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lunedì 7 settembre 2015

La morte della Sposa

Cosa mi prende?

Eppure anch’io ho incontrato la Sposa del Deserto, in una sera di velluto che addolciva il bianco dei suoi marmi e li volgeva in rosa e in sogno. Fu tanto tempo fa: la vita, gli occhi, il cuore, tutto era proteso alle mille notti che adesso ho consumato senza goderne, e me ne rimane soltanto una, e quanto fonda, e quanto fitta, e come interminabile.
Il mio Maestro possedeva una macchina fotografica che già allora era antiquata – forse una vecchia Hasselblad medio formato – e durante i viaggi faceva con essa un ritratto 6x6 a ciascuno dei viaggiatori: nel mio caso la fotografia è stata scattata a Palmyra, mentre guardo, oltre una rovina di cinta muraria, lo splendore di un cielo luminoso e barocco. Quel giorno il Maestro aveva l’età che ora pesa su di me.
Anch’io ho amato Palmyra, la Sposa del Deserto, che ruba il cuore ad ognuno che la guarda, anche per pochi istanti. E allora che cos’è che mi prende?

Perché questo mio cuore, allora giovane, non si stringe adesso che è vecchio all’udire e al vedere i templi sventrati, le mura divelte, i decori sfregiati. Beninteso, un po’ di indignazione è di rigore: e certo mi addoloro quando leggo di lei, e di cosa le sta capitando. Ma perché qualcosa dentro subisce il fascino dei devastatori e si allea immediatamente con la cupa, la spaventosa armata che distrugge la Sposa nel nome di Colui che abita il Deserto?

Zenobia, il dattero più profumato e saporito che la Palma ha donato alla storia, Zenobia la Regina Guerriera che si inventò un regno sterminato, e conquistò l’Arabia, e conquistò l’Egitto, e conquistò la Palestina, e a nord la Cappadocia fin quasi al Bosforo, e conquistò tutto il vicino Oriente sottraendolo ai Romani e proclamandosi sua Imperatrice e discendente di Cleopatra, Zenobia che poi perse tutto, e che fuggì da Palmyra in sella al suo dromedario più veloce – proprio come in una fiaba – ma venne catturata sulle rive del grande fiume Eufrate, Zenobia forse ora non troverà il suo Tempio ove venerare Baal, Yahribol, Aglibol – che poi sono il Sole e la Luna – e Bel, e Nemesis, e Malakbel, e Arsu, e Abgal, e Astarte (che poi è Afrodite ed è la Stella del Mattino). Com’è che non ne sento il grido? Com’è che non sento il fremito delle migliaia e migliaia di invisibili anime di coloro che hanno costruito, abitato, inghirlandato di marmi, di statue, di rilievi Palmyra: l’oasi incantata nel cuore della Siria, posta sulle strade di sabbia e di vento che da Roma giungevano all’India, e più in là alla Cina, e più in là all’Oriente favoloso, dove, in un palazzo bianco fiorito di fontane, siede, sul trono di Agartha, il Re del Mondo?

E’ che da molto tempo ormai quelle anime hanno lasciato Palmyra. Si aggirano meste tra le petrose dune solitarie, poggiano i loro piedi lievi sui sentieri disertati. Più probabile che le si trovi nella confusione polverosa delle tende dei Bedu; più verosimile che se ne stiano fra le lamiere ondulate di una locanda dove, alla luce di una lampada a gas, vengono poste davanti al commensale qualche ciotolina di maze e un piatto di yabraq; più facile sentirne la presenza nella bottega del villaggio, piena di fumo, di buio e di grasso e di motociclette da riparare, stanche e rotte di sabbia e di sassi.

Fatto è che le anime vive hanno in orrore le anime morte, quelle che arrivavano dentro grandi pullman, dentro equipaggiamenti tecnici, traspiranti, colorati, dentro corpi bianchi e molli cosparsi di creme resistenti al sole (che poi è Yahribol) e di creme repellenti gli insetti. Non sopportano i loro sguardi vuoti dietro gli occhiali da sole e dietro i mirini o gli schermi delle macchine fotografiche. I passi pesanti delle anime morte consumavano le pietre di Palmyra più degli zoccoli dei cavalieri di Ardashir il Sassanide. Qualche ragazzo dagli occhi neri e dalla faccia triste, giunto da chissadove, vendeva loro kaffyeh, cartoline dai colori smorti, bevande fredde e cammellini di legno. Le anime morte compulsavano guide intitolate a un pianeta niente affatto solitario, poi smettevano perché c’era troppo sole (che poi è Yahribol), perché avevano sete, perché avevano caldo. Stufe assai presto delle spiegazioni della guida, risalivano nei grandi pullman con il condizionatore spinto a tutta forza, bevevano acqua e sali minerali in bottigliette dal gusto effervescente e dolciastro, e tornavano al Grande Hotel & Spa. Il Grande Hotel & Spa: che ha la facciata che imita il tempio di Baal e dove si serve la cena sotto una finta tenda beduina, che ha 64 camere,e 6 Royal suites, e una iperlussuosa Presidential suite, che ha un hammam e una sauna e un luogo per i massaggi, che ha una superba piscina che drena quasi tutta l’acqua dell’oasi, togliendola alle palme e alle anime vive. Facevano il bagno, bevevano il vino che viene dalla valle di Oronte, e guardavano la luna (che poi è Aglibol) crogiolandosi nel loro oriente confortevole eppur così romantico. Sotto la finta tenda beduina, infatti, un suonatore in costume traeva dal suo oud accordi pieni di sentimento.

Così che un giorno Palmyra decise di scomparire e di rifugiarsi nella memoria di Dio, dove tutta la bellezza è custodita dagli angeli e preservata intatta fino a un nuovo Satya Yuga. Avrebbe potuto andarsene così, levandosi prima dell’alba all’insaputa di tutti e dileguandosi silenziosamente nello stellato: al mattino gli occhi assonnati del portiere di notte del Grande Hotel & Spa avrebbero visto spazi vuoti al posto del Tempio di Bel, della via colonnata, del santuario di Nabu, della cinta di mura, del teatro, della necropoli. Ma le anime di Palmyra, piene di compassione, hanno scelto la via del dolore, del martirio, della testimonianza: e dal deserto hanno convocato un’armata terribile e implacabile. I guerrieri dalle lunghe barbe hanno la pelle e gli abiti del colore della sabbia del deserto, innalzano vessilli neri con iscritta la professione di fede che inizia con una negazione (non c’è altro dio se non Id-dio, non c’è altro, non c’è altro), odiano ogni forma nel nome di Colui che non ha forma. Come stracci portati via dal vento, le anime morte vestite di colori sono scomparse. Rimasto solo, il vero amante della Sposa, che non l’ha mai abbandonata, colui che ne sapeva ogni pietra, ogni odore, ogni trascolorare di ore e di stagioni, Khaled (bisogna pure se ne dica il nome, perché significa eterno, perché significa immortale) ha offerto la gola alle lame dei soldati. Uscita che fu l’anima dal corpo, Zenobia stessa la accolse nella radunata delle anime vive. Al sicuro, per ora al sicuro nelle loro città, le anime morte subito hanno innalzato a Khaled lapidi di carta e di pixel, i giornali di tutto il mondo lo han celebrato, sulle televisioni e sui monitor è stata mostrata la sua fotografia, il suo volto mite, la sua stempiatura grigia, i suoi grandi occhiali fuori moda. Le anime morte ci sanno fare con le parole. Ma le anime morte, più di tutto, e proprio perché già morte, hanno paura della morte: e non una di loro è rimasta a Palmyra, non una di loro ha combattuto per lei. Sono pronti altri mille facili Orienti per soddisfarle.

Ora Palmyra vuol morire, e offre il suo corpo bellissimo ai barbuti guerrieri, alle loro piccozze, agli scalpelli, alle bombe. Cadono una a una le colonne che il tramonto inrosava, crollano le celle segrete dove i sacerdoti compivano il culto solenne della Corte degli astri. In immenso, muto, costernato, invisibile anfiteatro, le anime vive chinano il capo come di fronte a ciò che è atroce e necessario. Mentre i satelliti, a milioni di metri dalla superficie terrestre, fotografano grigie spianate al posto di monumenti, mentre i sordidi mercanti d’arte, nei retrobottega delle gallerie di Londra o di Parigi, quotano milioni di euro i poveri frammenti della carne di lei, muore Palmyra per la mano - orrenda, ma almeno non ipocrita - di chi dichiara esplicitamente di volerla uccidere, di chi non teme di attirare su di sé la collera del mondo cosiddetto civile, di chi sente la sua visibile bellezza come un supremo insulto all’Invisibile. Muore così, violentata ma non banalizzata.


