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martedì 2 maggio 2017

Quoniam dilexerunt multum. La vecchia donna cinese e il monaco ch'an

Per quest’ultima, breve storia ci spostiamo più in oriente, e lasciamo anche il continente cristiano, geografico, cronologico e culturale. Siamo in Cina, nel nonsoquando che potrebbe essere ogni istante, perfino ieri, o venti secoli fa. In realtà più che di una coppia dovremmo parlare di un terzetto, perché c’è anche una fanciulla di mezzo: ma, come vedremo, ha una funzione più secondaria e strumentale.



C’è questa vecchia donna cinese, che possiede un po’ di terra adatta alla vita solitaria. Arriva un monaco che pratica il ch’an, quella via che in Giappone e in Occidente sarà conosciuta come zen.

Dire che cos’è lo zen non è possibile: per definizione esso è privo di definizione. I praticanti trascorrono la vita in uno stato di grande concentrazione e contemporaneamente di decentrazione, con molti momenti dedicati a ciò nell’assoluta immobilità. Gli attaccamenti, le brame, i desideri, i pensieri, l’io stesso, tutto cade come foglie secche da un albero autunnale. Appare /ecco!/ il Sé originale, il Sé eterno, o la natura-di-Buddha. Ma di questo non si può parlare se non sbagliando. Imparare lo Zen è trovarci / trovarci è dimenticarci / dimenticarci è trovare la natura di Buddha / la nostra natura originale, dirà Eihei Dogen Roshi, il grande Maestro giapponese che si recò in Cina nel XIII secolo e ne portò in patria il suo tesoro.

Il monaco chiede alla vecchia donna se può stabilirsi sulla vetta di un monte che fa parte dei suoi possedimenti, e che gli sembra adatto per meditare. La vecchia guarda il giovane asceta dagli occhi lucenti, e acconsente. Del resto, per i laici d’oriente, mantenere i monaci è una grande opportunità per guadagnare meriti per le successive esistenze. Il monaco, col suo piccolo bagaglio in spalla, scompare fra gli alberi. Passano gli inverni, ne passano venti. La vecchia donna ora è molto più vecchia. Questo è un inverno arido e ventoso. Le torna in mente il monaco che aveva chiesto di meditare sulla montagna. Si chiede se sia ancora lì, se sia vivo, se segua ancora la Via, se abbia fatto progressi. Chiama allora una sua serva, giovane e bella e piena di desiderio. Le dice: Vai all’eremo, cerca un monaco, e se lo vedi abbraccialo a lungo e con passione: e poi gli chiederai: Adesso?. L’ancella si avvia. Dopo la lunga salita, vede profilarsi sul crinale la figura del monaco, ormai non più così giovane, il cranio perfettamente rasato, seduto nella postura solidissima della meditazione, immobile come solo i non naturalmente immobili riescono ad essere. Obbediente, la ragazza si avvicina, saluta, forse anche canta un po’ per farsi coraggio. Il monaco non dà segno di averne sentito la presenza, eppure ha gli occhi semiaperti e vigili. Lei scherza, danza, lo abbraccia, lo accarezza, dice perfino Adesso?: niente. Perfetta serena immutabile immobilità: il vento marino gonfia le grandi maniche e agita il kesa, che schiocca con rumore di fuoco e di bandiera, ma lui non se ne cura. Un po’ delusa, un po’ sollevata, molto stupita, la ragazza attende qualche ora al gelo sotto il portico del piccolo romitaggio. Quando sta per andarsene sente, profondissime, sonore, melodiose, forti come un tuono, le parole dell’eremita:

Un vecchio albero su una fredda roccia. Pieno inverno: non è rimasto più calore in alcun luogo.

Ora la ragazza discende dalla montagna correndo, e ripetendo tra sé le parole da riferire alla padrona: è ormai notte. Eccola davanti alla vecchia a riferirle. La vecchia scuote la testa, visibilmente delusa.

Per vent’anni ho mantenuto quel buono a nulla!

