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venerdì 9 gennaio 2015

Fratres in Nihilo - Rue Nicolas Appert, 7 dicembre 2015

Bisognerebbe tornare a quando eravamo bambini.

Perché da bambini abbiamo vissuto tutto, il cielo e la terra, il paradiso, sì, ma anche l’inferno: che non sono luoghi – o condizioni – verso cui andiamo, piuttosto sono luoghi – o condizioni – da cui proveniamo. E quando, chissà, essi si manifesteranno al termine della nostra avventura umana, li riconosceremo, perché ci siamo già stati: in quel guazzabuglio misterioso di estasi e strazio chiamato infanzia.

Bisognerebbe tornare a quando siamo stati bambini, e rintracciare un’esperienza in cui siamo stati derisi, oppure in cui altri hanno deriso ciò che per noi era caro. Non faremo fatica a trovarla, in qualche anfratto dei ricordi c’è sempre. Bisognerebbe far risalire l’urlo delle emozioni, riprovare la faccia che avvampa, e illividisce, e ancora avvampa, lasciare che lacrime d’odio, d’amore e di dolore scavino brucianti le nostre guance, sentire i pugnetti che si chiudono a martello e i muscoli tesi.

E’ allora che – auguriamocelo – qualcuno, uno più grande, un padre per esempio, si è seduto con noi, ci ha guardato, ci ha ascoltato, ci ha parlato, ci ha tenuto e contenuto, consentendoci di capire come le cose veramente importanti e sacre siano collocate in un luogo invulnerabile ai botoli ringhianti dell’irrisione. Rendersene conto ci ha permesso di vederli quali erano. Come nell'affresco dell’Angelico, la canaglia è già in pezzi: facce, sputi, canne, mani, tutto sospeso nel niente: mentre la maestà del Cristo rimane inviolata e inviolabile, e san Domenico può sedere in pace ai suoi piedi, studiando la Scrittura con intelligente fervore.

Auguriamoci che sia andata così. Altrimenti, forse, in quel momento abbiamo rischiato grosso. Se non ci fosse stato nessuno a darci la misura della invulnerabilità del sacro, e se la cosa a noi più cara, più cara della vita nostra e di quella degli altri, fosse rimasta in balìa dell’insulto, se addirittura ci fossimo resi conto che quella cosa cara non esisteva affatto, allora il pugnetto chiuso, diventato adulto, avrebbe potuto inserire il caricatore caratteristicamente ricurvo, pieno di munizioni calibro 7,62, nel corpo dell’Avtomat Kalašnikova 47, e poi spingere una porta e uscire nel mattino invernale di Parigi per recarsi ad un tragico appuntamento

Il rapporto tra Dio e la risata è interessante, complicato, controverso. A diciotto anni lessi Il nome della rosa. Ero sedotto e intrigato dal medioevo, e dall’ambientazione monastica. Se pure ero consapevole che quel libro racchiudesse fra le pagine un’idea inquietante, non ci facevo tanto caso: tifavo per i politicamente scorretti: il terribile inquisitore domenicano Bernardo Gui e il mistico Ubertino da Casale; mi identificavo col giovane Adso ingenuo e innamorato, mentre non amavo tanto l’eroe, lo Sherlock Holmes in saio francescano Guglielmo da Baskerville. Dunque: il dolce e conturbante Adelmo da Otranto, eccellente miniatore, lavora sulle decorazioni marginali e lascia sbizzarrire la sua fantasia creando cose ridicole, sotto il pretesto che Dio si rivela nel contrario e nel difforme, secondo la dottrina dell’Aeropagita e dell’Aquinate. Come non capirlo, lo dico da sempre che Dio predilige il cattivo gusto, il kitsch anche estremo (sulla mia scrivania, in questo momento, una statuetta di papa Francesco con testa snodabile annuisce compunta). Ma il cupo vegliardo Jorge da Burgos lo detesta, non tollerando di vedere l’asino che suona la lira, l’allocco che ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all’aratro, i fiumi che risalgono le correnti, il mare che s’incendia, il lupo che si fa eremita, non sopportando di cacciare la lepre col bue, di farsi insegnar grammatica dalle civette e che i cani morsichino le pulci, gli orbi guardino i muti e i muti domandino pane, la formica partorisca un vitello, volino i polli arrosto, le focacce crescano sui tetti, i pappagalli tengano lezione di retorica, le galline fecondino i galli, eccetera. Morirà, Adelmo, e dopo di lui un corteo di monaci, tutti quanti accomunati dall’interesse per l’ultima copia di un libro pericoloso, seppellito prima nel labirinto della Biblioteca e poi nello stomaco di Jorge: il secondo libro della Poetica di Aristotele, che tratta della commedia e del riso. Il nome della rosa parla della satira, e in particolare della satira applicata alle grandi idee umane, e ancora più specificamente a Dio.