Una leggenda, di quelle che sono più vere del vero, vuole che Zanobi, santo vescovo all’origine della Firenze cristiana, discendesse proprio dalla regina Zenobia. Spiritualmente, dunque, i fiorentini sono tutti figli di Palmyra. Sarà per questo che – visto che l’uomo è l’immagine del mondo e il mondo l'immagine dell'uomo, in un divino gioco di rispecchiamenti – sento dentro di me arrivare i soldati di sabbia e di sangue. Vengano dunque, vengano e distruggano. Devastino le architetture della memoria, sventrino i santuari dove si servono dèi troppo vecchi e stanchi, spezzino le statue dei re, delle regine, delle madri e dei padri e dei saggi, confondano l’ordine delle vie colonnate della mente, e soprattutto polverizzino col tritolo il teatro dove recitano i miei personaggi. Vengono, vengono, ecco sull’orizzonte dell’anima la polvere alzata dai loro cavalli.



venerdì 31 luglio 2015

Cecil il leone, Palmer il dentista, e la savana simbolica

Tira più un pelo di criniera di leone che milardi di capelli di uomini, di donne e di bimbi. Tira più a galla le nostre emozioni, buone e meno buone. Farsi un giro in Twitter con l’hashtag #cecilthelion può essere utile per averne un’idea.

Ci sono i furenti, e il loro nome è legione: quelli che vorrebbero prendere il dentista Walter Palmer, uccisore del grande leone dalla nera criniera, icona dello Zimbabwe, e linciarlo, squartarlo, impiccarlo, mandarlo all’inferno in cui pare ci sia una ‘cavity’ profondissima scavata apposta per lui dove i demòni lo attendono per torturarlo in eterno; ci sono quelli che dicono – più realisticamente – che Palmer è un imbecille che disonora il Minnesota, l’America, l’Occidente; ci sono quelli – oh gran bontà di tali twittatori – che scrivono che Cecil non vorrebbe l’odio e invitano a pensare positivo. Anch’io ho contribuito all’hashtag con un riferimento alla canzoncina tratta da The Little Shop of Horror, in cui un figlioletto che dà precoci segni di sadismo sugli animali viene saggiamente indirizzato dai genitori alla professione del dentista.

Poi c’è la schiera dei moralisti indignati che hanno ben chiara in testa la ‘differenza ontologica’ che passa tra un animale e un essere umano. E’ composta quasi esclusivamente da cristiani austeri, personalisti severi. E gli aborti? E i profughi? E i bimbi che muoiono di fame malattia guerra? Tutto questo casino per un leone, che sì, sarà bello ma vuoi mettere?

Poi ci sono gli animalisti pignoli, che criticano la furia antipalmeriana con argomenti che invece hanno a che fare con la ‘somiglianza ontologica’ tra Cecil il leone e i suoi colleghi animali dotati di minor maestà ma di identica capacità di soffrire che vengono quotidianamente massacrati negli allevamenti intensivi a maggior gloria di Kentucky Fried Chicken, dai cui millanta ristoranti l’antipalmeriano magari twitta procecil mangiucchiando cestelli di ali di pollo fritte. Insomma i democratici del regno animale, che segretamente godono che sia stato scaraventato giù dal trono il Re della foresta, e che va bene, Cecil-Luigi XVI sarà pur stato ghigliottinato dal boia Palmer, fils de saint Louis montez au ciel, ma il popolo senza nome, avicolo, ovino, cunicolo, caprino, bovino e suino chi lo difende ogni giorno? Dov’è l’hasthtag #ovesetbovesetuniversapecora?

Sarà, ma non credo che nessuno di tali partiti colga nel segno rispetto a quanto è avvenuto e sta avvenendo.

C stamattina diceva che ormai si ha pietà solo per gli animali, e fin qui ero d’accordo. Poi aggiungeva che la radice di detta pietà è l’alterità radicale dell’animale rispetto all’uomo. L’animale sarebbe il vero altro levinasiano, laddove il volto umano non sa più esserlo. Qui ho condiviso meno. Infine ha concluso che l’animale è involontariamente filosofo: o meglio – il suo sguardo silenzioso, misterioso, vertiginoso incessantemente ci pone la domanda fatale: chi siamo? E sono tornato a condividere pienamente.

In una delle narrazioni – o flash sideways – dell’umanizzazione o ominizzazione, Adamo il Protoplasto riceve da Dio il comando di dare il nome agli animali. Un filo diretto lega il mitico progenitore al romanzesco Caïn Marchenoir, alter ego di Bloy nella Femme Pauvre, che parla con la dolcissima Clotilde davanti a una gigantesca tigre incerrata e incatenata nello zoo di Parigi. Marchenoir si reca spesso a visitarla, e certamente egli si sente rispecchiato nella ferocia e nella nobiltà dell’animale catturato nella lussureggiante foresta indiana e portato lì, infreddolito e spaesato alla mercè della canaglia che gli getta bucce di frutta: lei, la Grande Tigre, che ove dislegata avrebbe potuto divorarli tutti, e dinanzi alla quale le loro ginocchia si sarebbero piegate dal terrore. Ma c’è qualcosa di più di questo riconoscimento psicologico, che in fondo non è tanto differente da Baudelaire che si ritrova nell’albatro volatore elegante e instancabile, ma imbelle al suolo, schernito dai marinai. Nominando le bestie Adamo compie un atto sacerdotale, coinvolgendole nel suo destino umano: e quindi trascinandole nella caduta e nell’allontanamento da Dio e nel dolore e nella morte: loro, gli incolpevoli. Nella condizione decaduta, gli animali innocenti hanno il compito di portare – senza saperlo – il peso della sofferenza umana derivata dalla condanna. E anche chi la assumerà in maniera redentiva – il Cristo – vorrà adornarsi del titolo di Agnello. Dunque gli animali sofferenti sono agnelli di Dio inconsapevoli, come Gesù lo è in modo superconsapevole: ma sotto e sopra il livello umano c’è comunque qualcuno che incessantemente si immola per la salvezza dell’uomo.

Nell’altra narrazione, quella scientifica, la soglia dell’ominizzazione si ritiene varcata laddove l’ominide si mostra capace di dar forma a un chopper, ossia a una pietra scheggiata con uso polivalente. Queste pietre – e io le ho fisicamente vedute nelle gole di Olduvai, in Tanzania – non hanno l’eleganza e la perfezione del favo dell’ape o della diga del castoro. L’ape e il castoro sono strumenti della Natura o del Creatore, sono come dei pennelli a cui la bellezza del dipinto non può seriamente venire attribuita. Nel rozzo chopper, invece, è all’opera la creatività umana. Il chopper è orribile, ma inventato dall’uomo per diversi usi. Siamo all’alba della libertà. Ma, ahimé, anche all’alba dell’esodo-esilio dal mondo naturale. Ma, ahimé, anche all’alba della tecnica la quale – ben lo sappiamo – neutrale non è. La tecnica in qualche modo esige di essere utilizzata, costringe il suo artefice, lo manipola e lo de-natura. Ancora una volta un filo diretto lega il chopper al fucilone da caccia grossa impugnato da Palmer per impallinare
il grande leone.

Siamo tutti dalla parte del leone Cecil – io pro-palmeriani non ne ho visti, non so neppure se Camillo Langone oserebbe (forse sì, ma mica convinto davvero): e i cristianoni non sono pro-Palmer, ma, fastidiosamente, a difesa della differenza specifica umana, come si è visto – non perché Cecil sia l’altro: ma perché Cecil è più uomo di Palmer. Non soltanto rappresenta le virtù umane del coraggio, della nobiltà, del vigore, della fortezza – per cui tante volte è rampante come elemento araldico sugli stemmi dei nobili, delle città e degli stati – ma evoca immediatamente il Leone che abita la nostra fantasia, di più: il nostro inconscio – al modo delle fiere di Ligabue o di Rousseau le Douanier. Quel Leone che forse abitava la mente di mio padre quando Leone voleva chiamarmi, e ringrazio mia madre che lo moderò e lo rese più comune mutandolo in Leonardo, ma lui continuò sempre a chiamarmi Leone.

Siamo tutti contro Palmer, perché Palmer sarà anche – dal punto di vista ontologico – una persona umana, ma più profondamente lo si percepisce come un insetto, che è la cosa naturale in assoluto più simile a un meccanismo. Karl Rahner, nel Corso fondamentale sulla fede, diceva che come è accaduta l’ominizzazione, potrebbe accadere la dis-ominizzazione, ad opera precisamente della tecnica. Aerei, telefoni, computer continuerebbero a funzionare, ma non ci sarebbero più Leoni interiori, e senza Leoni interiori non c’è più uomo. In questo senso Palmer è la primizia degli ingegnosi insetti antropomorfi che verranno. Ancor meglio: Palmer è la protesi biologica che (ancora: ma per quanto?) serve al fucilone per funzionare e per distruggere il mondo naturale. Forse accadrà ai fuciloni del futuro di liberarsi della molle appendice palmeriana e a sparare per conto proprio. Chissà. In ogni caso la tecnica ha reso schiavo il povero Palmer che – se contingentemente ha ucciso Cecil – nei nostri cuori ha assassinato Aslan, il Leone (misericordioso, ma non mansueto) di Narnia. Non è quindi solo omicida, ma anche deicida. Perché – che prenda forma nelle parole di CS Lewis o nei quadri di Rousseau, nella mitologia greca o nella Bibbia (Ecce vicit Leo de tribu Iuda, Ap 5,5), nele terribili statue poste a guardia dell’Imperatore nella Città Proibita o nel peluche che custodisce il sonno dei nostri bimbi – il Leone dentro di noi è la soglia di un Oltre a cui (misericordioso, ma non mansueto) ci convoca col suo ruggito potente. Essere uomini, infatti, è definito dall’accettare coraggiosamente il richiamo di quest’Oltre, e dall’aver vinto e dal continuo vincere il Palmer interiore che tale richiamo vorrebbe sopprimere, ammutolire, uccidere.

