza l’ombra di un convenevolo la zietta le rivela chi l’orfana è davvero (e cioè Ida Lebenstein, la figlia di una famiglia ebrea uccisa durante la guerra), qual è il suo paese e che Dio forse non c’è. Poi le due donne vanno al villaggio, la novizia prega, la zia inquisisce, beve e si dà da fare con omarelli raccolti al bar, recuperano assieme i resti dei genitori della novizia, li seppelliscono al cimitero ebraico di Lublino. Nel frattempo, in albergo, incontrano un sassofonista che suona in una band Guarda che luna di Fred Buscaglione e Con ventiquattromilabaci di Celentano, ma in segreto si strugge con John Coltrane. La monaca torna al convento, la zia alla sua casa: per poco entrambe. La zia sfratta dalle lenzuola il suo ultimo omino, mette sul giradischi la sinfonia Jupiter di Mozart (che, per Woody Allen, è una di quelle cose per cui vale la pena vivere, e detto da lui…), si accende la sigaretta, gira a piedi nudi per la stanza, poi spegne la sigaretta, apre la finestra e si getta di sotto. La giovane novizia, avvisata, lascia nuovamente il monastero – mentre le altre sue consorelle prendono i sacri voti incoronate di fiori – va a casa della zia, si toglie il velo e si scioglie i capelli, indossa un tubino sexy nero e le scarpe a tacco alto della zia, va a trovare il sassofonista belloccio, danza con lui, torna con lui a casa e ci va a letto. Al mattino si svegliano, lui le dice Andiamo a Danzica. Vuoi venire?, lei: Perché?, lui: C’è il mare, hai mai visto il mare?, lei: Non ho visto niente., lui: Andremo in spiaggia, lei: E poi?, lui: E poi ci sposiamo, compriamo una casa, facciamo dei bambini, lei (bellissima, appoggiata sul gomito): E poi?, lui: E poi cominciano i problemi. Logico che lei aspetti che lui si riaddormenti, logico che quindi si alzi, indossi nuovamente il suo abito di novizia e torni in tutta fretta al monastero. Per far cosa non si sa, finale aperto. Bene. A me come storia non sembra granché. Esco un po’ deluso.

Poi passa una notte silenziosa e i ricordi maturano nel sonno e nei sogni, così che al risveglio il mio giudizio si è completamente rovesciato. I personaggi di Ida non hanno praticamente alcuna psicologia. Il volto della monaca è di slavità assolutamente indecifrabile, quello della zia è intenso ma fisso come una maschera tragica. Se l’attesa – e probabilmente era la mia – si collocava al livello della psicologia, il film non poteva se non risultare deludente. Tanto da avermi fatto pensare che la storia altro non fosse che un pretesto per sciorinare bellissimi bianchi, neri accesi e un infinità di gradazioni perlacee. C'è però chi mi ha fatto notare che in realtà le due protagoniste sono molto differenti, anche dal punto di vista psicologico.  Pur essendo praticamente 'nata' nella gelida e iperessenziale nudità del monastero, Anna/Ida sa stare nelle circostanze che le capitano in modo adeguato e fluido.  Sa accogliere l'impensabile, sa aprirsi all'avventura, sa scavare nella terra umida, sa avvolgere - come una tra le tante Antigoni della storia - il cranio dei genitori in un foulard per dare loro sepoltura, sa innamorarsi, sa andar via, sa vestirsi da donna, sa svenire di libertà ruotando come un derviscio dentro una tenda di tulle, sa far l'amore e sa porre domande radicali. Wanda, pur con la sua età e il suo savoir vivre, è invece sempre sbilanciata, sghemba, instabile: deve aggrapparsi ogni volta a qualcosa o a qualcuno, un amante, una sigaretta, una bottiglia.


Tuttavia a me pare che le due donne siano esistenzialmente più simili che diverse. Lo sono nel verificare lucidamente come la vita, e Dio, tutto fanno fuorché mantenere le promesse di pienezza, di bellezza e di bene. Lo verifica Wanda rispetto all'ideologia rivoluzionaria e socialista, alla libertà sessuale, alle zeppe consolatorie di cui si circonda. Lo verifica Anna/Ida rispetto al Gesù di gesso, al pupazzo senza vita portato nella neve al centro del chiostro in una scena iniziale mozzafiato, all'innamoramento, alla giovinezza. Ed entrambe traggono le conseguenze: darsi la morte, buttandosi da una finestra o tornando in convento. Perché - evidentemente - sono due suicidi.

Eppure, nel profondo di ogni vita, c’è almeno un momento in cui gratuitamente, graziosamente, inaspettatamente, il più grande che attendiamo si rivela, e ti parla, a te, a te, oh proprio a te. Solo un istante magari. Una ferita sulla trama dell’ovvio. Un varco montaliano, prima che il frangente ripulluli sulla famosa balza che scoscende. Il film, questo momento, delicatamente, intensamente, magistralmente, ce lo mostra. Per le due donne esso passa da un padre o un fratello che – con la dolente e struggente sapienza dei figli di Israele – aveva allestito, nella tetraggine del paesaggio piatto e gelato, una vetrata da cattedrale per consolare le mucche nella stalla. E la zia si domanda: Chissà perché. Tutto questo lavoro per una stalla, per due mucche. Ora, io ho la fortuna di avere un amico così tanto caro che le vetrate le fa, e che un po’ mi ha fatto conoscere l’infinita pazienza che richiede, e la mobilitazione del cuore, degli occhi, delle mani, e la potenza del calore dei forni, e l’astronomia per l’orientamento, perché una vetrata è fatta per la luce, per essere mediatrice tra la luce e l’occhio umano. Wanda rovistando nel suo passato con il suo rammemorare amaro, Anna/Ida entrando nella stalla ed essendo colpita da un raggio di sole trasfigurato e diffratto in colori, che il bianco e nero rende più evidenti, perché quella scena è riempita e saturata dai colori contenuti nei ricordi dello spettatore, entrambe ricevono da quella vetrata da stalla il dono del rimando all’Oltre. Per la ragazza è quasi un’Annunciazione, lei che guarda incantata quella fragile bellezza che si è mantenuta integra, nonostante le guerre, le rivoluzioni, i tradimenti, gli omicidi, e tutto il dolore e il freddo e il fango della vita. Poi è vero: la vita, o Dio, non mantengono le promesse e può valer la pena suicidarsi o farsi suora. Ma tenacemente la fragile vetrata continua ad alludere al più in là, per citare ancora Montale.