Ah, qui nessuno vuol fare l’apologia di Jorge e della sua tetraggine. Tuttavia – bisogna ammetterlo – ridere di Dio e su Dio non è affatto scontato. Provoca sempre un brividino lungo la schiena. Qualcosa dentro di noi ci ammonisce di scherzar coi fanti e – i santi – di lasciarli stare. Ridere di Dio, irridere Dio, implica sempre una connessione con lui, e ci mette a disagio. La bestemmia rimane tale anche se si è placidamente agnostici.

Sfolgorava la Triade-Monade divina presso Mamre, recando ad Abram la promessa di una discendenza innumerevole. Ma Sara, pensando con pratico realismo al coito fra centenari e alla sua buffa improbabilità, scoppiò a ridere, provocando l’immediato corrucciarsi del Signore. Chi ride manca di fede? Forse, e nondimeno la risposta è il bimbo Yitzhaq, Isacco, risata di Dio. Eppure ci manca l’icona evangelica di Gesù sorridente, quando – almeno una volta – ce l’aspetteremmo. Ma non c’è. L’uomo-Dio piange, e spesso: ma del suo ridere nessuno ci ha raccontato. E Giovanni Crisostomo sosterrà che non lo fece mai.

Si potrebbe fare un lungo e dotto discorso sul senso antropologico e sociologico del riso. Rimando a Georges Minois e alla sua monumentale Histoire du rire e de la dérision. Io – che amo il pop – richiamerò soltanto il tenero e patetico desiderio di sorriso divino di Massimo Troisi in Scusate il ritardo. Il prete gli propone di andare a vedere una statua della Madonna che piange. Troisi/Vincenzo risponde che no, è deprimente vedere gente che piange, ma che se la Madonna ridesse lui ci andrebbe. Il buon prete si indigna, ma lui replica: Sempre miracolo è!

Insomma, non si può negare una certa tensione fra Dio e quella particolare modificazione del respiro, quelle scosse della laringe, quella contrazione tipica dei muscoli del viso. quello scoprirsi delle arcate dentarie, e nei casi più estremi quelle lacrime, quello – cioè – che viene chiamato ridere. Non a caso Freud scorge, dietro la maschera della risata, il volto tremendo delle pulsioni sessuali nel loro acrobatico tentativo di rendersi presentabile in società (Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten). Tensione, non assenza. Con rispetto per il Crisostomo e per il monaco Jorge, infatti, un filo ridente percorre tutta la storia cristiana: dall’usanza del risus paschalis, per cui tutti erano chiamati a ridere, anche se tristi, per l’evento della Resurrezione – e per ottenere questo i predicatori erano autorizzati anche a raccontare barzellette sconce – alle messe goliardiche, licenziose e avvinazzate solennemente celebrate dai clerici vagantes in osteria, a san Francesco, a san Filippo Neri. Non parliamo dell’ebraismo, un ebreo che non sa ridere è una mostruosità quasi inconcepibile. Ma anche il Profeta Mohammed rideva e incoraggiava a ridere, e Allah, nel Corano, fra le centinaia di nomi meravigliosi di cui si orna, ha anche Colui che assicura il riso e il pianto.

