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lunedì 8 giugno 2015

Bolle di sapone: note postmoderne su un rito premoderno

La chiesa russa di Firenze appartiene di diritto a quelle strane incongruenze e bizzarrie orientali di cui la città, fra le mille altre cose, si adorna: come il monumento funebre del tenerissimo principe ventenne di Kolhapur, che passò qui di ritorno da Londra, dove si era recato per salutare la Regina, e morì in un Grand Hotel del centro. La sua pira fu eretta nel parco delle Cascine e le sue ceneri furono disperse - come il rito prevede - alla confluenza di due fiumi. E la confluenza che accolse il residuo materiale che aveva manifestato l'atman nella forma del  principe non fu quella fra i sacri e imponenti Gange e Yamuna, due fiumi himalaiani, nonché due potenti dèe, se ci fosse bisogno di specificarlo. No. Furono il mitissimo Arno e il timidissimo Mugnone. Ora l'Indiano è il nome di un quartiere e di un ponte brutto e moderno. 

La chiesa russa, a guardarla, è russa come i restauri di Viollet-le-Duc sono gotici. E' un sogno di Russia, un desiderio, una speranza, una nostalgia, come potevano provarli i Demidoff o i Nelidoff. Una voglia di Russia, situata anch'essa lungo il Mugnone, fra sobri edifici ottocento, che se ne sta lì con le sue cinque colorate cupolette a bulbo, chiusa fra cancelli di ferro battuto come una palazzina borghese qualunque:  lei, questa chiesetta, dalle linee, dalle torsioni, dalle geometrie concepite per sfidare la geografia sconfinata dell'est e quella ancora più sconfinata dell'anima russa. 

Presente al rito della domenica, così lungo da poter includere nella preghiera incisi e extra-vaganze, c'è un piccolo gruppo di bimbi i quali - toltisi rigorosamente le scarpe - se ne stanno seduti sul tappeto di fronte all'icona più importante sull'analogion, in cerchio, e si passano un piccolo cilindro e un'asticella per fare le bolle di sapone che infatti si levano numerose e spensierate di mezzo all'assemblea dritta in piedi, velata, ferma, incurante, orante. Se c'è Dio, e se Dio è degno di quel che si pensa di lui, allora io credo che se ne stesse lì incantato a godersi la scena delle bolle, e che non si preoccupasse molto dei solenni barbuti celebranti che dietro la marmorea iconostasi intonano con voce profonda i versi della Sacra e Divina Tragedia. Oh, lo so, lo so che potrebbe essere scambiato per un sentimentalismo facile e felice. Però io felice non lo sono di sicuro, tutto il contrario, e se mi aggrappavo io a quelle bolle evanescenti, se erano esse che mi rappacificavano, ben più di quanto potessero i neumi e le flessioni del canto, le parole altissime e terribili, ecco io penso che Dio dovesse ben averci qualcosa a che fare. Non parliamo dei concetti a cui le parole alludono: a ciò non penso più da tempo, avendoci pensato troppo in anni che avrebbero potuto esser spesi molto meglio. Insomma sì, io immagino che Dio fosse lì a guardare. Che ne sappiamo. In fondo i suoi pensieri non sono i nostri. Potrebbe aver creato tutto: le stelle, i buchi neri, la quattro forze, i pianeti, la vita, l'in-ominarsi del bipede dalla stazione eretta e dal pollice opponibile, l'evoluzione, la storia, gli imperi, l'incarnazione del Figlio, la sua morte, la sua resurrezione, la Chiesa, i martiri, i santi, la liturgia, la Russia, Firenze, la granduchessa Marija Nikolajevna, tutto, pur di godersi lo spettacolo di queste bolle di sapone. Sarebbe da lui. 

E dire che il rito è molto bello. Composto, intento, armonico. La donna che dirige il coro è di una bellezza sovrannaturale (un Padre ed amico la direbbe sofianica). Ha occhi dal taglio orientale, come si trovano dipinti sugli stupa nepalesi o tibetani: la parte superiore dell'occhio è una linea piatta, quella inferiore una goccia che si assottiglia all'esterno. La pelle del volto gareggia in candore col velo che lo incornicia. Dirige con le due mani, rivolta come gli altri coristi verso l'altare, nella destra tiene un piccolo diapason. E' in continuo movimento pur rimanendo immobile e verticale: così, credo, con questa stessa distorsione percettiva, apparirebbe un angelo allo sguardo umano. Della voce non dico neppure. Però, se anche Dio non guardasse le bolle di sapone, sono io a preferirle a tutto quanto il resto, perfino alla cherubica corista. 

Poi avvengono due fatti che mi distraggono dalla mia bullicante meditazione. 