Sono noiosi entrambi. Sia il cristianone alla Adinolfi che, avendo trasformato in ideologia la danza dello Spirito, è subito preoccupato di marcare le differenze di valore tra sé e tutto-il-resto (un cristianone in servizio permanente effettivo, che – al figlioletto che si commuove alla morte della mamma di Bambi – subito ammonirebbe di ricordarsi che la morte di una cerva non è niente in confronto agli innumerevoli bambini a cui muore la mamma). Sia l’animalista rigoroso che non sopporta il rilievo dato a Cecil dalla Nera Criniera e negato ai milioni di maiali che vengono sterminati nei macelli dell’Emilia Romagna. In realtà tutti e due i tipi sono dei Palmer in potenza, perché non hanno familiarità con la giungla interiore, foresta intricata e simbolica, dove appunto sunt Leones.

Tra cristianoni ideologici e animalisti ideologici, io sto con Leon (et pour cause!) Bloy. Lo sguardo animale è un fatto serio. Bisognerebbe prendere l’occasione e rileggersi Derrida (L’animal que donc je suis). O Rilke, tutta l’Ottava Elegia di Duino (…il libero animale/ ha sempre il suo tramonto dietro a sé / e dinanzi ha Iddio; e quando va, va / in eterno come fanno le fonti….)


Bisognerebbe discendere nella savana dell’anima, seguire le tracce del Leone fino al posto segreto dove non serve l’inglese (come direbbe Battiato) né il pensiero chiaro e distinto, e neppure la teologia. Al cospetto del Sacro. Numinosum. Tremendum. Fascinans.

[Immagine: Henri 'Le Douanier' Rousseau (1844-1910) - Tête de lion]

lunedì 8 giugno 2015

Bolle di sapone: note postmoderne su un rito premoderno

La chiesa russa di Firenze appartiene di diritto a quelle strane incongruenze e bizzarrie orientali di cui la città, fra le mille altre cose, si adorna: come il monumento funebre del tenerissimo principe ventenne di Kolhapur, che passò qui di ritorno da Londra, dove si era recato per salutare la Regina, e morì in un Grand Hotel del centro. La sua pira fu eretta nel parco delle Cascine e le sue ceneri furono disperse - come il rito prevede - alla confluenza di due fiumi. E la confluenza che accolse il residuo materiale che aveva manifestato l'atman nella forma del  principe non fu quella fra i sacri e imponenti Gange e Yamuna, due fiumi himalaiani, nonché due potenti dèe, se ci fosse bisogno di specificarlo. No. Furono il mitissimo Arno e il timidissimo Mugnone. Ora l'Indiano è il nome di un quartiere e di un ponte brutto e moderno. 

La chiesa russa, a guardarla, è russa come i restauri di Viollet-le-Duc sono gotici. E' un sogno di Russia, un desiderio, una speranza, una nostalgia, come potevano provarli i Demidoff o i Nelidoff. Una voglia di Russia, situata anch'essa lungo il Mugnone, fra sobri edifici ottocento, che se ne sta lì con le sue cinque colorate cupolette a bulbo, chiusa fra cancelli di ferro battuto come una palazzina borghese qualunque:  lei, questa chiesetta, dalle linee, dalle torsioni, dalle geometrie concepite per sfidare la geografia sconfinata dell'est e quella ancora più sconfinata dell'anima russa. 

Presente al rito della domenica, così lungo da poter includere nella preghiera incisi e extra-vaganze, c'è un piccolo gruppo di bimbi i quali - toltisi rigorosamente le scarpe - se ne stanno seduti sul tappeto di fronte all'icona più importante sull'analogion, in cerchio, e si passano un piccolo cilindro e un'asticella per fare le bolle di sapone che infatti si levano numerose e spensierate di mezzo all'assemblea dritta in piedi, velata, ferma, incurante, orante. Se c'è Dio, e se Dio è degno di quel che si pensa di lui, allora io credo che se ne stesse lì incantato a godersi la scena delle bolle, e che non si preoccupasse molto dei solenni barbuti celebranti che dietro la marmorea iconostasi intonano con voce profonda i versi della Sacra e Divina Tragedia. Oh, lo so, lo so che potrebbe essere scambiato per un sentimentalismo facile e felice. Però io felice non lo sono di sicuro, tutto il contrario, e se mi aggrappavo io a quelle bolle evanescenti, se erano esse che mi rappacificavano, ben più di quanto potessero i neumi e le flessioni del canto, le parole altissime e terribili, ecco io penso che Dio dovesse ben averci qualcosa a che fare. Non parliamo dei concetti a cui le parole alludono: a ciò non penso più da tempo, avendoci pensato troppo in anni che avrebbero potuto esser spesi molto meglio. Insomma sì, io immagino che Dio fosse lì a guardare. Che ne sappiamo. In fondo i suoi pensieri non sono i nostri. Potrebbe aver creato tutto: le stelle, i buchi neri, la quattro forze, i pianeti, la vita, l'in-ominarsi del bipede dalla stazione eretta e dal pollice opponibile, l'evoluzione, la storia, gli imperi, l'incarnazione del Figlio, la sua morte, la sua resurrezione, la Chiesa, i martiri, i santi, la liturgia, la Russia, Firenze, la granduchessa Marija Nikolajevna, tutto, pur di godersi lo spettacolo di queste bolle di sapone. Sarebbe da lui. 

E dire che il rito è molto bello. Composto, intento, armonico. La donna che dirige il coro è di una bellezza sovrannaturale (un Padre ed amico la direbbe sofianica). Ha occhi dal taglio orientale, come si trovano dipinti sugli stupa nepalesi o tibetani: la parte superiore dell'occhio è una linea piatta, quella inferiore una goccia che si assottiglia all'esterno. La pelle del volto gareggia in candore col velo che lo incornicia. Dirige con le due mani, rivolta come gli altri coristi verso l'altare, nella destra tiene un piccolo diapason. E' in continuo movimento pur rimanendo immobile e verticale: così, credo, con questa stessa distorsione percettiva, apparirebbe un angelo allo sguardo umano. Della voce non dico neppure. Però, se anche Dio non guardasse le bolle di sapone, sono io a preferirle a tutto quanto il resto, perfino alla cherubica corista. 

Poi avvengono due fatti che mi distraggono dalla mia bullicante meditazione. 

Il primo.  C'è una mamma, al centro della chiesa, che si fa avanti tenendo in braccio un bimbo di circa due anni che - all'istante - si mette a piangere in modo sonoro. Non si può negare che ciò confligga un poco con i dodici toni del canto znamenny, e se - come dice Eraclito - per il dio tutto è buono, giusto e bello, non è certo così per l'orecchio umano, creato per distinguere ciò che è bello da ciò che è brutto e per private piacere e fastidio. Fatto è che il bambino sta per affrontare un certo qual spavento, e lo pre-sente. Nel rito dell'iniziazione sacramentale ortodossa, infatti, il bimbo maschio viene introdotto nel santuario, ossia oltre l'iconostasi, dal sacerdote, viene ivi benedetto e poi restituito alla madre. In tal modo egli viene abilitato a servire liturgicamente dentro il santuario medesimo. Già. Ma il piccolo in questione non è così teologo, o forse lo è già troppo, e ci dà dentro come può con un toccante ululato di protesta. Ecco che il sacerdote discende dai gradini dell'altare, si avvicina, ah non è rassicurante, neanche un po', e il poverino cerca rifugio nella concavità del corpo materno situata fra omero e clavicola. Ma il sacerdote non si scompone affatto. Afferra per la vita il bimbo - che a quel punto esige dai suoi piccoli ma efficientissimi mantici polmonari uno sforzo supplementare per raggiungere uno strepitoso fortissimo - si volta, e rapidamente risale i gradini. Questi grida, ha la maglietta sollevata all'altezza delle ascelle, e le gambette svolazzanti come bandiere di qui e di là. Il prete entra nella porta di destra dell'inconostasi, che si chiude dietro di lui.  Ora che non si vede più nulla, il grido del pargoletto disperato fa venire i brividi. Io invoco mentalmente tre santi a me cari: san Sigismondo (Freud), san Carlo Gustavo (Jung) e san Giacomo (Lacan). Mi chiedo come si depositerà nella memoria incoscia questa esperienza. Se tornerà come un vissuto d'angoscia nella sua relazione col padre, o con Dio. Se contribuirà, come un mattoncino, a costruire quella diga di odio che lo separerà dall'uno e dall'Altro. O seppure invece avrà un effetto sanamente iniziatico, in fondo così dicono che debba fare il padre, sottrarre il figlio al mondo fintamente edenico, in realtà tenebroso, indifferenziato e mortifero, del materno, e spingerlo a individuarsi. E anche spiritualmente, chissà. Dio ci ghermisce, effettivamente. Non ci chiede tante autorizzazioni, e lo Spirito Santo sarà pure disceso sul Figlio sicut columba, ma su di noi cala spesso piuttosto come un astore scagliato dal pugno di uno spietato falconiere, cacciatore inesausto d'anime e di corpi. Quando riesce dalla porta sinistra, il bimbo ha la faccia color rosso cupo come una mela Annurca, né, comprensibilmente, il conforto materno lo placherà. 

