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venerdì 13 febbraio 2015

Mmmh. Turner e i borborigmi dell'anima


Che anche se Turner fosse un biopic, e non lo è, batterebbe alla grande almeno gli altri biopic che ho visto in questo periodo. In particolare il vecchio malmostoso di Leigh e Spall annullerebbe il giovane favoloso, il Leopardi di Martone e Germano, mostrandogli come si fa a vivere, ad amare, a creare, a soffrire e a morire senza tanti contorcimenti concupiscenti su piedini affusolati di nobildonna avvolti in scarpine di raso e senza tanto latinorum, graecorum et hebreorum assorbito nella austera Recanati. Ah no, no, qui c'è il formicaio londinese di poveracci e gentiluomini sulle sponde del Tamigi, e l'inglese lo si parla strascicato.

Eppure appunto biopic non è. Quella è solo una maschera. Non è un film su William Turner il pittore della luce e del mare. All’uscita dal cinema ci dicevamo: ti è piaciuto? Non so. Ci devo pensare. C’è qualcosa che non torna. Però belle le inquadrature di albe e tramonti. Un po’ lungo, un po’ pesante, eh. La luce bianca dava un senso di struggimento. Luce bianca? ma dove l’hai vista, io ho visto solo colori contraddittori! Mi ha lasciato tristezza, strano. E effettivamente fuori la sera era fredda e bella, con un gran vento che veniva dai Balcani – o dalla Scandinavia, non so – e c’erano tante stelle e una luna calante tutta distesa all’orizzonte, ma il filo della serenità interiore lo avevamo perduto.

La bellezza è sparsa e trabocca nel cosmo – velo di Maya o rivelazione di Dio nessuno lo capirà mai - e il corpaccione di Turner/Spall, fatto per trasportare il suo occhio bovino (esaminato dal dottore, che individua i segni del male proprio lì, nell’occhio del Maestro), sì, quell’occhio tondo, per trasportarlo arrancando asimmetrico su e giù per le campagne e le scogliere purché possa vedere, altri non è che l’uomo, materia grossolana, eppure fatta per riconoscerla ed amarla. L’uomo-Turner, quello che si fa legare come Odisseo all’albero di un veliero pur di fissare l’occhio nella danza stessa di Shiva, fatta di neve, di pioggia, di schiuma, di ebbrezza, di caos. E che prova a restituirli su tele sette per tre, gettandoci sopra biacca, sputi, torli d’uovo, unghiate, rosso scarlatto e blu oltremare che viene dall’Afghanistan fin nella bottega piena di topi di un furbo droghiere che lo vende carissimo, e rabbia, e stupore, e costernazione, e angoscia, e soprattutto mmmh

Per il resto non c’è quasi niente: ovverosia, c’è tutto, ma è un tutto che è quasi niente. Mmmh. C’è un padre affettuoso con le sue manie, che si traduce e s'invera nel figlio, e che muore maledicendo, rispettando, ringraziando e ridendo (tutto insieme) della baldracca di sua moglie. Mmmh. C’è una donna arcigna e antica amante che periodicamente lo raggiunge al fine di rinfacciargli la sua trascuratezza, accompagnata dal corteggio di figlie illegittime e malate. Mmmh. C’è una serva (damsel) che fa la tragica vestale dei suoi quadri, una donna dallo sguardo vacuo e triste e buffo, perseguitata da un esantema che progressivamente le ridurrà la pelle a una piaga, come se fosse un crocefisso barocco, una che lo ama tanto con quel poco d’anima che ha, e sulla quale lui ogni tanto sfoga le sue voglie senza – come scrive Mariarosa Mancuso – sentirsi in dovere di fare conversazione. Anzi: Mmmh. Ci sono i colleghi artisti dell’Accademia: e l’Accademia – per chi un po’ la conosce oggi – non è davvero mai cambiata, misto com’era ed ancora è di grandezza e di miseria. Mmmh. Ci sono le damerine e i damerini, c’è un John Ruskin protofighetto prodigio che fa il giocoliere delle parole, c’è una giovane regina Vittoria che passa sprezzante lasciando cadere un regale ferale giudizio sui suoi quadri e così condannandoli all’esilio, presto sostituiti da smorti preraffaelliti. Mmmh. Ci sono i pescivendoli e i marinai, uno dei quali recante il peso del servizio sulle navi negriere. Mmmh. C’è la Signora Booth, sorridente e accudente, che offre, a lui che la inganna, una camera serena sul mare, un tè, la pulizia delle scarpe, e il suo corpo di vedova solida e matura, pieno di rughe ma con gli occhi accesi. Mmmh. Sì. Perché - se, come dicono neurofilosofi come John Searle - il cervello sta alla coscienza come l'intestino sta alla digestione, allora potrà anche emettere dei borborigmi. E altroché se Turner ne produce, in uno staccato che accompagna tutto il film. 