Questo tema è anche – e profondamente – rilkiano. E concludo trascrivendo una sua poesia mesta eppure dolcissima.

Nonnen-Klage (Lamento di una monaca)

Gesù Signore – piegati /a una come tante. / Tu sei ricco e possiedi / i più splendidi ammanti / del cielo su di te.
Le donne che ti sei scelte / un giorno, a te sono rese: / puoi leggere con loro / e giocare, e a Teresa / mostrare le tue stanze.
Tua madre in cielo ora / è una dama e fiorisce / il suo nome regale /dalle nostre preghiere,
qui, da questi giardini / d'inverno, dove a volte / tu guardi, e strani cespi / trai dalle nostre voci.
Gesù Signore - hai tutte / le donne che tu ami. / Il mio grido che importa / se si perda o ti chiami?
Si perde in un lamento / e lo spazio lo strema. / Altre voci tu senti; / non ti ingannare: appena
dal mio cuore mi accosto / al mio viso che canta. / E vorrei farti male, / Signore, ma mi manca
l'animo:  se sollevo / verso te la mia pena / subito ricade mite / e fredda come la neve.
Fuori fossi rimasta / dove ho cominciato, / il giorno sarebbe angoscia / e la notte peccato.
Forse mi avrebbe presa / un uomo, e sarei sola, / e un altro sarebbe venuto / e la mia bocca ancora
soffrirebbe dei baci. / E un terzo a piedi l'avrei / seguito, ma, Signore, / per averne pietà;
e per stanchezza e paura / a un quarto mi sarei data / per non giacere più sola / e abbracciare una creatura.
Ma se nessuno ha dormito / accanto a me, tu mi salvi? / Dov'eri quando cantavo? / Chi chiamo nei nostri salmi?
La mia vita è lontana -/ Gesù, dimmi: è con te? / L'hai tu vista venire? / E sono in te, Signore? / E sono in te, Gesù?
Pensa: così finisce / nel rumore del giorno. / Ciascuno la rinnega, / nessuno più conosce / la mia vita, Gesù-
Ed era la mia vita, / Gesù Signore, sei certo? / Non un'altra in cui pure / nessun morso abbia aperto / un suo segno, Gesù?
O la mia vita forse / non è con te, ma langue / spezzata, e intanto piove, / piove e l'acqua la bagna, / e gela dentro, Gesù.





venerdì 22 agosto 2014

5774, 2014, 1435

C’è uno slargo, nella cinta della Gerusalemme vecchia, dove ieri – in un unico istante, ossia alle 17.49 -  si sono trovati contemporaneamente, e per caso, tre ragazzi, tutti e tre di dodici anni. Il primo si chiama Moishele, è uno dei sei figli di una famiglia di Haredim di origine askenazita; indossava una camicia bianca e dei pantaloni scuri, come sempre, del resto; è biondo, ha gli occhi azzurro chiaro, e da sotto la kippah nera spuntano, ai lati della testa, lunghi ciuffi fulvi che quando sarà più grande arriccerà nei tradizionali i payot; è un piccolo zaddiq, e camminava velocemente accanto al padre – il quale a sua volta spingeva un passeggino biposto con a bordo altri due figlioletti – dirigendosi verso il Muro Occidentale. Il secondo è Ahmed, un ragazzo arabo dagli occhi neri come perle, che giocava a palla in strada con alcuni amici; suo padre è un devoto musulmano sunnita, e ha la funzione di imam, cioè guida gli altri credenti, ponendosi di fronte a loro, nelle cinque preghiere quotidiane in una piccola moschea. Passava di lì anche Jean-Jerôme, parigino del quartiere Montparnasse, venuto con i genitori in pellegrinaggio in Terra Santa, ha il volto simpatico e lentigginoso, e in quel momento portava una maglietta con il logo dell’Hard Rock Cafè – Jerusalem, che i suoi gli avevano appena regalato e di cui andava molto fiero; è stato appena cresimato, e – per quanto spesso si annoi – segue il papà e la mamma a messa la domenica.
Ieri, alle 17.49 orario locale, i tre ragazzini erano vicinissimi. Nello spazio e – si direbbe – ancor più nel tempo. Però per Jean-Jerôme era il 21 agosto dell’anno 2014 dalla Nascita di Gesù, per Ahmed era il 25 Shawwal dell’anno 1435 dall’Egira, per Moishele il 25 Av del 5774 dalla Creazione del mondo. Jean-Jerôme sa di vivere all’inizio del terzo millennio, essendoci perfino nato, a differenza della sorella maggiore che ha 16 anni, è nata au siecle dernier –  di questo lui la prende in giro ridendo – e si è guardata bene dall’accompagnare la famiglia in Terra Santa, preferendo di gran lunga andare in tenda col fidanzato a Tarifa per fare kitesurfing. Moishele, nonostante tutto, vive in un fantafuturo (5774 sa di science fiction e di navi spaziali alla Star Trek). Ahmed è un ragazzo tardo medioevale, prima metà del Quattrocento.

Ora, è chiaro che i piccoli Moishele, Jean-Jerôme e Ahmed stasera giocheranno ad Angry Birds sul medesimo modello di IPad. La scienza, in generale la conoscenza, ma soprattutto la tecnologia, hanno un calendario tutto loro a cui prima o poi tutti quanti si adattano. Va bene il Magen Dawid, la Croce o la Mezzaluna: ma alla fine è la Mela Morsicata che brilla dai retroschermi dei laptop di Tel Aviv, di Roma o di Medina, unificandole. E’ovvio che c’è un unico vettore del tempo, e – qualunque sia il nome che gli diamo – siamo tutti su un unico punto di esso. Non è di questo che voglio parlare adesso, bensì del fatto che su quel punto unico ci si possono trovare un ventenne, un cinquantenne e un ottantenne. E, dal punto di vista della religione, Moishele adesso ha ottant’anni, Jean-Jerôme cinquanta e Ahmed venti. Non è una differenza che conti poco.