Il secondo. Al momento della comunione si forma, a destra dell'iconostasi, una lunga fila. A cenni le donne russe mi fanno segno di passare avanti: e vabbè, è la loro tradizione, ho rinunciato a contestarla. Gli uomini prima: solo qui, naturalmente, basta una conoscenza minima della letteratura per sapere che fuori dalla chiesa in Russia le cose vanno ben diversamente. Dopo aver creato innumerevoli ingorghi davanti al Sacramento, ho - come si dice - abbozzato. Eh, ma a Firenze il disagio si ripresenta, difficilissimo convincere un fiorentino, intriso di dolcestilnovo ben prima di sapere cosa significhi, nutrito di esso dalle forme stesse della natura e della cultura, permeato da esso per ogni senso, a passare avanti così a una donna. In questo senso la chiesetta russa tiene duro, non si assimila, non cede alla terra dei Fedeli d'Amore. Bene, ecco il fatto. Terminata la fila di uomini e di donne si forma un piccolo vuoto davanti all'altare, e in esso lentissimamente avanza una possente matrona, le braccia costrette in stampelle, il passo quasi totalmente impedito, assistita dai due lati da altrettante signore che la sorreggono con visibile sforzo. Che ti aspetteresti? Ovvio: che il prete discendesse immediatamente e premurosamente dai gradini recandole il calice. Invece no. Col volto impassibile il sacerdote resta fermo sui due piedi. E la donna si trascina. Si avvicina. Comincia a inerpicarsi sui pochi scalini con una caparbietà triste e paziente degna di un portatore nepalese. E ci arriva, al calice, e si comunica, e retrocede. Ecco: anche qui c'è come una sottilissima linea, non più grande di un capello, fra orrore e splendore, fra palese crudeltà e indecifrabile sapienza. Il pensiero si confonde, l'anima cade da una parte e poi dall'altra, solo lo spirito talora funambolicamente riesce a fare qualche passo. 

Perché, con buona pace della pecorella smarrita, che fa lasciare al buon pastore le novantanove pur di poterla ritrovare, non è così che van le cose. Tu sei un nodo di sofferenza, un'inadeguatezza, una tribolazione, una menomazione, uno spasimo, una ferita, un politrauma, un incessante incespicare. Tu pateticamente strisci, e Dio non se ne accorge neppure. Tanti poi sono i gradini che nemmeno sai se ti aspetti ancora davvero là sopra, forse solo lo speri, appena appena quello. E sei lì, nel terribile spazio di libertà di avanzare o rinunciare, di benedirlo o maledirlo, di amarlo o odiarlo. Sei come la povera donna, e già puoi dirti beato se hai qualcuno che ti regga dai due lati. Quel punto tragico e incandescente, quel punto di scelta in cui forse ti stai giocando tutta la partita. Basta, basta. Dio non può abitare in questo tormento, ti vien da dire. Basta così, e subito accorreranno tutte le ragioni del mondo a confortarti. Basta così, e il welfare spirituale si occuperà di rimuovere ogni barriera architettonica tra te e un divino pacioso e domestico, che ti verrà a far le fusa in grembo come un simpatico gattone. Basta così. Ma la donna nella chiesetta russa ha invece salito il suo piccolo atroce monte Calvario. Fede e Carità, forti sorelle - come avrebbe detto Péguy - le sostenevano le braccia. E la bimba Speranza soffiava le bolle di sapone davanti all'icona, e sembrava che non facesse nulla, invece era lei, era lei che faceva tutto. 




venerdì 17 aprile 2015

Elfi, fate, gnomi e il Dolce Desiderio

Sembra oramai passato un secolo, tanto cattiva nuova segue a cattiva nuova, ma il volo Germanwings 9535 è sempre lì, sì, l’Airbus che è partito da Barcellona per Colonia e invece plana rapidamente, però anche lentamente, fino a schiantarsi nei pressi guardacaso di Barcelonette, nelle alpi francesi, proprio nei territori in cui Hugo immaginò la diocesi del vescovo Bienvenu dei Miserables. Quel volo – almeno nel mio dentro, ma forse anche in quello di molti – non ha ancora finito di precipitare nei luoghi più remoti e irraggiungibili (dai soccorsi razionali) del mio immaginario, non ha ancora finito di polverizzarsi. Eppure la vicenda è stata esaminata a fondo, i lacerti delle vittime – e anche del folle suicida, Lubitz, Lubitz, ossia figlio (-itz, come –sen o –son) del lub, cioè del love, lieb, libido, insomma, del desiderio – sono stati recuperati, e i genomi dei de cuius sono in via di identificazione. I parenti e gli amici hanno versato le lacrime che avevano e quelle che non avevano, come sempre succede. I capi della Lufthansa hanno annullato le feste dell’anniversario. La notizia, dopo una graduale retrocessione di pagina in pagina, di schermata in schermata, è alla fine scomparsa. Ma quell’aereo ancora sta girando ed ecco, un tizio come tanti, uno normalissimo, voglio dire: non un deviante, gli piglia un amok che anche un malese se lo sogna, entra nel Tribunale di Milano e spara al giudice, all’avvocato (il suo), al coimputato, e poi esce e se ne va in moto a Vimercate, dove viene arrestato: meglio così, essere arrestati a Vimercate non deve fare così male. Stiamo dando addio anche a lui, e speriamo che ora si prendano tutto lo spazio le futilità note della frammentazione della destra e della sinistra. Ma anche il tizio che spara ce l’ho dentro, è lì proprio dentro di me, e l’Airbus vola sopra Vimercate e lui lo guarda, assorto, perché dentro il tempo e lo spazio vanno diversamente, si confondono, si intrecciano, e già per esempio si sente il rumoreggiare dell’esplosione che presto verrà. 

Per fortuna, nei momenti bui, vi sono anche notizie diverse, marginali certo, ma non tanto che internet non faccio girare qualche foto. ADN Kronos riporta che il Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, da cui dipende il Corpo Forestale dello Stato, tiene da quindici anni un fascicolo su strani avvistamenti:  e te la vedi lì fotografata, una cartellina d’un verduzzo burocratico che vien quasi da piangere, buttata su un tavolo, gonfia e aperta, mica un faldone tipo quelli americani con scritto classified, o top secret, o confidential, o for your eyes only che sembra quasi – tanto da esserlo davvero – il titolo di un film di 007, no no, una cartellina ministeriale con sopra scritto a penna Gnomi e Fate del Bosco.



Non poteva certo Gianluca Nicoletti, giornalista e creatore di Golem e di Melog, e frequentatore delle zone anche più eterodosse e bizzarre della contemporaneità – astenersi dall’esercitare il suo affilato e a tratti perfido rotacismo proprio su questa notizia che affiorava in mezzo alle tragedie. E lo ha fatto con una mezz’oretta godibilissima di radio. C’era pure il collegamento telefonico con l’Esperto (esiste ovviamente anche l’Esperto di folletti). Si raccolgono testimonianze, e immediatamente – come dice Nicoletti: nell’ora del soffritto, ossia tra le dodici e mezza e il tocco – millanta telefonate ingorgano il centralino. Raccontano di fate bellissime che seducono nelle notti di luna i giovanotti danzando con loro, tradite però dai loro zoccoli caprini; di coboldi che si introducono in pensioncine di Francoforte e terrorizzano brianzoli impegnati ad elaborare una cena pesante; di streghe buone che accompagnano i pellegrini sul Cammino di Santiago; di monoliti neri e terribili che balzan fuori dall’inconscio collettivo, o da dimensioni liminali, con intenti omicidi; di viscide ombre che ti toccano nella torrida controra siciliana; di un Bigfoot avvistato in val Grande, e che poi non era un Bigfoot, ma in effetti un ex autista di autobus di Gallarate, impazzito per una delusione d’amore e inselvatichitosi fra i dirupi (e questo è ben più prodigioso di un Bigfoot, un autista di Gallarate che diventa erede del Chisciotte e dell’Orlando). E non può mancare alla fine il dottore, che dice che c’è una sindrome chiamata “di Bonnet” che genera allucinazioni antropomorfe. Come questo accada non si è capito, sembra abbia a che fare con la retina, ma certamente è piuttosto rassicurante chiamare le visioni sindrome di Bonnet

Mi ricordo l’episodio delle fate di Cottingley. Allora. In un paesino del West Yorkshire, in Inghilterra, nel 1917 (sarà il caso di ricordare che nel medesimo anno, a Fatima, la Vergine appare in Portogallo ai tre pastorelli Francisco, Giacinta e Lucia? Fatima c’entra con tutto) ci sono due ragazzine – Frances e Elsie, di dieci e sedici anni – molto sveglie anche se dai volti sognanti. I loro cromosomi si sono formati nell’abbraccio di quelli appartenenti a un ingegnere con quelli appartenenti a una teosofa: il che credo spieghi molto. Fatto sta che un giorno le ragazzie prendono la macchina fotografica a lastre del padre, vanno nei pressi del Cottingley Beck, il torrente che scorre vicino, e realizzano alcuni scatti in cui compaiono – chiarissimamente – delle fate, fate di quelle inglesi, per intenderci, piccole, con i capelli lunghi e le alucce di farfalla o di libellula, che danzano e suonano il flauto. Ovvio che il padre pensi che siano false, e che la madre sia invece assolutamente certa della loro autenticità, e le diffonda. Ne vien fuori un dibattito che non ha precedenti nella storia, pur infinita, dei tentativi umani di fornire ‘prove’ dell’esistenza del sopra-, del preter-, del paranaturale. Studiosi e intellettuali si schierano – anche attraverso articoli su riviste che oggi definiremmo ‘censite’ – a favore o contro. Progressivamente le ragazzine ammettono che insomma, non sanno bene, poi che certo, l’immaginazione e il volerla veder realizzata ha avuto la sua parte, poi che alcune erano false ed altre no. Fotografi e scienziati ne discutono fino agli anni settanta. A metà degli anni ’80 Frances ed Elsie sono morte: ma Frances, fino alla morte, affermò la piena autenticità almeno della quinta fotografia.