Io credo che il fondamento e la radice di tutto questo, la ragione per cui i figli di Abramo possono ridere, sia l’ottenuta familiarità con Dio. In fondo il coraggio di Abramo è questo: accettare la familiarità col Dio dei deserti, degli spazi infiniti, delle stelle e delle schiere angeliche. E’ grazie a questa familiarità che l’haredì può abbracciare il rotolo della Torah come fosse la sua sposa, più che se fosse la sua sposa, è grazie ad essa che il derviscio vortica in estatica danza, è grazie ad essa che si imbandisce pane nutriente e vino inebriante sulla mensa eucaristica.

Fuori da tale familiarità non c’è spazio per ridere. Non c’è nulla da ridere. Nulla. Il nichilismo non fa ridere affatto. E effettivamente come possiamo ridere, noi, a cui questa intimità è stata tolta per sempre

I simpatici vignettisti di Charlie Hebdo– con le loro belle facce tonde e i maglioncini girocollo color pastello - non sono dei nuovi miniatori medioevali [come Adelmo da Otranto,che poteva disegnare quel che voleva nei suoi marginalia, poteva essere l’amante del vice bibliotecario Berengario, poteva perfino gettarsi dal torrione dell’Edificio, perché allora si viveva comunque tutto dentro quella familiarità] Charb, Cabu, Wolinski, Tignous e Honoré si mettevano al lavoro sulle loro sciagurate, orribili, disgustose vignette a maggior gloria del Nulla. Erano il ghigno sterile, feroce, corrosivo più che irridente, erano la smorfia spaventosa di quel gatto del Cheshire che è oggi l’Europa stanca, esausta: solo la derisione senza niente intorno. L’ebreo bisunto, la trinità che s’inchiappetta, il profeta a culo di fuori: questo usciva dalle loro matite e dai loro colori. Sapevano solo sporcare tutto. Quel che non sapevano è che, se con Dio se ne può ridere, col Nulla – di cui pure erano figli – non si può scherzare

E fu così che altri figli del Nulla, altri servi del Nulla, altri forse inconsapevoli devoti del Nulla chiusero i pugni offesi, derisi, indignati sui caricatori ricurvi dei loro Kalashnikov, coprirono le loro facce avvampanti d’odio con le lane di passamontagna neri, e andarono al numero 10 di rue Nicolas Appert, XI Arondissement, quello della Bastiglia. E entrarono.

(nader noster qui es in coelis, nadallahu akbar, shemà nadonai elohenu)

Chissà se in quel momento si sono guardati, chissà se hanno realizzato – assassini e morituri– di avere lo stesso Padre, di condividere la spaventosa vuota radice. Chissà se in un momento hanno intuito che a tenere la matita e a premere il grilletto erano mani guidate dalla violenza dell’Assente.

Mentre ovunque si leva, fastidiosa, la lagna e il compianto dei charlieri, chierichetti del Nulla, che si affrettano a canonizzare di santità civica i morti coi cadaveri ancora caldi, e plaudono alle vignette come se fossero il frutto più alto del libero pensiero - io penso al Patriarca Abramo.
Che ebbe anche lui la sua tentazione nichilistica. Fu quando, mascherandosi da Nulla, Iddio gli richiese il sacrificio del figlio. E Abramo andò sul monte Moria, come si andrebbe al numero 10 di rue Nicolas Appert. Finché le mani dell’angelo non si chiusero sulla sua armata di coltello, confermandolo e confortandolo nella familiarità divina, e rendendogli impossibile calare la lama su Yitzhaq, risata di Dio.

Fu sulla pietra, su quella pietra, che ora è chiusa in un ottagono di maioliche splendenti dei mille colori della coda del pavone, e coperta da una cupola d’oro puro che il sole accende la sera e al mattino, tra i canti e le campane e le preghiere della Città santa. Una pietra che non ho mai potuto toccare, essendo prigioniera di altri figli del Nulla, miei simili, miei fratelli.