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venerdì 31 luglio 2015

Cecil il leone, Palmer il dentista, e la savana simbolica

Tira più un pelo di criniera di leone che milardi di capelli di uomini, di donne e di bimbi. Tira più a galla le nostre emozioni, buone e meno buone. Farsi un giro in Twitter con l’hashtag #cecilthelion può essere utile per averne un’idea.

Ci sono i furenti, e il loro nome è legione: quelli che vorrebbero prendere il dentista Walter Palmer, uccisore del grande leone dalla nera criniera, icona dello Zimbabwe, e linciarlo, squartarlo, impiccarlo, mandarlo all’inferno in cui pare ci sia una ‘cavity’ profondissima scavata apposta per lui dove i demòni lo attendono per torturarlo in eterno; ci sono quelli che dicono – più realisticamente – che Palmer è un imbecille che disonora il Minnesota, l’America, l’Occidente; ci sono quelli – oh gran bontà di tali twittatori – che scrivono che Cecil non vorrebbe l’odio e invitano a pensare positivo. Anch’io ho contribuito all’hashtag con un riferimento alla canzoncina tratta da The Little Shop of Horror, in cui un figlioletto che dà precoci segni di sadismo sugli animali viene saggiamente indirizzato dai genitori alla professione del dentista.

Poi c’è la schiera dei moralisti indignati che hanno ben chiara in testa la ‘differenza ontologica’ che passa tra un animale e un essere umano. E’ composta quasi esclusivamente da cristiani austeri, personalisti severi. E gli aborti? E i profughi? E i bimbi che muoiono di fame malattia guerra? Tutto questo casino per un leone, che sì, sarà bello ma vuoi mettere?

Poi ci sono gli animalisti pignoli, che criticano la furia antipalmeriana con argomenti che invece hanno a che fare con la ‘somiglianza ontologica’ tra Cecil il leone e i suoi colleghi animali dotati di minor maestà ma di identica capacità di soffrire che vengono quotidianamente massacrati negli allevamenti intensivi a maggior gloria di Kentucky Fried Chicken, dai cui millanta ristoranti l’antipalmeriano magari twitta procecil mangiucchiando cestelli di ali di pollo fritte. Insomma i democratici del regno animale, che segretamente godono che sia stato scaraventato giù dal trono il Re della foresta, e che va bene, Cecil-Luigi XVI sarà pur stato ghigliottinato dal boia Palmer, fils de saint Louis montez au ciel, ma il popolo senza nome, avicolo, ovino, cunicolo, caprino, bovino e suino chi lo difende ogni giorno? Dov’è l’hasthtag #ovesetbovesetuniversapecora?

Sarà, ma non credo che nessuno di tali partiti colga nel segno rispetto a quanto è avvenuto e sta avvenendo.

C stamattina diceva che ormai si ha pietà solo per gli animali, e fin qui ero d’accordo. Poi aggiungeva che la radice di detta pietà è l’alterità radicale dell’animale rispetto all’uomo. L’animale sarebbe il vero altro levinasiano, laddove il volto umano non sa più esserlo. Qui ho condiviso meno. Infine ha concluso che l’animale è involontariamente filosofo: o meglio – il suo sguardo silenzioso, misterioso, vertiginoso incessantemente ci pone la domanda fatale: chi siamo? E sono tornato a condividere pienamente.

In una delle narrazioni – o flash sideways – dell’umanizzazione o ominizzazione, Adamo il Protoplasto riceve da Dio il comando di dare il nome agli animali. Un filo diretto lega il mitico progenitore al romanzesco Caïn Marchenoir, alter ego di Bloy nella Femme Pauvre, che parla con la dolcissima Clotilde davanti a una gigantesca tigre incerrata e incatenata nello zoo di Parigi. Marchenoir si reca spesso a visitarla, e certamente egli si sente rispecchiato nella ferocia e nella nobiltà dell’animale catturato nella lussureggiante foresta indiana e portato lì, infreddolito e spaesato alla mercè della canaglia che gli getta bucce di frutta: lei, la Grande Tigre, che ove dislegata avrebbe potuto divorarli tutti, e dinanzi alla quale le loro ginocchia si sarebbero piegate dal terrore. Ma c’è qualcosa di più di questo riconoscimento psicologico, che in fondo non è tanto differente da Baudelaire che si ritrova nell’albatro volatore elegante e instancabile, ma imbelle al suolo, schernito dai marinai. Nominando le bestie Adamo compie un atto sacerdotale, coinvolgendole nel suo destino umano: e quindi trascinandole nella caduta e nell’allontanamento da Dio e nel dolore e nella morte: loro, gli incolpevoli. Nella condizione decaduta, gli animali innocenti hanno il compito di portare – senza saperlo – il peso della sofferenza umana derivata dalla condanna. E anche chi la assumerà in maniera redentiva – il Cristo – vorrà adornarsi del titolo di Agnello. Dunque gli animali sofferenti sono agnelli di Dio inconsapevoli, come Gesù lo è in modo superconsapevole: ma sotto e sopra il livello umano c’è comunque qualcuno che incessantemente si immola per la salvezza dell’uomo.