La mattina del giorno seguente, una piccola carovana di uomini e asini coperti di fascine secche sale il sentiero che conduce alla vetta della montagna. Circondano la zona dell’eremo con le fascine, e appiccano il fuoco. La notte il monte ancora brucia, e il vento piega la fiamma verso est.


Sorride la vecchia donna, pensando che ora in quel luogo c’è molto calore.

Quoniam dilexerunt multum. Terza strana coppia: Maria e lo zio Abramo

Mettono la mano piccola e bianca di lei nella sua, forte e ruvida, quando Maria la bimba ha sette anni, ed è rimasta orfana. Sono venuti a trovarlo nel suo deserto proprio per affidargliela: lei non ha più nessuno e lui, lo zio monaco, è l’unico parente rimastole. Da quel momento, per vent’anni sarà la sua tortora, la sua agnella, il suo angelo. Le ha costruito una cella contigua alla sua, e la notte cantano a due voci i salmi di David re.

Un giorno Abramo si allontana in cerca di acqua e di fascine per il fuoco. Il cammino è lungo, ha sonno, e, con la naturalezza dell’animale selvatico, si rannicchia a riposare nell’incavo ombroso di una roccia.

Proprio allora, sul sentiero di sassi che passa accanto all’eremo, ecco arrivare un giovane uomo. E’ un monaco, che l’accidia spinge a muoversi sempre col cuore e con le gambe, e a non sostare mai. E’ uno di quelli che san Benedetto conosce bene e detesta, e che chiama girovaghi, semper vagi et numquam stabiles, et propriis voluntatibus et gulae illecebris servientes: sempre vagabondi, mai stabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola Il monaco girovago sente una voce che prega, un mormorio come di fonte, e non è allenato a custodire l’animo dalla vana curiositas. Guarda dalla finestrella senza far rumore, e vede quell’incanto, la giovane Maria che saltella con la voce sui salmi di David re. Egli si accorge di aver sete di vita, la tristezza preme sulle sue spalle come un giogo. Entra nell’eremo come un falcone in un nido di allodole. Maria si volta, e per farlo il suo collo di cigno si piega in un modo che il linguaggio umano non è in grado di descrivere. Quando il monaco esce, riprende il cammino, nell’indifferenza apparente del deserto, trascinato via dalla tirannica tristezza che lo domina.

Maria, alzandosi dal giaciglio, si sente perduta, ma non è il peccato di lussuria a provocare quel sentimento. La lussuria è come una carica di cavalleria: è un movimento, un’agitazione, ci sono grida, zoccoli di cavalli, scintillare di sciabole, suoni acuti di trombe. Il demone della lussuria è violento, ma di scarsa tenuta, è un incendio vivace, ma che dura molto poco. Il punto è che quando – sul campo di battaglia che è l’anima – l’incendio della lussuria si spegne, l’anima stessa si trova occupata dalla possente e tenace fanteria della disperazione, che già vi ha portato i suoi carriaggi, vi costruisce i caposaldi, vi scava le trincee. Maria è disperata. Si percuote la faccia e il corpo con le mani. Pensa di gettarsi da una rupe, pensa a mille modi per darsi la morte, pensa a tutto eccetto che a confessare con semplicità allo zio quanto è accaduto.

Se la speranza è estasi d’attesa, la disperazione invece non tollera l’immobilità e il silenzio. Maria si cambia d’abito e fugge dal romitaggio. Edessa, la grande città, coi suoi colori e i suoi rumori, la attrae come un’enorme stella. A lei, sconvolta, sembra di non sapere dove andare, ma la disperazione dentro di lei lo sa benissimo. Conosce perfino il luogo preciso di quel pubblico albergo in cui si scambia merce con altra merce viva e palpitante.