Come si rappresenta Dio? Come si scrive l'icona di Dio? Con la luce, evidentemente. Deus lux est et in eo tenebrae non sunt ullae. I sapienti bizantini lo sapevano bene però che questo nesso - ove reso assoluto -  nascondeva una trappola filosofica, la stessa che celerebbe, ove sempre assolutizzato, il pensarlo come tenebra, come è stato fatto - dopo i grandi apofatici antichi e medievali - dai grandi mistici carmelitani (En una noche oscura, con ansias en amores enflamada, ¡o dichosa ventura!) fino ai tedeschi Silesio e Eckart. Allora essi avvolgevano la veste del Trasfigurato e del Risorto in una veste dal candore sovrannaturale, ma lo sfondo derivava gradualmente verso un nucleo di blu impenetrabile. Turner cerca di dipingere Dio strappando il colore alla forma, e poi la luce al colore medesimo. Divorziando dalla forma, come viene detto anche nel film, e anticipando di molti anni l'Impression di Monet. Sul suo volto di bulldog si spalanca l'occhio a cercarla cercarla cercarla questa luce inesprimibile. 

Rimane la questione aperta della forma. Il sole è Dio dice Turner sul letto di morte. O Lux ave spes unica ? E quando - poco prima - gli viene detto dal medico che ne avrá per poco, esclama: Vuol dire, dottore, che sto per trasformarmi in una nullità? Il dottore replica: Faccio fatica a pensarla come una nullità, Maestro. Ma Turner ha ragione. Se la luce è Dio, cosa rimarrà di noi quando l'occhio definitivamente si chiude? Quella luce che per svelarsi tale ha bisogno di un ostacolo opaco?
In un film allo stesso tempo somigliantissimo e diverso (Ebbro di donne e di pittura del regista coreano Kwon-taek Im) il pittore Jang Sung-eop, contemporaneo di Turner sull'altra parte del pianeta, vive la stessa lacerazione tra materia e spirito, tra volgarità e raffinatezza (Dovevo prendere i miei colori! protesta contro quelli che lo vengono a prelevare in un rozzo bordello per riportarlo alla rarefatta corte imperiale), ma non abbandonerà mai la forma. Al contrario, la inseguirà fino alla sua purezza quintessenziale. 

Il genio del cristianesimo è la scoperta che non soltanto la forma non si oppone alla rappresentazione della luce, ma ne è la sola possibilità di manifestazione. La luce taborica avvolge il corpo del Cristo, non lo sostituisce. Una volta, tanto tempo fa, ho visto un presepe non cristiano. Mi trovavo all'eremo di Camaldoli, fra la neve delle foreste casentinesi, e un giovane novizio camaldolese - scultore - aveva realizzato quell'anno il presepe, i cui personaggi ricordavano un po' le morbide figure di Henry Moore. Sorprendentemente il Bambino non c'era, rappresentato da una candela accesa. San Giuseppe e la Madonna avevano un frammento di specchio sul petto, in cui tale luce si rifletteva. L'idea era bella e suggestiva: ma, appunto, non cristiana. E sembrava piuttosto strano che i santi monaci dalle bianche e luminose cocolle cantassero, attorno a quel presepe, il misterioso prender forma di Dio nel Natale sulle belle melodie composte del monaco californiano Thomas Matus. 

Il film, questo, lo fa capire benissimo, e sempre attraverso le prostitute, categoria che non per niente nel Vangelo riscuote da parte del Signore una speciale e singolare predilezione. Una prima volta Turner va in un bordello - per dipingere - e davanti alla ragazzina nuova che gli mandano (Elisa o Lisa, che importa in effetti il nome) così bella, così docile, così rassegnata, così abbandonata, ecco, rompe in un pianto terribile e devastato, uno dei più bei pianti che io ricordi di aver visto al cinema.  E una seconda volta quando la risacca porta sugli scogli il cadavere, bianco come un giglio, di un'altra ragazza, e lui malatissimo afferra carta e carboncino ed esce in camicia e a piedi nudi, attonito, cercando di disegnare quando dovrebbe forse invece adorare la bellezza della forma umana che in quanto tale (e non in virtù di una particolare qualità o resistenza ontologica) mai la morte potrà ridurre a nullità. Anche se cosa diventi dopo non sappiamo, e chissà se sapremo mai. 

Non si compie - almeno nel film - il mistero pasquale della forma o quello taborico della trasfigurazione. La luce non viene drappeggiata attorno al corpo umano, immagine-e-somiglianza e suprema icona. Turner continua a cercarla nel cosmo, nella natura, soprattutto nel mare e nelle marine. Eppure nella prima scena lo vediamo tornare dall'Olanda dove ha visto Vermeer e Rembrandt - che della luce e dell'uomo, qualunque cosa possa dirne Florenskij ne Le Porte Regali, certo sapeva molto. E il cosmo gli va incontro, ci prova a parlargli,  e il mare geme e soffre per sciogliere il segreto, depositandogli davanti all'occhio - come ho detto - il più tragico e incantevole dei relitti. Ma la trasformazione non si compie. 

Così la luce estenua a colpi di pennellate d'incanto la sagoma della valorosa Temeraire, mentre un fumigante rimorchiatore la trascina (e Turner, e noi con lei) verso un futuro non di Nulla (che sarebbe Nirvana, Vacuità, la forma è vuoto e il vuoto e forma del Sutra della Prajnaparamita, ogni giorno recitato nei monasteri zen), ma di nullificazione. Mmmh