E’ interessante sapere che il paladino più insigne dell’autenticità delle foto di Frances ed Elsie sia stato il superpositivista sir Arthur Conan Doyle, ossia il celebre autore di Sherlock Holmes. Vi scrisse anche  un libro: The Coming of the Fairies, nel 1922. Nell’introduzione al suo straordinario Pilgrim’s Regress, anche lo scrittore cristiano CS Lewis prende posizione su questa vicenda. Nella sua accurata fenomenologia del desiderio – che egli identifica come componente strutturante dell’esistenza umana, e accesso privilegiato all’esperienza spirituale – esso viene descritto come qualcosa di acutissimo e in sé stesso desiderabile. Questo lo distingue dalle altre voglie: la fame può essere qualcosa di gradevole solo in previsione di un buon pranzo, altrimenti è solo spaventosa: ma il desiderio no, esso è ritenuto prezioso anche se non vi è in vista alcuna possibilità di soddisfazione. Inoltre, pur essendo certamente volto verso un oggetto, esso è impreciso e mutevole: un luogo lontano, o forse la persona amata, o magari no, forse la magia, o magari la conoscenza intellettuale delle cose. Insomma – direi – l’esotico, oppure l’erotico, oppure l’estetico, oppure la conoscenza scientifica, ma in realtà niente di tutto questo, in realtà di Chi si manifesta attraverso questi aspetti, che sono sue soglie, ma che è molto molto di più. Quando sir Arthur Conan Doyle pretese di aver fotografato una fata, io – in effetti – non gli credetti: ma il semplice fatto di averlo affermato (…) mi ha fatto realizzare che se il fatto fosse stato accertato avrebbe ‘paralizzato’ – piuttosto che soddisfatto – il desiderio che le fate avevano fino ad allora risvegliato. Una volta acclarato che il tuo mondo fatato, la tua foresta incantata, i tuoi fauni, i tuoi satiri, le tue ninfe del bosco e la tua sorgente dell’immortalità sono ‘reali’ – con tutte le conseguenze che vi sarebbero sul piano scientifico, sociale – il Dolce Desiderio sarebbe scomparso da quel mondo e ci starebbe chiamando da un luogo ancor più lontano, scrive Lewis. Se posso fotografare una fata, questo significa che fa parte dell’aldiqua, che quindi potrei catturarla, classificarla, tassonomizzarla, cercare di comprenderne il comportamento, magari sezionarla per descriverne l’anatomia. Non solo potrei: dovrei. Ma - così facendo – il desiderio prenderebbe dimora Altrove, perché non è nell’aldiqua che lui abita. 

Credo che questo sia l’errore della Randi Foundation, che promette un milione di dollari a chiunque sia in grado di dimostrare una qualunque facoltà paranormale o soprannaturale in condizioni di adeguato controllo. Chi lo facesse avrebbe soltanto dimostrato che qualcosa ritenuto soprannaturale è in effetti assolutamente naturale, solo che fino ad allora non era stato osservato correttamente. Le sedute spiritiche avvengono in luoghi bui: mi sembra chiaro. Come è evidente che non ti leggo i pensieri e non ti piego le posate a comando, per di più mentre sono dentro una macchina per risonanza magnetica. Domanderei volentieri a uno del CICAP di far l’amore con la sua morosa sotto le luci di una sala operatoria, con osservatori e valutatori da ogni lato, con i corpi di lui e di lei cosparsi di sensori e con le loro teste strette nei caschetti pieni di fili di un EEG. Se ci riesce è di sicuro bravo, ma se non ci riesce – come è probabile – non penso che la sua conclusione sarebbe che andare a letto con la sua morosa è impossibile. Sosterrebbe che le condizioni non erano adatte. Presumibilmente, perché vai poi a vedere come si comportano a letto quelli del CICAP.

Quindi non so cosa pensare del fascicolo verdolino della Forestale, delle foto e dei racconti che ci sono dentro. Però mi chiedo che esperienza mai sarebbe incontrare una persona che tenesse nelle sue mani, nei suoi occhi, nel suo cuore, nel suo corpo il quotidiano e lo straordinario, il reale e il magico, il naturale e il soprannaturale, l’effimero e l’eterno. Il divino e l’umano. Cosa sarebbe guardare questa persona. Mi immagino che all’inizio la sensazione sarebbe di disagio, forse anche un po’ di nausea, perché il Dolce Desiderio, allenato com’è a scartare le zeppe consolatorie di falsi compimenti, proverebbe con tutte le sue forze a scartare anche il Vero Compimento. Chiuderemmo gli occhi, no, no. Ma riaprendoli, eccola ancora lì. Il Dolce Desiderio la avvolge adesso come un mantello: eppure ecco, la puoi toccare, satura i sensi ma non li distrugge. Hai mai conosciuto persona che fosse molte cose in una, le portasse con sé, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei racchiudesse infinite cose della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze, e un’altra terra e un altro cielo che non ti è dato possedere? dice Endimione al dio straniero nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. 

Forse qualcosa del genere è accaduto ad alcune donne e ad alcuni pescatori, forse dico, a Gerusalemme, in una sera di Pasqua come queste. Noi continuiamo solo ad aver dentro il Dolce Desiderio, come abbiamo dentro il volo Germanwings, e il tizio che spara, e l’esplosione che verrà.



mercoledì 25 marzo 2015

Dicono le Trentatre - Le sventurate rispondono

L’ormai noto antefatto: Papa Francesco visita Napoli. Il duomo immenso, la navata sinistra transennata per restauri. Sul presbiterio si trovano le claustrali, che per l'occasione sono state dispensate dalla loro severa disciplina di reclusione. Gran sorrisi monastici e battimani. A un certo punto alcune di loro, in un improvviso svolazzar nero di veli, in un subitaneo lampeggiar bianco di soggoli, in un imprevisto scintillar metallico di croci e di cuordigesù, si fanno attorno al Pontefice, recando una scatola che a me sembra possa contenere una torta. Di che ordine siano non si può dire, bisognerebbe avere sottomano almeno un’edizione della Monacologia di Joannes Physiophilus, caustico settecentesco classificatore delle specie e delle sottospecie monastiche secondo lo stile della filosofia naturale del tempo. Io, che della scienza sono solo dilettante, mi azzarderei a dire che siano Passioniste. In piedi, il Cardinal Crescenzio Sepe – che si era già distinto poco prima nel meraviglioso Anche i ciechi volevano vedere il Papa, frase su cui si è abbattuta e ancora si sta abbattendo l’ironia di Spinoza.it. - le ammonisce bonariamente in vernacolo: “Oh oh oh, dopo, uè! Guard’ accà! Sorelle dopo, ja, sorelle, dopo! E cchiste so’ di clausura, figuriamoci quelle di non clausura! Aé-eh: e chille se lu mangiano n’atru poco eh! Sorelle ja, mannaggia a chille!”

Nel salottino buono della TV, più tardi, fra Fazio, il chierichetto del benpensar borghese, parla come al solito con la giullarina ufficiale Luciana Littizzetto seduta sulla sua scrivania. Lei dice: “Non si capisce se erano tutte attorno al Papa perché non avevano mai visto un Papa o perché non avevano mai visto un uomo”. Che ridere. Ma il problema viene fuori adesso.

Le Trentatre. Sissignori, proprio le Trentatre, che trentatre più non sono, eh, ma insomma, loro, che indipendentemente dal loro numero sono e rimarranno le Trentatre. Le allodole sacre che da cinquecento anni cantano dalla colombaia del Protomonastero  di Santa Maria in Gerusalemme di Napoli. Le Trentatre, proprio loro, figlie di una riforma francescana caratterizzata da un rigore folle e da un ancor più folle amore, le Trentatre Clarisse Cappuccine. Ebbene, le Trentatre pare guardassero Fazio. Già questa sola notizia basterebbe a far vacillare le fondamenta del cosmo, a sciogliere i legami fra i pianeti, altro che eclisse. Le nobili Trentatre guardavano Che tempo che fa. E hanno sentito la Littizzetto. E, siccome anche loro erano nel duomo, le Trentatre, e avevano visto la scena, pur non essendo loro le frullanti e un po’ appiccicose pasticcere, le sventurate Trentatre  rispondono. Alla Littizzetto. E dove: su Facebook. Perché le Trentatre hanno un account Facebook. E anche un website, un dominio che sa un po’ di medicale, cappuccine33. Avete capito bene: le Trentatre rispondono alla Littizzetto sul loro profilo Facebook.