In una memorabile scena di Non ci resta che piangere – con Benigni e Troisi – i due, rimasti in panne con la macchina in campagna, trovano rifugio in una locanda. E’ tutto un po’ strano, non c’è la luce – sarà il tempaccio – vengono loro offerti dei pagliericci e una stanza con un potente russatore già dentro. Ma al mattino sono spettatori della morte di questo stesso individuo, trafitto da un colpo di lancia scagliato da alcuni cavalieri attraverso la finestra. Quando scendono dabbasso trovano un gruppo di persone vestite con cappucci, corsetti, calzamaglie. Ma che scherzo è questo? Come siete vestiti? dice Benigni; O’vvoi? replica un tizio riccioluto; Noi! grida Benigni Noi siam vestiti bene, no come voi! (…almeno normali soggiunge Troisi col suo delizioso understatement partenopeo). Dove siamo? incalza Benigni. A Frittole, gli rispondono. A Frittole? Cavalli, morti, spade! Ma in che anni siamo? La risposta lo lascerà senza parole e spaventatissimo: Nel millequattrocento, quasi milleccinque. Se Ahmed dicesse a Jean-Jerôme che siamo nel millequattrocento lo vedrebbe mettersi a ridere. Ma religiosamente è proprio così che stanno le cose.

Rabbini si lisciano la loro meravigliosa barba bianca all’ombra delle Yeshivot applicando piamente le sognanti e rigorosissime regole dell’ermeneutica ebraica alle pagine di Devarìm / Deuteronomio, Wayqrà / Levitico e Yeshua / Giosuè per comprendere cosa significhi mai il precetto di votare allo sterminio (khérem) i cananei, dal momento che – nella storia-storia -  ad essere sterminati sono stati sempre gli ebrei. Ma se vogliamo stare al dettato biblico, questo Giosuè non era certo una colomba. Dalle città che conquistava con la spada – oltre che facendone crollare le mura a suon di shofar - non ne scampava uno, fosse uomo donna o bambino, e ciò per rendere onore a Tetragramma, che a quel tempo era un Dio che non aveva scordato le sue origini tribali e desertiche, e ancora ruggiva come un leone, ben lontano dal diventare il mite e silenzioso Antico di Giorni, quel vegliardo simile a Gandalf che si siede in trono nella profezia del libro di Daniele (anche Dio ha una biografia, come si ricava leggendo il piacevole libro di Jack Miles: God: a Biography). Insomma, Giosuè aveva a che fare con un Dio ancora abbastanza giovane e forzuto. In fondo era più o meno il 2700, son passati tremila anni da allora.

Però anche teologi, esegeti, filologi cristiani, magari tedeschi o francesi dalle lenti spesse due dita su montatura di tartaruga a proteggere uno sguardo acquoreo, giacca nera con crocettina d’argento e camicia candida con le punte del collo sopra il gilè, nelle biblioteche di Tubinga o Lovanio, si affannano a disinnescare quei medesimi imbarazzanti testi a colpi di Redaktionsgeschichte, Formgeschichte, di metodi storico-critici e di strutturalismo. Non è facile armonizzare il feroce cugino dei Baal con il Padre del crocifisso. Ma più difficile ancora – anche se forse meno cruciale – è il compito dei colleghi del terzo piano, al dipartimento di Storia della Chiesa. Perché tutti abbiamo in mente il buon Re Carlo – beatificato e venerato con officiatura propria nella Cattedrale di Aquisgrana – sotto un pino, presso un roseto, maestosamente assiso sul trono di oro puro, con la barba bianca, la testa coronata dai fiori, il bel corpo, il contegno fiero , tutti abbiamo in mente i versi delicati della Chanson de Roland. Ma il buon Re Carlo convertì i sassoni e gli àvari ponendo loro di fronte - come alternativa - il fonte battesimale o il ceppo della decapitazione, e molti dei rudi nordici offersero il collo alla mannaia. Anche gli ortodossi, con il loro Costantino isoapostolo, non fanno meno fatica. Avrà anche trionfato contro Massenzio nel segno della Santa Croce, ma proviamo a chiedere a Licinio, al figlio Crispo, alla moglie Fausta e a un sacco di altra gente da lui assassinata cosa ne pensano. Si dirà: erano secoli bui. Forse erano solo secoli di un Dio più giovane e bellicoso. Attorno al 1500, poco più di cinquecento anni fa, di spada e di croce gli spagnoli dilagarono nelle Americhe, vogliosi di anime, terre e oro. Francisco Pizarro sterminò migliaia di innocenti a Cajamarca, e il povero Atahualpa venne destinato misericordiosamente alla garrota e non al rogo solo perché convertitosi in extremis.

Sia ben chiaro: io non voglio dar parole alla scontata antiagiografia ateistica, e suonare la grancassa al ritmo dell’idea della violenza intrinseca dei monoteismi. Con tali superficialità non voglio mescolarmi. Tanto nell’antico Israele quanto nella cristianità antica, medievale e moderna la santità era presente, percepibile, vibrante. Se le religioni, per dirla con Lucrezio, tantum potuerunt suadere malorum, mille volte tanto hanno generato in umanità, civiltà, bellezza. Non è sensato inoltre dire che Giosuè non avesse un rapporto di particolare vicinanza con Tetragramma, né che Carlo Magno non fosse solidamente cristiano. La questione, se mi si consente, è ben altra: ossia il significato teologico della violenza. Il ripudio totale di essa da parte del cristianesimo è abbastanza recente. Il luminoso volto dell’attuale Patriarca di Costantinopoli, la sua attenzione orante per ogni particella del creato di Dio, così come la dolce voce paterna e accattivante del Papa di Roma Francesco e la sua cura per gli ultimi della terra, sono fioriture meravigliose della contemporaneità cristiana. Se è vero che il cristianesimo ha creato le condizioni sociologiche e storiche per lo sviluppo della dottrina dei diritti inviolabili dell’uomo – e di tutto ciò che è chiamato generalgenericamente ‘civiltà occidentale’ – è altrettanto vero che da esse è stato ri-evangelizzato. Molto bene, si dirà. Sì, ma non è senza aver pagato un prezzo che questo è accaduto. il Dio cristiano è invecchiato dolcemente, diventando un nonno saggio e buono, ma quasi privo di forze. Per i cristiani occidentali Dio, quando non è una favola o un’assenza, è ordinariamente una decorazione esistenziale. Alcune anime incandescenti di santità sono forse ancora disposte a morire per Lui (e c’è da dire che ho avuto un brivido lungo la schiena quando – leggendo un recentissimo pezzo di Luca Doninelli – ho appreso che a suo avviso sia lui che Antonio Socci si farebbero ammazzare pur di non calpestare la Croce; mi sono domandato, non riuscendo a rispondere, che cosa farei io, che mi vengono le ginocchia molli se solo devo andare dal dottore). Ma nessuno – e forse fortunatamente – sarebbe disposto a uccidere per Lui. Toccate a un occidentale il suo SUV e lo vedrete impugnare il crick, bestemmiate davanti a lui e rimarrà indifferente. Interisti e juventini possono darsela di santa ragione, ma la questione del filioque non appassiona più se non qualche vecchio teologo. Chesterton (in The Ball and the Cross) descrive lo stupore della società londinese dei primi del novecento quando, dopo che un editore ateo pubblica nell’indifferenza generale una rivista contenente affermazioni insultanti riguardo alla Vergine Maria, un cattolico scozzese sfonda la vetrina e lo sfida a duello. L’editore ateo – che paradossalmente condivide col focoso scoto lo stesso paradigma veritativo forte – è ben contento di combattere: ma finiranno entrambi in manicomio. Un Dio anziano ne ha viste tante. E’ diventato saggio. Conosce gli uomini, la loro povertà. Sa che ce ne sono altri come Lui in cielo, che non è l’unico e non ha più voglia né forza per giocare al maschio alfa. Certo, può ancora accigliarsi in ambito di morale, ma ha rinunciato completamente alla violenza. La sera scende al bar e gioca a tressette con gli altri dèi. Sono suoi amici, e sa che forse presto condivideranno con lui anche la camera dell’ospizio. Se ha una preoccupazione, essa non riguarda i colleghi numinosi, ma i terribili idoli rampanti, Usury, Lust and Power, per dirla con TS Eliot. Il Dio anziano ricorda con nostalgia quando questi idoli – pur sempre esistiti e sempre stati vigorosi – erano a Lui sottomessi. Ricorda quando il Suo servitore Ambrogio di Milano rifiutò l’ingresso al Cesare Teodosio per il crimine compiuto a Tessalonica. O quando Enrico IV attese scalzo e vestito di sacco per tre giorni nella neve davanti alle porte del castello di Canossa. Ricordi lontani, di quando era più giovane. Ora Potere, e le sorelle Usura e Lussuria, gridano forte e dominano menti e cuori in Occidente. Lui li rimprovera un po’, agita il dito, borbotta, ma in fondo chi è Lui per giudicare.