Nell’altra narrazione, quella scientifica, la soglia dell’ominizzazione si ritiene varcata laddove l’ominide si mostra capace di dar forma a un chopper, ossia a una pietra scheggiata con uso polivalente. Queste pietre – e io le ho fisicamente vedute nelle gole di Olduvai, in Tanzania – non hanno l’eleganza e la perfezione del favo dell’ape o della diga del castoro. L’ape e il castoro sono strumenti della Natura o del Creatore, sono come dei pennelli a cui la bellezza del dipinto non può seriamente venire attribuita. Nel rozzo chopper, invece, è all’opera la creatività umana. Il chopper è orribile, ma inventato dall’uomo per diversi usi. Siamo all’alba della libertà. Ma, ahimé, anche all’alba dell’esodo-esilio dal mondo naturale. Ma, ahimé, anche all’alba della tecnica la quale – ben lo sappiamo – neutrale non è. La tecnica in qualche modo esige di essere utilizzata, costringe il suo artefice, lo manipola e lo de-natura. Ancora una volta un filo diretto lega il chopper al fucilone da caccia grossa impugnato da Palmer per impallinare
il grande leone.

Siamo tutti dalla parte del leone Cecil – io pro-palmeriani non ne ho visti, non so neppure se Camillo Langone oserebbe (forse sì, ma mica convinto davvero): e i cristianoni non sono pro-Palmer, ma, fastidiosamente, a difesa della differenza specifica umana, come si è visto – non perché Cecil sia l’altro: ma perché Cecil è più uomo di Palmer. Non soltanto rappresenta le virtù umane del coraggio, della nobiltà, del vigore, della fortezza – per cui tante volte è rampante come elemento araldico sugli stemmi dei nobili, delle città e degli stati – ma evoca immediatamente il Leone che abita la nostra fantasia, di più: il nostro inconscio – al modo delle fiere di Ligabue o di Rousseau le Douanier. Quel Leone che forse abitava la mente di mio padre quando Leone voleva chiamarmi, e ringrazio mia madre che lo moderò e lo rese più comune mutandolo in Leonardo, ma lui continuò sempre a chiamarmi Leone.

Siamo tutti contro Palmer, perché Palmer sarà anche – dal punto di vista ontologico – una persona umana, ma più profondamente lo si percepisce come un insetto, che è la cosa naturale in assoluto più simile a un meccanismo. Karl Rahner, nel Corso fondamentale sulla fede, diceva che come è accaduta l’ominizzazione, potrebbe accadere la dis-ominizzazione, ad opera precisamente della tecnica. Aerei, telefoni, computer continuerebbero a funzionare, ma non ci sarebbero più Leoni interiori, e senza Leoni interiori non c’è più uomo. In questo senso Palmer è la primizia degli ingegnosi insetti antropomorfi che verranno. Ancor meglio: Palmer è la protesi biologica che (ancora: ma per quanto?) serve al fucilone per funzionare e per distruggere il mondo naturale. Forse accadrà ai fuciloni del futuro di liberarsi della molle appendice palmeriana e a sparare per conto proprio. Chissà. In ogni caso la tecnica ha reso schiavo il povero Palmer che – se contingentemente ha ucciso Cecil – nei nostri cuori ha assassinato Aslan, il Leone (misericordioso, ma non mansueto) di Narnia. Non è quindi solo omicida, ma anche deicida. Perché – che prenda forma nelle parole di CS Lewis o nei quadri di Rousseau, nella mitologia greca o nella Bibbia (Ecce vicit Leo de tribu Iuda, Ap 5,5), nele terribili statue poste a guardia dell’Imperatore nella Città Proibita o nel peluche che custodisce il sonno dei nostri bimbi – il Leone dentro di noi è la soglia di un Oltre a cui (misericordioso, ma non mansueto) ci convoca col suo ruggito potente. Essere uomini, infatti, è definito dall’accettare coraggiosamente il richiamo di quest’Oltre, e dall’aver vinto e dal continuo vincere il Palmer interiore che tale richiamo vorrebbe sopprimere, ammutolire, uccidere.

Sono noiosi entrambi. Sia il cristianone alla Adinolfi che, avendo trasformato in ideologia la danza dello Spirito, è subito preoccupato di marcare le differenze di valore tra sé e tutto-il-resto (un cristianone in servizio permanente effettivo, che – al figlioletto che si commuove alla morte della mamma di Bambi – subito ammonirebbe di ricordarsi che la morte di una cerva non è niente in confronto agli innumerevoli bambini a cui muore la mamma). Sia l’animalista rigoroso che non sopporta il rilievo dato a Cecil dalla Nera Criniera e negato ai milioni di maiali che vengono sterminati nei macelli dell’Emilia Romagna. In realtà tutti e due i tipi sono dei Palmer in potenza, perché non hanno familiarità con la giungla interiore, foresta intricata e simbolica, dove appunto sunt Leones.

Tra cristianoni ideologici e animalisti ideologici, io sto con Leon (et pour cause!) Bloy. Lo sguardo animale è un fatto serio. Bisognerebbe prendere l’occasione e rileggersi Derrida (L’animal que donc je suis). O Rilke, tutta l’Ottava Elegia di Duino (…il libero animale/ ha sempre il suo tramonto dietro a sé / e dinanzi ha Iddio; e quando va, va / in eterno come fanno le fonti….)


Bisognerebbe discendere nella savana dell’anima, seguire le tracce del Leone fino al posto segreto dove non serve l’inglese (come direbbe Battiato) né il pensiero chiaro e distinto, e neppure la teologia. Al cospetto del Sacro. Numinosum. Tremendum. Fascinans.

[Immagine: Henri 'Le Douanier' Rousseau (1844-1910) - Tête de lion]