E cosa rispondono, le Trentatre? Ah, la risposta va riportata integralmente. “Ci dispiace che la signora Littizzetto, che abbiamo apprezzato in altre occasioni, abbia pensato che le "represse" monache di clausura stessero aspettando il papa per abbracciare un uomo... probabilmente per fare questo avremmo scelto un altro luogo e ben altri uomini... se avessimo voluto... Non sarebbe forse il caso, cara Luciana, di aggiornare il tuo manzoniano immaginario delle monache di vita contemplativa????”. Quattro punti interrogativi, a questo punto metti anche un emoticon con la linguaccia, hai fatto trentatre fai trentaquattro, No: niente faccine. Peccato.

Dunque: gli errori delle sventurate Trentatre.

Primo, aver visto Che tempo che fa. Fossi papa Francesco, solo questo particolare mi basterebbe per esclaustrarle tutte con ignominia. 

Secondo errore: rispondere alla Littizzetto. Nel mio mondo ideale le cose sarebbero andate così. Una pia donna si reca alla ruota del Monastero per comprare della marmellata e dice alla portinaia: “Vulite sapé? La Littizzetto parlò di voi alla televisione” “Chi, brava donna?” “La Littizzetto! L’attrice!” “Qui non entrano le cose del mondo, brava donna. Ma dal momento che me lo state dicendo, offrirò in  Quaresima preghiere e dolori per quest’anima da Dio amata e cercata: e possano le intercessioni di me, indegna e povera serva, ottenere per lei grazie dall’Altissimo”

Terzo errore, il più grave. Il contenuto della risposta. Quello proprio non va. 
Dicono le Trentatre che – se avessero voluto abbracciare un uomo (scrivono "abbracciare", ma la Littizzetto aveva detto "vedere", e questo freudian slip è la parte più bella del messaggio) - avrebbero scelto un altro luogo. Si intende: rispetto a una chiesa. E quale, di grazia? Un motel con lenzuola rosse e specchi sul soffitto? Nessun posto come una chiesa è adatta a ospitare l’amore peccaminoso, perché vuoi mettere il gusto di farlo proprio lì, davanti al Padre Eterno che freme di sdegno per la sua figlia, davanti allo Sposo Eterno che muore di gelosia per la sua sposa? Vuoi mettere il gusto di farlo proprio lì, e poi affidare l’ignaro amante alla spaventosa vendetta di Dio?  
Dicono le Trentatre che – se avessero voluto abbracciare un uomo – avrebbero scelto un ben altro uomo. Hombre! E chi? Qui mi s’offende il fascinoso papa della pampa. Cioè loro avrebbero preferito veramente un quisque de tronistibus al Romano Pontefice dal soave accento spagnolesco? Una qualunque delle milf di youporn  le ritererrebbe con ragione prive di gusto.
Dicono le Trentatre che si deve aggiornare? Brutto giorno quando si aggiorna, almeno nei monasteri, fortiapache non solo di Dio, ma anche del Tempo e dell'Immutabile. Immaginario manzoniano? Magari. L’immaginario manzoniano è strepitosamente sexy, e ancor di più lo è quello verghiano di Storia di una Capinera. Leggessero, le Trentatre (magari anche su un lettore ebook), anziché guardare Fabio Fazio alla TV, media obsoleto, come donnicciole qualunque nello squallore tiepido dei loro tinelli.
Se proprio volevano. E non dovevano, no, non dovevano. Se proprio volevano rispondere, le Trentatre, potevano magari fare così. Si prendeva un calamaio vuoto e ognuna delle Trentatre vi versava un po’ di sangue vivo fatto sgorgare dal proprio polso. Poi una di esse vi intingeva il pennino e cominciava a scrivere. 
Tu non conosci il nostro Sposo, di cui noi siamo l’harem doloroso ed esultante, tu non sai come lo amiamo e quanto ci fa morire con la Sua assenza. Figlie di altissimo lignaggio, Noi Trentatre offriamo notte e giorno i nostri corpi, le nostre anime e i nostri spiriti alla sua torturante passione. La Santa del nostro Ordine – Veronica Giuliani – fin da piccola riconosceva il suo Promesso dall’odore. Soffrire per Lui era la sua via d’amore, come oggi è la nostra. Da bimba metteva le mani sulle fiamme, si coronava di spine, si pungeva fra i rovi, si caricava di pesantissime croci di legno, e altre ne disegnava sui pavimenti con la lingua. E – quando fu monaca – il suo ardore per la sofferenza amantissima si moltiplicò. Nessuna ripugnanza le rimase ignota, espose il suo corpo a ogni genere di tormento. Ricevette le stimmate, e la ‘lancia d’oro tutta infuocata’ di Gesù ‘le passò il cuore da banda a banda’. Costruiva macchine per infliggersi dolore. Dopo la morte il suo cuore venne aperto, e si riscontrarono nella sua parte interna le cicatrici fatte a forma di croce e di lancia. Noi non siam sante, ma siam sue sorelle, e la nostra via è la stessa, come pure il nostro Uomo. Lo vuoi conoscere? Vieni da noi, vieni con noi, non che non siamo gelose, anzi, siamo gelosissime, ma  che possiamo farci, Lui vuole anche te, e vuole abbracciarti nel dolore. Vieni da noi, vieni, prova, vieni con noi nelle trentatre sfumature di fuoco.

Invece no. Le Trentatre hanno risposto così, su Facebook.



venerdì 13 febbraio 2015

Mmmh. Turner e i borborigmi dell'anima


Che anche se Turner fosse un biopic, e non lo è, batterebbe alla grande almeno gli altri biopic che ho visto in questo periodo. In particolare il vecchio malmostoso di Leigh e Spall annullerebbe il giovane favoloso, il Leopardi di Martone e Germano, mostrandogli come si fa a vivere, ad amare, a creare, a soffrire e a morire senza tanti contorcimenti concupiscenti su piedini affusolati di nobildonna avvolti in scarpine di raso e senza tanto latinorum, graecorum et hebreorum assorbito nella austera Recanati. Ah no, no, qui c'è il formicaio londinese di poveracci e gentiluomini sulle sponde del Tamigi, e l'inglese lo si parla strascicato.

Eppure appunto biopic non è. Quella è solo una maschera. Non è un film su William Turner il pittore della luce e del mare. All’uscita dal cinema ci dicevamo: ti è piaciuto? Non so. Ci devo pensare. C’è qualcosa che non torna. Però belle le inquadrature di albe e tramonti. Un po’ lungo, un po’ pesante, eh. La luce bianca dava un senso di struggimento. Luce bianca? ma dove l’hai vista, io ho visto solo colori contraddittori! Mi ha lasciato tristezza, strano. E effettivamente fuori la sera era fredda e bella, con un gran vento che veniva dai Balcani – o dalla Scandinavia, non so – e c’erano tante stelle e una luna calante tutta distesa all’orizzonte, ma il filo della serenità interiore lo avevamo perduto.

La bellezza è sparsa e trabocca nel cosmo – velo di Maya o rivelazione di Dio nessuno lo capirà mai - e il corpaccione di Turner/Spall, fatto per trasportare il suo occhio bovino (esaminato dal dottore, che individua i segni del male proprio lì, nell’occhio del Maestro), sì, quell’occhio tondo, per trasportarlo arrancando asimmetrico su e giù per le campagne e le scogliere purché possa vedere, altri non è che l’uomo, materia grossolana, eppure fatta per riconoscerla ed amarla. L’uomo-Turner, quello che si fa legare come Odisseo all’albero di un veliero pur di fissare l’occhio nella danza stessa di Shiva, fatta di neve, di pioggia, di schiuma, di ebbrezza, di caos. E che prova a restituirli su tele sette per tre, gettandoci sopra biacca, sputi, torli d’uovo, unghiate, rosso scarlatto e blu oltremare che viene dall’Afghanistan fin nella bottega piena di topi di un furbo droghiere che lo vende carissimo, e rabbia, e stupore, e costernazione, e angoscia, e soprattutto mmmh

Per il resto non c’è quasi niente: ovverosia, c’è tutto, ma è un tutto che è quasi niente. Mmmh. C’è un padre affettuoso con le sue manie, che si traduce e s'invera nel figlio, e che muore maledicendo, rispettando, ringraziando e ridendo (tutto insieme) della baldracca di sua moglie. Mmmh. C’è una donna arcigna e antica amante che periodicamente lo raggiunge al fine di rinfacciargli la sua trascuratezza, accompagnata dal corteggio di figlie illegittime e malate. Mmmh. C’è una serva (damsel) che fa la tragica vestale dei suoi quadri, una donna dallo sguardo vacuo e triste e buffo, perseguitata da un esantema che progressivamente le ridurrà la pelle a una piaga, come se fosse un crocefisso barocco, una che lo ama tanto con quel poco d’anima che ha, e sulla quale lui ogni tanto sfoga le sue voglie senza – come scrive Mariarosa Mancuso – sentirsi in dovere di fare conversazione. Anzi: Mmmh. Ci sono i colleghi artisti dell’Accademia: e l’Accademia – per chi un po’ la conosce oggi – non è davvero mai cambiata, misto com’era ed ancora è di grandezza e di miseria. Mmmh. Ci sono le damerine e i damerini, c’è un John Ruskin protofighetto prodigio che fa il giocoliere delle parole, c’è una giovane regina Vittoria che passa sprezzante lasciando cadere un regale ferale giudizio sui suoi quadri e così condannandoli all’esilio, presto sostituiti da smorti preraffaelliti. Mmmh. Ci sono i pescivendoli e i marinai, uno dei quali recante il peso del servizio sulle navi negriere. Mmmh. C’è la Signora Booth, sorridente e accudente, che offre, a lui che la inganna, una camera serena sul mare, un tè, la pulizia delle scarpe, e il suo corpo di vedova solida e matura, pieno di rughe ma con gli occhi accesi. Mmmh. Sì. Perché - se, come dicono neurofilosofi come John Searle - il cervello sta alla coscienza come l'intestino sta alla digestione, allora potrà anche emettere dei borborigmi. E altroché se Turner ne produce, in uno staccato che accompagna tutto il film. 