E il Dio dell’ISIS? No, Lui è più giovane. Non sono passati tanti anni da quando si scagliò sul figlio di mercanti meccani Muhammad presso il monte di Hira, rendendolo Messaggero di Dio e Sigillo dei Profeti. Ha ancora nelle narici l’odore umido delle carovane e negli orecchi il frastuono delle spade dei suoi che combattono gli idolatri. E’ ancora padrone della vita e della morte degli uomini. Non c’è Dio se non Proprio-Lui Il-Dio ed è deciso a prendersi il pianeta. Ai devoti non promette diafane e meste speranze di un Oltre alla Here After, ma un sacrosanto Paradiso pieno di palme di acque di ombra di gloria e di meravigliose fanciulle dalla pelle speziata crepitante di desiderio. Se il vecchissimo Dio ebraico dimora riposando nel giorno del Sabato, se il maturo Dio cristiano discende nel panecorpo e nel vinosangue di una cena sacrificale, Lui, il Dio musulmano, è una freccia, una direzione, un orientamento: una Qibla: e vedete come ogni comunità musulmana in preghiera si trasforma inevitabilmente in un esercito allineato e coperto, in una falange pronta alla battaglia.

Già una volta questo Dio si incapricciò dell’occidente e tentò di abbracciarlo con la dottrina e con le armi. Ci riuscì quasi, fermandosi nella Francia meridionale e sotto le porte di Vienna. Maometto II, la sera del 27 maggio dell’anno 1453 (dalla nascita di Cristo), osservava dalla sponda asiatica del Bosforo il Corno d’Oro, e lo vedeva come la profumata vagina dentro la quale sarebbe penetrato il suo Dio di collera e di passione, fecondando con le spade l’Europa. Ma all’epoca anche il Dio cristiano era sufficientemente giovane da non farsi rapire così le terre e le anime. Don Juan d’Austria, bastardo di Carlo V, ventiquattrenne capitano al comando di una flotta sterminata, rovesciò gli Ottomani a Lepanto. Tanto per dire, il comandante musulmano, MuezzinZade Pascià, fu decapitato, e la sua testa appesa all’albero maestro della Real, la galea ammiraglia spagnola.

Ora Il-Dio soffia e accende i cuori e le viscere dei suoi devoti del Califfato, rendendoli rossi d’odio per l’infedele idolatra, soffia e fa sventolare i lugubri neri vessilli dello Stato della Siria e del Levante, soffia soffia soffia e fa sbattere schioccando la veste arancione del genuflesso reporter statunitense James Foley prima di venire decapitato da un guerriero misterioso, nerovestito e anglofono, nel terribile video che abbiamo tutti nella mente. Forse dovremmo riflettere sull’età di questo Dio. Quando il nostro aveva la sua età, anche noi ammazzavamo in Suo nome. Certo, si potrà dire – come alcuni sostengono – che la violenza è la patologia del cristianesimo e ahimé la fisiologia dell’Islam. Quando Benedetto XVI, inforcando gli occhiali di professore a Ratisbona, osò citare un brano del dialogo di Manuele II Paleologo con un dotto persiano che alludeva a questo concetto (oltre a quello – forse più grave – che il Dio musulmano è pura volontà di potenza non sottomessa alla ragione) suscito un vespaio planetario. Non so. Quel che è certo è che di fronte a quel guerriero nero i nostri droni – per quanto micidiali – risultano patetici. Siamo la società delle badanti, della protezione solare +100, dell'Amuchina, degli allarmi nelle case e degli integratori vitaminici: come possiamo anche solo competere con i guerrieri vestiti del color della sabbia e del vento, che dormono distesi sulle pietre del deserto sotto la fredda volta celeste, o tutt'al più in una tenda buia dopo aver mangiato carne semicruda, e ancor più spesso vegliano abbracciati al kalashnikov, i volti arrossati dai bagliori del fuoco da campo. Consapevoli di questo, armiamo i fronteggiatori della morte kurdi (pis mergah, fronte alla morte), che almeno son della stessa pasta umana. Confidiamo nella lotta intestina – e la fomentiamo - tra sottospecie settarie del Dio sanguigno e sanguinario. Che – non lo dimentichiamo – altri non è che quello che fa impazzire di poesia Rumi e roteare d’amore e d’incanto i dervisci. Confidiamo nel sacro simbolo della Mela di Cupertino, che come si è detto tutti riesce ad accomunare. Forse confidiamo anche in Usura, in Lussuria e in Potere, che un po’ se la fanno sotto davanti a tali adamantini e feroci corteggiatori della morte propria e dei nemici, e magari potranno perfino risultarci utili. Confidiamo in tutto, ma non nel nonno Dio cristiano, troppo vecchio e troppo buono.