Il primo.  C'è una mamma, al centro della chiesa, che si fa avanti tenendo in braccio un bimbo di circa due anni che - all'istante - si mette a piangere in modo sonoro. Non si può negare che ciò confligga un poco con i dodici toni del canto znamenny, e se - come dice Eraclito - per il dio tutto è buono, giusto e bello, non è certo così per l'orecchio umano, creato per distinguere ciò che è bello da ciò che è brutto e per private piacere e fastidio. Fatto è che il bambino sta per affrontare un certo qual spavento, e lo pre-sente. Nel rito dell'iniziazione sacramentale ortodossa, infatti, il bimbo maschio viene introdotto nel santuario, ossia oltre l'iconostasi, dal sacerdote, viene ivi benedetto e poi restituito alla madre. In tal modo egli viene abilitato a servire liturgicamente dentro il santuario medesimo. Già. Ma il piccolo in questione non è così teologo, o forse lo è già troppo, e ci dà dentro come può con un toccante ululato di protesta. Ecco che il sacerdote discende dai gradini dell'altare, si avvicina, ah non è rassicurante, neanche un po', e il poverino cerca rifugio nella concavità del corpo materno situata fra omero e clavicola. Ma il sacerdote non si scompone affatto. Afferra per la vita il bimbo - che a quel punto esige dai suoi piccoli ma efficientissimi mantici polmonari uno sforzo supplementare per raggiungere uno strepitoso fortissimo - si volta, e rapidamente risale i gradini. Questi grida, ha la maglietta sollevata all'altezza delle ascelle, e le gambette svolazzanti come bandiere di qui e di là. Il prete entra nella porta di destra dell'inconostasi, che si chiude dietro di lui.  Ora che non si vede più nulla, il grido del pargoletto disperato fa venire i brividi. Io invoco mentalmente tre santi a me cari: san Sigismondo (Freud), san Carlo Gustavo (Jung) e san Giacomo (Lacan). Mi chiedo come si depositerà nella memoria incoscia questa esperienza. Se tornerà come un vissuto d'angoscia nella sua relazione col padre, o con Dio. Se contribuirà, come un mattoncino, a costruire quella diga di odio che lo separerà dall'uno e dall'Altro. O seppure invece avrà un effetto sanamente iniziatico, in fondo così dicono che debba fare il padre, sottrarre il figlio al mondo fintamente edenico, in realtà tenebroso, indifferenziato e mortifero, del materno, e spingerlo a individuarsi. E anche spiritualmente, chissà. Dio ci ghermisce, effettivamente. Non ci chiede tante autorizzazioni, e lo Spirito Santo sarà pure disceso sul Figlio sicut columba, ma su di noi cala spesso piuttosto come un astore scagliato dal pugno di uno spietato falconiere, cacciatore inesausto d'anime e di corpi. Quando riesce dalla porta sinistra, il bimbo ha la faccia color rosso cupo come una mela Annurca, né, comprensibilmente, il conforto materno lo placherà. 

Il secondo. Al momento della comunione si forma, a destra dell'iconostasi, una lunga fila. A cenni le donne russe mi fanno segno di passare avanti: e vabbè, è la loro tradizione, ho rinunciato a contestarla. Gli uomini prima: solo qui, naturalmente, basta una conoscenza minima della letteratura per sapere che fuori dalla chiesa in Russia le cose vanno ben diversamente. Dopo aver creato innumerevoli ingorghi davanti al Sacramento, ho - come si dice - abbozzato. Eh, ma a Firenze il disagio si ripresenta, difficilissimo convincere un fiorentino, intriso di dolcestilnovo ben prima di sapere cosa significhi, nutrito di esso dalle forme stesse della natura e della cultura, permeato da esso per ogni senso, a passare avanti così a una donna. In questo senso la chiesetta russa tiene duro, non si assimila, non cede alla terra dei Fedeli d'Amore. Bene, ecco il fatto. Terminata la fila di uomini e di donne si forma un piccolo vuoto davanti all'altare, e in esso lentissimamente avanza una possente matrona, le braccia costrette in stampelle, il passo quasi totalmente impedito, assistita dai due lati da altrettante signore che la sorreggono con visibile sforzo. Che ti aspetteresti? Ovvio: che il prete discendesse immediatamente e premurosamente dai gradini recandole il calice. Invece no. Col volto impassibile il sacerdote resta fermo sui due piedi. E la donna si trascina. Si avvicina. Comincia a inerpicarsi sui pochi scalini con una caparbietà triste e paziente degna di un portatore nepalese. E ci arriva, al calice, e si comunica, e retrocede. Ecco: anche qui c'è come una sottilissima linea, non più grande di un capello, fra orrore e splendore, fra palese crudeltà e indecifrabile sapienza. Il pensiero si confonde, l'anima cade da una parte e poi dall'altra, solo lo spirito talora funambolicamente riesce a fare qualche passo. 

Perché, con buona pace della pecorella smarrita, che fa lasciare al buon pastore le novantanove pur di poterla ritrovare, non è così che van le cose. Tu sei un nodo di sofferenza, un'inadeguatezza, una tribolazione, una menomazione, uno spasimo, una ferita, un politrauma, un incessante incespicare. Tu pateticamente strisci, e Dio non se ne accorge neppure. Tanti poi sono i gradini che nemmeno sai se ti aspetti ancora davvero là sopra, forse solo lo speri, appena appena quello. E sei lì, nel terribile spazio di libertà di avanzare o rinunciare, di benedirlo o maledirlo, di amarlo o odiarlo. Sei come la povera donna, e già puoi dirti beato se hai qualcuno che ti regga dai due lati. Quel punto tragico e incandescente, quel punto di scelta in cui forse ti stai giocando tutta la partita. Basta, basta. Dio non può abitare in questo tormento, ti vien da dire. Basta così, e subito accorreranno tutte le ragioni del mondo a confortarti. Basta così, e il welfare spirituale si occuperà di rimuovere ogni barriera architettonica tra te e un divino pacioso e domestico, che ti verrà a far le fusa in grembo come un simpatico gattone. Basta così. Ma la donna nella chiesetta russa ha invece salito il suo piccolo atroce monte Calvario. Fede e Carità, forti sorelle - come avrebbe detto Péguy - le sostenevano le braccia. E la bimba Speranza soffiava le bolle di sapone davanti all'icona, e sembrava che non facesse nulla, invece era lei, era lei che faceva tutto.