Come si rappresenta Dio? Come si scrive l'icona di Dio? Con la luce, evidentemente. Deus lux est et in eo tenebrae non sunt ullae. I sapienti bizantini lo sapevano bene però che questo nesso - ove reso assoluto -  nascondeva una trappola filosofica, la stessa che celerebbe, ove sempre assolutizzato, il pensarlo come tenebra, come è stato fatto - dopo i grandi apofatici antichi e medievali - dai grandi mistici carmelitani (En una noche oscura, con ansias en amores enflamada, ¡o dichosa ventura!) fino ai tedeschi Silesio e Eckart. Allora essi avvolgevano la veste del Trasfigurato e del Risorto in una veste dal candore sovrannaturale, ma lo sfondo derivava gradualmente verso un nucleo di blu impenetrabile. Turner cerca di dipingere Dio strappando il colore alla forma, e poi la luce al colore medesimo. Divorziando dalla forma, come viene detto anche nel film, e anticipando di molti anni l'Impression di Monet. Sul suo volto di bulldog si spalanca l'occhio a cercarla cercarla cercarla questa luce inesprimibile. 

Rimane la questione aperta della forma. Il sole è Dio dice Turner sul letto di morte. O Lux ave spes unica ? E quando - poco prima - gli viene detto dal medico che ne avrá per poco, esclama: Vuol dire, dottore, che sto per trasformarmi in una nullità? Il dottore replica: Faccio fatica a pensarla come una nullità, Maestro. Ma Turner ha ragione. Se la luce è Dio, cosa rimarrà di noi quando l'occhio definitivamente si chiude? Quella luce che per svelarsi tale ha bisogno di un ostacolo opaco?
In un film allo stesso tempo somigliantissimo e diverso (Ebbro di donne e di pittura del regista coreano Kwon-taek Im) il pittore Jang Sung-eop, contemporaneo di Turner sull'altra parte del pianeta, vive la stessa lacerazione tra materia e spirito, tra volgarità e raffinatezza (Dovevo prendere i miei colori! protesta contro quelli che lo vengono a prelevare in un rozzo bordello per riportarlo alla rarefatta corte imperiale), ma non abbandonerà mai la forma. Al contrario, la inseguirà fino alla sua purezza quintessenziale. 

Il genio del cristianesimo è la scoperta che non soltanto la forma non si oppone alla rappresentazione della luce, ma ne è la sola possibilità di manifestazione. La luce taborica avvolge il corpo del Cristo, non lo sostituisce. Una volta, tanto tempo fa, ho visto un presepe non cristiano. Mi trovavo all'eremo di Camaldoli, fra la neve delle foreste casentinesi, e un giovane novizio camaldolese - scultore - aveva realizzato quell'anno il presepe, i cui personaggi ricordavano un po' le morbide figure di Henry Moore. Sorprendentemente il Bambino non c'era, rappresentato da una candela accesa. San Giuseppe e la Madonna avevano un frammento di specchio sul petto, in cui tale luce si rifletteva. L'idea era bella e suggestiva: ma, appunto, non cristiana. E sembrava piuttosto strano che i santi monaci dalle bianche e luminose cocolle cantassero, attorno a quel presepe, il misterioso prender forma di Dio nel Natale sulle belle melodie composte del monaco californiano Thomas Matus. 

Il film, questo, lo fa capire benissimo, e sempre attraverso le prostitute, categoria che non per niente nel Vangelo riscuote da parte del Signore una speciale e singolare predilezione. Una prima volta Turner va in un bordello - per dipingere - e davanti alla ragazzina nuova che gli mandano (Elisa o Lisa, che importa in effetti il nome) così bella, così docile, così rassegnata, così abbandonata, ecco, rompe in un pianto terribile e devastato, uno dei più bei pianti che io ricordi di aver visto al cinema.  E una seconda volta quando la risacca porta sugli scogli il cadavere, bianco come un giglio, di un'altra ragazza, e lui malatissimo afferra carta e carboncino ed esce in camicia e a piedi nudi, attonito, cercando di disegnare quando dovrebbe forse invece adorare la bellezza della forma umana che in quanto tale (e non in virtù di una particolare qualità o resistenza ontologica) mai la morte potrà ridurre a nullità. Anche se cosa diventi dopo non sappiamo, e chissà se sapremo mai. 

Non si compie - almeno nel film - il mistero pasquale della forma o quello taborico della trasfigurazione. La luce non viene drappeggiata attorno al corpo umano, immagine-e-somiglianza e suprema icona. Turner continua a cercarla nel cosmo, nella natura, soprattutto nel mare e nelle marine. Eppure nella prima scena lo vediamo tornare dall'Olanda dove ha visto Vermeer e Rembrandt - che della luce e dell'uomo, qualunque cosa possa dirne Florenskij ne Le Porte Regali, certo sapeva molto. E il cosmo gli va incontro, ci prova a parlargli,  e il mare geme e soffre per sciogliere il segreto, depositandogli davanti all'occhio - come ho detto - il più tragico e incantevole dei relitti. Ma la trasformazione non si compie. 

Così la luce estenua a colpi di pennellate d'incanto la sagoma della valorosa Temeraire, mentre un fumigante rimorchiatore la trascina (e Turner, e noi con lei) verso un futuro non di Nulla (che sarebbe Nirvana, Vacuità, la forma è vuoto e il vuoto e forma del Sutra della Prajnaparamita, ogni giorno recitato nei monasteri zen), ma di nullificazione. Mmmh







venerdì 9 gennaio 2015

Fratres in Nihilo - Rue Nicolas Appert, 7 dicembre 2015

Bisognerebbe tornare a quando eravamo bambini.

Perché da bambini abbiamo vissuto tutto, il cielo e la terra, il paradiso, sì, ma anche l’inferno: che non sono luoghi – o condizioni – verso cui andiamo, piuttosto sono luoghi – o condizioni – da cui proveniamo. E quando, chissà, essi si manifesteranno al termine della nostra avventura umana, li riconosceremo, perché ci siamo già stati: in quel guazzabuglio misterioso di estasi e strazio chiamato infanzia.

Bisognerebbe tornare a quando siamo stati bambini, e rintracciare un’esperienza in cui siamo stati derisi, oppure in cui altri hanno deriso ciò che per noi era caro. Non faremo fatica a trovarla, in qualche anfratto dei ricordi c’è sempre. Bisognerebbe far risalire l’urlo delle emozioni, riprovare la faccia che avvampa, e illividisce, e ancora avvampa, lasciare che lacrime d’odio, d’amore e di dolore scavino brucianti le nostre guance, sentire i pugnetti che si chiudono a martello e i muscoli tesi.

E’ allora che – auguriamocelo – qualcuno, uno più grande, un padre per esempio, si è seduto con noi, ci ha guardato, ci ha ascoltato, ci ha parlato, ci ha tenuto e contenuto, consentendoci di capire come le cose veramente importanti e sacre siano collocate in un luogo invulnerabile ai botoli ringhianti dell’irrisione. Rendersene conto ci ha permesso di vederli quali erano. Come nell'affresco dell’Angelico, la canaglia è già in pezzi: facce, sputi, canne, mani, tutto sospeso nel niente: mentre la maestà del Cristo rimane inviolata e inviolabile, e san Domenico può sedere in pace ai suoi piedi, studiando la Scrittura con intelligente fervore.