Non abbiamo più il giovane don Juan d’Austria, ma Mr. Obama Commander in Chief a guidare la difesa dell’Occidente. Quando è apparso in video mi è sembrato teso e invecchiato, se penso all’effervescenza pop della sua campagna elettorale al grido dello yeswecan. Il Califfato, dice, has no place in 21st century. No di sicuro: ma forse ha posto nel 15th century, che è poi quello in cui veramente lo vuole.

Forse vinceremo. Abbiamo i satelliti, gli aerei telecomandati, abbiamo il controllo dei mercati, abbiamo un fortissimo pensiero debole che può inocularsi perfino sotto la corazza saracena e fare precocemente invecchiare anche il loro Dio. Forse ad essere sacrificato – come al solito – sarà il popolo espiatorio di sempre, avamposto tragico e bellissimo nel vicino oriente. Forse, a dispetto di tutto, vinceremo. Ah, gran bella soddisfazione, vincere del segno di Usury, Lust and Power. Ma forse vinceremo.
O forse no, forse perderemo. In questo caso io chiederei la grazia di lasciarmi ammazzare pur di non calpestare la Croce. Ma non per un glorioso senso di martirio, non tanto per Dio, quanto per me, per conservare fino in fondo una dignità basica, per il minimo sindacale di lealtà che la mia storia richiede. Se noi dello Stato di Ponente potremo ancora esprimere qualcosa, sarà questa fedeltà fredda, ostinata e rassegnata. Un martirio a bassa intensità. Peraltro meglio sgozzato che cateterizzato, intubato, frastornato e solo. Confido in quel momento di poter rivolgermi a un Tu paterno, materno, almeno fraterno, ma chissà, posso solo sperarlo. Non ho la statura umana e spirituale di Padre Christian de Chergé, il cui testamento tuttavia, proprio in questo momento, proprio dopo questi sgozzamenti, ciascuno dovrebbe rileggere. Magari potrò soltanto mormorare la preghiera di Hemingway, la più occidentale di tutte: Our nada who art in nada, nada be thy name thy kingdom nada thy will be nada in nada as it is in nada. Give us this nada our daily nada and nada us our nada as we nada our nadas and nada us not into nada but deliver us from nada; Hail nothing full of nothing, nothing is with thee…. Andrà bene lo stesso. Se avrò lo spirito, però, farò l’occhiolino al giovane Dio furibondo che sostiene la mano del nero guerriero. Ti conosco. invecchierai anche Tu, più presto di quel che pensi. Guardando bene, vedo già qualche ruga. E forse sarà proprio il tuo devoto nerovestito a venire ucciso dal servitore di un Dio più giovane e forte di te. E a dire, nel disincanto del suo ultimo istante, Non c’è nulla se non Il-Nulla, e Nulla è messaggero del Nulla.


Più urgente di tutto questo, però, è per me il Califfato che avanza a oriente della mia anima, pieno di vita e di morte, di luce e di tenebra, di odio e di amore, di distruzione (tanto ha già distrutto) e forse di creatività, che pretende di conquistarmi, me ormai così vecchio, di saccheggiare le agende, di stuprare le abitudini, di imporre una nuova e terribile legge. E quel che resta di me non ha nemmeno i droni.


martedì 12 agosto 2014

Alla ricerca del Dio Ortonimo - Sanremo il 31 luglio



Io quando vado in Liguria mi sembra di non riuscire a respirare e mi viene la faccia un po’ così e l’espressione un po’ così tutto è stretto troppo stretto e le colline avvolte da nuvolaglia sono come un’onda solida di un’antica mareggiata e l’autostrada è troppo viadotti e gallerie e ancora viadotti e il blu del cielo e del mare non consola perché sembra passato attraverso un brutto filtro di Instagram che lo rende freddo inquietante inospitale insomma fatto è che io in Liguria mi sembra di non riuscire a respirare.

Tanto più se è il 31 luglio, tanto più se fa tanto caldo, tanto più se qualcosa di oscuro ti s’è svegliato dentro, e canta - al ritmo un po’ irregolare del cuore - una canzoncina che conosci fin troppo bene.

Arrivando da est, vorrei quindi andare a sud, ma per poco, solo fino alle spiagge della Versilia, che sono invece larghe e lisce, e la sabbia fina non ti ferisce, e ci sono le mamme sulle sdraio a strisce, e c’è tutta una vita calma che fluisce; sì, in Versilia, che è sempre un po’ ferma agli anni 60, e – pensate un po’ – perfino negli anni 60 era già ferma agli anni 60. Invece no, questa volta mi tocca girare verso nord ovest , e poi ovest, e poi sud, ma un altro sud, non quello di prima: quindi levante – poi Genova al colmo dell’ansa e dell’ansia – infine ponente, laddove ciò che si leva e che si pone naturalmente è la stella Sole dall’orizzonte marino, ma un po’ innaturale rimane il doversi volgere ad est per guardare o immaginare l’Italia al di là del Tirreno.

Arrivo a Sanremo e mi sembra stranissima. Per esempio perché è dedicata a San Romolo. Ora, uno su questo potrebbe anche passarci sopra, ma poi indagando su wikipedia scopri che nelle sue origini si chiamava Matutia, e era un villaggio romano consacrato alla Mater Matuta. E la madre mattutina altra non è che Ino, figlia di Cadmo e Armonia e quindi nipote di Afrodite (che come tutti sanno ha un lato tenebroso che Botticelli e Peter Weiss (in Picnic a Hanging Rock) videro benissimo dietro l’apparente radiosa bionditudine). Altra non è che Ino, l’odiatrice dei propri figli tanto da volerli uccidere, ma tutta intenerita per il piccolo dio bambino, Dioniso, nato da adulterina relazione di Zeus (Diàus Piter – Iùpiter – Deus Pater) con la sorella Semele, così che Era la legittima furente consorte scaglia la follia su Ino e lo sposo Atamante. Questi prende un figlio per un cervo e lo assale, lei si suicida col bimbo fra le braccia gettandosi nel mare, fra gli scogli. Ma nonna Afrodite la trasforma in Leucotea, la dea bianca, patrona dei marinai, quella stessa Leucò con cui ebbe modo di dialogare Cesare Pavese, e che a Roma fu chiamata Matuta e messa a proteggere – oh proprio lei – i parti e le nascite. La Buonanima di Mussolini, nel suo delirio di restaurazione imperiale, obbligò i poveri abitanti a tornare a chiamarsi matuziani, appellativo che dopo il ventennio furono felici di abbandonare, e come non capirli. Adesso è sanremasco chi nacque da due (almeno) sanremesi, mentre è soltanto sanremese chi, nato a Sanremo, ha almeno un genitore almeno sanremese. Logica vuole che un sanremese può avere un figlio sanremasco qualora impalmi una sanremese, ma che il figlio di un sanremasco sarà ahimè solo sanremese, nel caso che per esempio si unisca a una anche soltanto di Imperia. E chissà come faranno con l'eterologa.  E chissà come diavolo il Festival della Canzone si è venuto a insediare qui, ma che Luigi Tenco si sia suicidato dopo aver cantato Ciao amore ciao (in un mondo di luci sentirsi nessuno) questo me lo spiego benissimo. Al centro di Sanremo c’è una vecchia stazione ferroviaria: coi suoi cartelli bianchi su sfondo blu, i fabbricati fine ottocento, il giornalaio, il tabaccaio, le latrine, il caffè. Niente binari. Ci passano ormai solo treni invisibili, di quelli uditi da James Duffy in Gente di Dublino, di quelli dal suono monotono che ripetono le sillabe del nome di lei. Proprio uno di quelli prese verosimilmente Luigi Tenco il 27 gennaio 1967, dopo aver lasciato il suo bagaglio biologico nella stanza 219 dell’Hotel Savoy.

La prendo larga, perdonatemi, ma qui è tutto troppo stretto. A Sanremo c’è il bilinguismo che neanche a Selva di Val Gardena / Wölkenstein. Solo che l’altra lingua è il russo. Se non ci fossero i russi... commenta sconsolato l’albergatore al momento del mio check-in, e mi dà la chiave della camera che – a giudicare dagli ospiti nella hall – immagino predisposta con letto attrezzato di asta per la flebo e catetere, nonché di poltrona elettrica che premendo un pulsante ti rimette in piedi da sola. Almeno ho la soddisfazione – sempre più rara – di abbassare l’età media di un gruppo. Se non ci fossero i russi. I russi spopolano sulle spiagge e in Corso Matteotti, bellissime donne sfolgorano di bikini in riva al mare e scintillano di Swarowsky, a bordo di tacchi dodici, alla sera nei ristoranti. Se non ci fossero i russi. E i commercianti liguri mettono sugli stabilimenti balneari la bandiera rossa bianca e blu e le matrioske nelle vetrine. Ah, ma ci sono da tempo, i russi, a Sanremo. Da più di centocinquant’anni, Amavano Parigi. Firenze, anche la Costa Azzurra. A Sanremo andò a scaldarsi dal gelo moscovita la Zarina Maria Aleksandrovna, moglie dello Zar Alessandro II, e Tolstoj ci passò il suo ultimo inverno. In particolare ci andavano i tisici a morire: tossendo, sì, ma confortati dalle palme, dai fiori, intiepiditi dal sole del sud, e quindi la cittadina risultava una specie di incrocio fra La Montagna incantata e Morte a Venezia espressi in glagolitico. Quando la rivoluzione bolscevica imminente spinse molti russi a raggiungere l’Europa occidentale per mettersi in salvo, alcuni vennero qui. E cent’anni fa costruirono una bellissima chiesa, una chiesa russa-proprio-in-stile-russo, tutta colorata e con le cupole a cipolla (una di queste è raffigurata nella foto, riflessa nel grande finestrone del Casinò adiacente). Questa chiesa ne ha passate di tutte, una bomba l’ha sfondata nel 1940, un paio di anni fa venne giù l’immensa croce centrale a tre traverse, e gli architetti pronti a dire che fu colpa dell’anima lignea ad aver ceduto, non essendo ben connessa al supporto di zinco, e altri ad accusare il vento, ma io penso piuttosto alla gelosia della Mater Matuta. Comunque sia, la chiesa è ancora ben viva, e ci abita un bel pretone imponente dalla grande barba e dagli occhi miti. Ora io in questa chiesa avrei passato molto 31 luglio e molto 1 agosto.



La liturgia ortodossa è ogni volta anche un’esperienza astronomica, nel senso che è sempre lunga a sufficienza da consentirti apprezzare cambiamenti significativi della luce esterna dovuti alla eterna danza tra il sole e la terra: non solo i passaggi dal buio alla luce, ma dalla luce meno intensa alla più intensa, dalla più intensa alla meno intensa, da un tono freddo a uno pastello o a uno saturo. Si assiste sempre almeno a una trascolorazione, che l’oro e i diversi colori delle icone riproducono, amplificano e diffrangono a seconda della posizione, delle dimensioni, della qualità, quasi le immagini si rendessero strumenti diversi per un’unica melodia luminosa. Poi c’è la questione del tempo. La liturgia non ha un vero punto di inizio e non ha una vera e propria fine. Quando un occidentale va a messa si siede silenziosamente su una panca, a un certo punto entra il prete, magari preceduto dal dindin di una campanella, e alla fine benedice, lascia l’altare e torna in sagrestia. Tutto è chiaro. Qui no. Si comincia e si finisce asintoticamente. A un certo punto ecco che ti accorgi che alcuni si danno da fare intorno all’iconostasi, e dal coro una voce parte sommessa con preghiere cantilate secondo il tono così caratteristico; candele si accendono, chierici indossano i paramenti, le porte regali si aprono e si chiudono, e infine ti trovi dentro il rito senza sapere bene da quando. Quanto alla fine, ecco, non finirà mai, è bene che lo sappia, ad imitazione di ciò che dicono accadere in cielo: per quanto tutto sembri più e più volte concluso, la voce cantilante riprenderà sempre a pregare, e qualche barbuto baritono, da dentro il santuario, le risponderà un corposo Blagosloviènno Tsàrtsvo. Lo squisito padre V, uscendo dalla chiesa nella sera trasparente, alla mia domanda su cosa stia dicendo la voce in russo risponde Non è chiaro, con olimpica vaghezza. E c’è Nona, e ci sono i Vespri, e poi il Mattutino, e poi le Lodi, e poi Prima, e Terza, e Sesta, e la Divina Liturgia, e ancora Nona, e in certi momenti puoi perfino uscire per bere un po’ di vino chiaro e per mangiare un po’ di buon pesce allo Yacht Club vicino al porto, oppure anche dormire, ma sono intervalli. Per il resto del tempo stai in piedi a veder variare la luce, a lasciarti attraversare dai suoni, dai profumi, e magari (e certamente) da qualcosa di ben più profondo che visita la tua anima, e che è una luce e un profumo e un suono, ma anche un Volto e un Nome. Se sei stanco non devi tener duro, non ce la faresti mai: devi piuttosto dimenticarti. Inutile fare lo stoico -quando ti vien sonno – inutile stringere i denti e tirar fuori le palpebre: neppure puoi alzarti perché in piedi ci sei già. Meglio cercare di assomigliare agli incorporei (che solitamente invisibili affollano le navate, adoranti e sgomenti per la trasmutazione che si sta operando, e che darebbero tutto, invece, per essere almeno un istante materiali).