Auguriamoci che sia andata così. Altrimenti, forse, in quel momento abbiamo rischiato grosso. Se non ci fosse stato nessuno a darci la misura della invulnerabilità del sacro, e se la cosa a noi più cara, più cara della vita nostra e di quella degli altri, fosse rimasta in balìa dell’insulto, se addirittura ci fossimo resi conto che quella cosa cara non esisteva affatto, allora il pugnetto chiuso, diventato adulto, avrebbe potuto inserire il caricatore caratteristicamente ricurvo, pieno di munizioni calibro 7,62, nel corpo dell’Avtomat Kalašnikova 47, e poi spingere una porta e uscire nel mattino invernale di Parigi per recarsi ad un tragico appuntamento

Il rapporto tra Dio e la risata è interessante, complicato, controverso. A diciotto anni lessi Il nome della rosa. Ero sedotto e intrigato dal medioevo, e dall’ambientazione monastica. Se pure ero consapevole che quel libro racchiudesse fra le pagine un’idea inquietante, non ci facevo tanto caso: tifavo per i politicamente scorretti: il terribile inquisitore domenicano Bernardo Gui e il mistico Ubertino da Casale; mi identificavo col giovane Adso ingenuo e innamorato, mentre non amavo tanto l’eroe, lo Sherlock Holmes in saio francescano Guglielmo da Baskerville. Dunque: il dolce e conturbante Adelmo da Otranto, eccellente miniatore, lavora sulle decorazioni marginali e lascia sbizzarrire la sua fantasia creando cose ridicole, sotto il pretesto che Dio si rivela nel contrario e nel difforme, secondo la dottrina dell’Aeropagita e dell’Aquinate. Come non capirlo, lo dico da sempre che Dio predilige il cattivo gusto, il kitsch anche estremo (sulla mia scrivania, in questo momento, una statuetta di papa Francesco con testa snodabile annuisce compunta). Ma il cupo vegliardo Jorge da Burgos lo detesta, non tollerando di vedere l’asino che suona la lira, l’allocco che ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all’aratro, i fiumi che risalgono le correnti, il mare che s’incendia, il lupo che si fa eremita, non sopportando di cacciare la lepre col bue, di farsi insegnar grammatica dalle civette e che i cani morsichino le pulci, gli orbi guardino i muti e i muti domandino pane, la formica partorisca un vitello, volino i polli arrosto, le focacce crescano sui tetti, i pappagalli tengano lezione di retorica, le galline fecondino i galli, eccetera. Morirà, Adelmo, e dopo di lui un corteo di monaci, tutti quanti accomunati dall’interesse per l’ultima copia di un libro pericoloso, seppellito prima nel labirinto della Biblioteca e poi nello stomaco di Jorge: il secondo libro della Poetica di Aristotele, che tratta della commedia e del riso. Il nome della rosa parla della satira, e in particolare della satira applicata alle grandi idee umane, e ancora più specificamente a Dio.

Ah, qui nessuno vuol fare l’apologia di Jorge e della sua tetraggine. Tuttavia – bisogna ammetterlo – ridere di Dio e su Dio non è affatto scontato. Provoca sempre un brividino lungo la schiena. Qualcosa dentro di noi ci ammonisce di scherzar coi fanti e – i santi – di lasciarli stare. Ridere di Dio, irridere Dio, implica sempre una connessione con lui, e ci mette a disagio. La bestemmia rimane tale anche se si è placidamente agnostici.

Sfolgorava la Triade-Monade divina presso Mamre, recando ad Abram la promessa di una discendenza innumerevole. Ma Sara, pensando con pratico realismo al coito fra centenari e alla sua buffa improbabilità, scoppiò a ridere, provocando l’immediato corrucciarsi del Signore. Chi ride manca di fede? Forse, e nondimeno la risposta è il bimbo Yitzhaq, Isacco, risata di Dio. Eppure ci manca l’icona evangelica di Gesù sorridente, quando – almeno una volta – ce l’aspetteremmo. Ma non c’è. L’uomo-Dio piange, e spesso: ma del suo ridere nessuno ci ha raccontato. E Giovanni Crisostomo sosterrà che non lo fece mai.

Si potrebbe fare un lungo e dotto discorso sul senso antropologico e sociologico del riso. Rimando a Georges Minois e alla sua monumentale Histoire du rire e de la dérision. Io – che amo il pop – richiamerò soltanto il tenero e patetico desiderio di sorriso divino di Massimo Troisi in Scusate il ritardo. Il prete gli propone di andare a vedere una statua della Madonna che piange. Troisi/Vincenzo risponde che no, è deprimente vedere gente che piange, ma che se la Madonna ridesse lui ci andrebbe. Il buon prete si indigna, ma lui replica: Sempre miracolo è!

Insomma, non si può negare una certa tensione fra Dio e quella particolare modificazione del respiro, quelle scosse della laringe, quella contrazione tipica dei muscoli del viso. quello scoprirsi delle arcate dentarie, e nei casi più estremi quelle lacrime, quello – cioè – che viene chiamato ridere. Non a caso Freud scorge, dietro la maschera della risata, il volto tremendo delle pulsioni sessuali nel loro acrobatico tentativo di rendersi presentabile in società (Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten). Tensione, non assenza. Con rispetto per il Crisostomo e per il monaco Jorge, infatti, un filo ridente percorre tutta la storia cristiana: dall’usanza del risus paschalis, per cui tutti erano chiamati a ridere, anche se tristi, per l’evento della Resurrezione – e per ottenere questo i predicatori erano autorizzati anche a raccontare barzellette sconce – alle messe goliardiche, licenziose e avvinazzate solennemente celebrate dai clerici vagantes in osteria, a san Francesco, a san Filippo Neri. Non parliamo dell’ebraismo, un ebreo che non sa ridere è una mostruosità quasi inconcepibile. Ma anche il Profeta Mohammed rideva e incoraggiava a ridere, e Allah, nel Corano, fra le centinaia di nomi meravigliosi di cui si orna, ha anche Colui che assicura il riso e il pianto.

Io credo che il fondamento e la radice di tutto questo, la ragione per cui i figli di Abramo possono ridere, sia l’ottenuta familiarità con Dio. In fondo il coraggio di Abramo è questo: accettare la familiarità col Dio dei deserti, degli spazi infiniti, delle stelle e delle schiere angeliche. E’ grazie a questa familiarità che l’haredì può abbracciare il rotolo della Torah come fosse la sua sposa, più che se fosse la sua sposa, è grazie ad essa che il derviscio vortica in estatica danza, è grazie ad essa che si imbandisce pane nutriente e vino inebriante sulla mensa eucaristica.

Fuori da tale familiarità non c’è spazio per ridere. Non c’è nulla da ridere. Nulla. Il nichilismo non fa ridere affatto. E effettivamente come possiamo ridere, noi, a cui questa intimità è stata tolta per sempre

I simpatici vignettisti di Charlie Hebdo– con le loro belle facce tonde e i maglioncini girocollo color pastello - non sono dei nuovi miniatori medioevali [come Adelmo da Otranto,che poteva disegnare quel che voleva nei suoi marginalia, poteva essere l’amante del vice bibliotecario Berengario, poteva perfino gettarsi dal torrione dell’Edificio, perché allora si viveva comunque tutto dentro quella familiarità] Charb, Cabu, Wolinski, Tignous e Honoré si mettevano al lavoro sulle loro sciagurate, orribili, disgustose vignette a maggior gloria del Nulla. Erano il ghigno sterile, feroce, corrosivo più che irridente, erano la smorfia spaventosa di quel gatto del Cheshire che è oggi l’Europa stanca, esausta: solo la derisione senza niente intorno. L’ebreo bisunto, la trinità che s’inchiappetta, il profeta a culo di fuori: questo usciva dalle loro matite e dai loro colori. Sapevano solo sporcare tutto. Quel che non sapevano è che, se con Dio se ne può ridere, col Nulla – di cui pure erano figli – non si può scherzare

E fu così che altri figli del Nulla, altri servi del Nulla, altri forse inconsapevoli devoti del Nulla chiusero i pugni offesi, derisi, indignati sui caricatori ricurvi dei loro Kalashnikov, coprirono le loro facce avvampanti d’odio con le lane di passamontagna neri, e andarono al numero 10 di rue Nicolas Appert, XI Arondissement, quello della Bastiglia. E entrarono.

(nader noster qui es in coelis, nadallahu akbar, shemà nadonai elohenu)

Chissà se in quel momento si sono guardati, chissà se hanno realizzato – assassini e morituri– di avere lo stesso Padre, di condividere la spaventosa vuota radice. Chissà se in un momento hanno intuito che a tenere la matita e a premere il grilletto erano mani guidate dalla violenza dell’Assente.

Mentre ovunque si leva, fastidiosa, la lagna e il compianto dei charlieri, chierichetti del Nulla, che si affrettano a canonizzare di santità civica i morti coi cadaveri ancora caldi, e plaudono alle vignette come se fossero il frutto più alto del libero pensiero - io penso al Patriarca Abramo.
Che ebbe anche lui la sua tentazione nichilistica. Fu quando, mascherandosi da Nulla, Iddio gli richiese il sacrificio del figlio. E Abramo andò sul monte Moria, come si andrebbe al numero 10 di rue Nicolas Appert. Finché le mani dell’angelo non si chiusero sulla sua armata di coltello, confermandolo e confortandolo nella familiarità divina, e rendendogli impossibile calare la lama su Yitzhaq, risata di Dio.

Fu sulla pietra, su quella pietra, che ora è chiusa in un ottagono di maioliche splendenti dei mille colori della coda del pavone, e coperta da una cupola d’oro puro che il sole accende la sera e al mattino, tra i canti e le campane e le preghiere della Città santa. Una pietra che non ho mai potuto toccare, essendo prigioniera di altri figli del Nulla, miei simili, miei fratelli.