Infatti, nel caso specifico di questo 31 luglio c’è che gli incorporei han deciso di mostrarsi visibilmente. Un gruppo di giovanissime orfanelle provenienti da Yaroslavl presta la sua voce al coro nella liturgia: poiché un benefattore russo ha loro finanziato una vacanza in Italia. La più piccola avrà dieci anni, la più grande diciassette. Sono tutte vestite di abiti lunghi candidi e un po’ trinati. I loro piedini bianchi sono infilati in sandali bassi e commoventi (quei piedini che miodio chissà che passi che faranno, che chissà dove le porteranno, che verso quale sorte le faranno andare, verso quale destino), sono tutte velate – alcune con uno scialle che passa sotto la gola, altre solo con un piccolo triangolo che si annoda dietro la nuca. Dai veli escono lunghissime trecce, alcune di oro giallo, altre di oro rosa e altre di oro rosso Ciascuna di loro ha un volto da Vermeer o da Rossetti, un volto talmente limpido da rendersi soglia e passaggio dell’Invisibile. Un volto da farti venire le lacrime da quanto è bello e triste. Quanto alle voci non so dir che questo: così spirituali e cristalline da essere quasi inadatte all’orecchio umano, almeno a quello contemporaneo, che le insegue senza poterle afferrare, e quindi senza poterle far proprie. Non è facile pregare appoggiandosi a suoni così puri, e quasi rimpiango la raucedine greca e carnale dei miei corsari di Mar Saba.



Ora, in queste lunghe ore trascorse in piedi nel microclima caldoumido che si è creato sotto la cupola (dal colmo della quale ti scruta l’occhio del Pantrocratore), io talvolta guardo le bambine che cantano, e sento che vorrei che uscissero, che potessero correre via, giocare sulla spiaggia, nuotare e spruzzarsi fra le onde, spalmarsi la crema sulle spalle e sulla faccia, raccontarsi sottovoce i segreti, impiastricciarsi le mani con ghiaccioli dai colori improbabili, comprarsi tatuaggi al sapore di chewingum, ascoltare con le cuffiette Adele, i Green Day o altro rock (ma attenzione che Рок (rock) in russo vuol dire fato, povere bimbe inseguite dagli dèi fin nei lettori mp3) e che non è giusto che invece siano chiuse lì, ben dritte, ben attente, a prestare la loro voce alle schiere angeliche. E anche il padre V, prete ortodosso ebreo russo dal cognome polacco - con le coppie cromosomiche pertanto avvinte in un abbraccio che è anche lotta primordiale e terribile, e che han dato origine a uno straordinario potpourri di tensioni e dolcezze, di rigore e pazienza, a un senza patria tre volte, a un esule al cubo – mi confessa di essere attirato irresistibilmente dal mare, di voler nuotare verso il largo, e com’è logico non riuscirà neppure a toccarlo, stretto come si ritrova (è in Liguria) da orari ferroviari, amici in ritardo e trolley protesico quasi fosse Sean Penn in This must be the place. Si pone e si impone quindi il problema relativo a che cosa Dio ci facciamo qui tra i simboli se fuori ci sono il mare il cielo e il resto della realtà.

Ci sarà pure una ragione se nei templi indiani non si entra, ma ci si può salire sopra, mentre le cattedrali eran fatte per starci dentro, almeno prima della costruzione di ascensori per portare i turisti a vedere da vicino la Madonnina. in generale i templi d’Oriente sono santuari attorno a cui si deve camminare, dando possibilmente la destra al luogo sacro. Poi c’è pure la nicchia chiusa con lo Shivalingam cosparso di burro fuso, incenso e petali di fiori, ma insomma, in generale sono molto aperti. Arunachala è una montagna-tempio, così come il Kailas o il lago Manasarovar. E anche i templi greci o romani. E anche il tempio di Gerusalemme. Insomma, è la divinità o il suo eidolon ad abitare una cella, i fedeli stanno all’interno di confini sacri, di temenoi, ma ben esposti alle nuvole e alle stelle. Sembra invece che il cristianesimo tema l’aperto, si difenda da esso chiudendosi dentro un edificio per celebrare i misteri. Il grande filosofo della religione nonché autodefinitosi spiritual entertainer Alan Watts (che fu tra le altre cose uno fra i maestri di Eugene Dennis Rose, colui che diventerà il santo monaco Seraphim di Platina) centra perfettamente questo punto doloroso e cruciale. Dopo aver citato una poesia di John Betjelman:

Messali miniati, guglie, ampie
balaustre, cantorie istoriate: tutto
amavo, ed in ginocchio ringraziavo
me stesso per averlo conosciuto,
mentre passava il sole del mattino
tra le ricche vetrate vittoriane
e, nell’aria tinta d’ombre colorate,
genuflesso pensavo: Dio c’è.
Ora, disteso in questa bruma triste
so bene che il Signore non esiste.

scrive: “Mi sono sentito cristiano solo in luoghi chiusi. Appena esco all’aria aperta , mi distacco completamente da qualsiasi cosa possa avvenire in una chiesa, compresi il culto e la teologia. Non che non mi piaccia stare in chiesa. Al contrario, ho trascorso gran parte della mia infanzia sul sagrato e nei chiostri di una delle più nobili cattedrali europee e non mi sono mai sottratto al suo incantesimo. (…) Ma tutto ciò si trova in un compartimento stagno, o piuttosto in un santuario chiuso, dove la luce del cielo aperto giunge soltanto filtrata dalla ricca simbologia delle vetrate istoriate. (…) Ho sempre avuto l’impressione  che ci fosse una profonda e straordinaria incompatibilità tra l’atmosfera del cristianesimo e l’atmosfera del mondo naturale. Mi sembrava pressoché impossibile associare Dio Padre, Gesù Cristo, gli angeli e i santi all’universo in cui effettivamente vivevo. Contemplando gli alberi e le rocce, il cielo con le sue nubi e le sue stelle, , il mare, o la nudità del corpo umano, mi trovo in un mondo in cui la religione semplicemente non si adatta- (…) Eppure, se Dio ha creato questo mondo, com’è possibile che si percepisca tanta differenza tra il Dio della chiesa e dell’altare, con tutto il suo splendore, e il mondo del cielo aperto? A nessuno verrebbe in mente di attribuire un paesaggio di Sesshu a Constable, né una sinfonia di Hindemith a Haydn. Allo stesso modo, io ho trovato impossibile identificare con l’autore della religione cristiana l’autore dell’universo fisico. E questo non è evidentemente un giudizio di valore sui meriti dei due diversi stili. E’ la semplice constatazione che non sono opera della stessa mano.”

Ora, è indiscutibile che qualunque persona seria questa bizzarria l’avverta. Il grande enigma, il grande koan, la sfida alla quale ogni cristiano è chiamato, consiste precisamente di conoscere l’Ortonimo dietro gli Eteronimi: il Dio del tempio e il Dio dell’aperto, Colui che è Padre delle sue quattro Figlie, le Quattro Supreme Interazioni, l’Interazione Forte, l’Interazione Elettromagnetica, L’Interazione Debole e l’Interazione Gravitazionale e mediante Esse governa e regge l’Universo, e Colui che si fa bagnare i piedi di lacrime e se li fa asciugare coi capelli di una donna sulla crosta di un nanoscopico frammento di polvere cosmica rotante attorno a una delle 300 miliardi di stelle appartenenti a una fra le 100 miliardi di galassie che sembrano esistere, l’Impassibile e il Patetico, il Big Bang e la carezza del Nazareno. Un Dio che per esistere indossa le maschere, come Pessoa utilizzava il nichilista Alvaro de Campos, il medico Ricardo Reis, il contadino Alberto Caeiro, l’impiegato metafisico Bernardo Soares, e molti altri. Senza maschere non esisterebbe, perché un Dio esistente è già un Dio mascherato d'Essere. Lo dico arrossendo dalla vergogna ma mi sento all’opposto del Pascal del Memoriale. Il Dio dei filosofi è un eteronimo di Dio al pari del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Se, come già a Dostoevskij, venisse posta la domanda su che cosa sceglierei fra Cristo e la verità, qualora fosse dimostrato che sono in direzioni diverse, io sceglierei entrambi anche sapendo che sono contraddittori, anzi: soprattutto perché lo sono perché questa contraddizione affascinante è l’unica modalità che ci è data per avvertire direttamente la vibrante presenza dell’Ortonimo.
Risponderei quindi all’intelligente obiezione di Alan Watts che sì, io condivido la sensazione che il Dio dell’aperto non sia lo stesso del Dio del tempio, esattamente come potrebbe non essere possibile pensare che vi sia un’unica mano dietro Soares e dietro Reis. La soluzione, però, non è che la verità (altro eteronimo, appunto) sia solo dalla parte del Dio dell’aperto, ma che [esiste] un Dio Pessoa: che è la pace di questo conflitto.

C’è nella Bibbia la lotta del D-o terribile del deserto, con se stesso e con l’uomo, per farsi e non farsi addomesticare. Clibanus fumans et lampas ignis, forno fumante e fiaccola ardente che passa fra gli animali divisi in Genesi 15, e poi colonna di fuoco e nube, e poi tuoni e fulmini e poi l’Arca di Mosè e poi il Santuario, Qodesh haQodashim, povero Dio delle galassie chiuso in un cubo di 10 metri di lato, e il sibilus aurae tenuis di Elia e poi finalmente e gloriosamente uomo, quindi con un volume di circa 65 litri e un peso di 70 chili e un’altezza, non so, di 180 centimetri. Forse Dio è più basso di me.

Commuove C fino alle lacrime questo tentativo struggente di costruire una casina a Dio. Irrita invece il mio Maestro L, devoto dell’eteronimo delle galassie. C sovrainterpreta il poeta Yehuda Amichai (Square letters want to stay / closed; each letter a closed house, / to stay and to close yourself in / and to sleep inside it, forever) facendogli dire, nel suo rammemorare trasognato, che ogni lettera quadrata dell’alfabeto ebraico è come un piccolo Sancta Sanctorum per ospitare il D-o di Israele. L non darebbe mai credito a un dio tribale che tifa per gli ebrei contro i delicati egiziani che amavano la luce e la raffinatezza e il grande fiume nutritore.

A me anche il linguaggio sembra materiale per mascheramento, quindi non posso che dire che anche l’Ortonimo, laddove lo si nomini e lo si dica, come sto facendo io, altro non diventa che l’ennesimo Eteronimo, so what we cannot talk about we must pass over in silence, come suggerisce Wittgenstein.

Però certamente ricordo, da bambino, la lettura dei libri di Salgari sotto il letto, con la pila a illuminare, come un’esperienza di assoluto aperto, e forse il linguaggio allora serve a tenere insieme gli eteronimi. Forse le ragazzine di Yaroslavl sono entrate nella chiesa così. L’eteronimo delle galassie lo si adora col silenzio, con l’audacia dell’esporsi; quello delle carezze infilandosi dentro un microcosmo misterioso e aprendo i sensi alle immagini e ai canti e il cuore allo slancio d’amore.

Ma N mi ricorda una poesia di Aleksandr Blok (la riporto in mia traduzione dall’inglese):

Una fanciulla cantava in un coro di chiesa
per tutti i viandanti in contrade straniere
per tutte le navi smarrite nelle tempeste
per tutti coloro che avevano perso la gioia.

Si innalzava la sua voce fino alla cupola
e un raggio incendiava le sue candide spalle
e ognuno nel buio guardava e ascoltava
mentre lei cantava, circonfusa di luce.

E sembrava che la gioia fosse tornata
che tutte le navi avessero raggiunto i loro porti
che tutti gli stanchi, che tutti gli esausti
avessero trovato la gioia e il riposo.

E la voce era dolce, e il raggio sottile;
solo più in alto, presso le Porte Regali
un bimbo, iniziato al Mistero, piangeva
perché nessuno sarebbe mai tornato.


Perché nonostante tutto la tragedia permane e guai ad accettare le consolazioni, anche se offerte da questi angeli bianchi. Serve restar lì sanguinando, piangendo, gridando, nel Tempio e nell’Aperto, finché Qualcuno finalmente venga e ti dica e ti prenda e ti baci.