Abramo ora è sveglio. Abituato al sonno del leone o del monaco, un sonno profondo eppure vigile, breve eppure ristoratore, vivo ma privo di immagini, egli è molto stupito. Questa volta. strano, ha sognato, e si ricorda il sogno. C’era la sua casa di fango e di frasche: e serpenti fischianti, enormi scolopendre, ragni e altre forme orribili si insinuavano nelle fenditure e entravano dentro. Abramo lascia le fascine e i secchi, e corre verso l’eremo. Ancora questo non si vede e lui sa che certamente qualcosa è accaduto, lo scorge di lontano e sa che si tratta di Maria, arriva e l’assenza di lei gli racconta tutto.

Il monaco Abramo chiede agli angeli e ai corvi, alle carovane di passaggio e agli anacoreti che pregano negli eremi vicini, e soprattutto a Dio, di ritrovargli Maria. Passano però due lunghi anni. Ecco che un mercante arriva da lui, si siede all’ombra, riceve l’acqua che Abramo gli offre, e la benedizione. L’ho vista, padre – gli dice – e, credimi, non vorresti sapere dove sta e cosa fa; non cercarla più: tua nipote Maria è perduta; fa che per te sia come morta; dille le preghiere per i morti. Abramo si alza, va nell’oratorio, e torna con il libro dei salmi di David re. Dice al mercante: prendi, vale molto questo libro, ci guadagnerai; voglio in cambio abiti come i tuoi, un largo cappello come il tuo, un mantello e delle scarpe come tu hai. Tieni il libro, padre mio – risponde il mercante – prega piuttosto per me, per la mia vita; ti lascio un cavallo, lo riprenderò qui da te, quando passerò ancora. Dio ti consigli però, padre, e ti impedisca di fare ciò che intendi.



Abramo si sveste della sua cocolla del color della notte e indossa gli abiti dalle tinte sgargianti che ha ricevuto. Quello stesso giorno è a Edessa, e si fa indicare l’albergo. Chiede al padrone – un uomo grasso e calvo -  di Maria. Maria, risponde lui, Maria costa molto. Senza una parola, il monaco travestito fa cadere sulla tavola alcune monete d’argento, frutto della vendita al mercato di Edessa del libro dei salmi di David re. Signora Maria! grida il padrone, e lei appare col volto dipinto e l’abito logoro e scintillante delle prostitute. Abramo sente il cuore serrarglisi in una morsa, lei non lo riconosce più. Fino all’ultimo aveva sperato che il travestimento non fosse sufficiente, che sarebbe bastato uno sguardo. Non è così. Chiama a raccolta le sue virtù virili e monastiche: per non piangere, per non urlare. Comprende che manifestarsi subito provocherebbe una nuova fuga di lei. Sa che prima del disvelamento c’è un calvario da salire.

Maria lo conduce in per prima cosa alla tavola: scherza, gli abbraccia la testa, lo bacia, e mentre lo bacia sente provenire dal corpo di lui, inconfondibile, l’odore dell’astinenza.

[Ecco, l’odore. L’odore è un senso primario, elementare, e che proprio per questo ha molto a che fare con lo spirito. L’odore di santità, oppure l’odore di zolfo: è sempre il naso che scova più presto degli altri sensi il diavolo o l’angelo. Il paradossale lezzo della putrefazione che appena poche ore dopo la morte proviene dal corpo dello starec Zosima – nei Fratelli Karamazov – metterà in grave crisi perfino il fedelissimo Alësa. Ma, al di là dei riferimenti letterari, è un’esperienza che tutti facciamo. Il nostro odore dipende dall’anima (o, come direbbero alcuni pensando di essere aggiornati, dallo stato della mente): in certe occasioni dopo mezz’ora dalla doccia già puzziamo. Giorgio Gaber, il filosofo del Giambellino, lo descrive perfettamente nella sua canzone L’odore (…oddio l’odore è mio l’odore è mio…vuoi vedere che sono io? vuoi vedere che sono io?) Sì, sull’odore ci sarebbe da soffermarsi a lungo. Qui quel che serve dire è che Maria, che abbraccia e bacia lo zio senza riconoscerlo, d’un tratto viene trafitta dal caratteristico odore dell’astinenza. Quello non lo ha dimenticato. Gli studiosi del cervello dicono che gusto e olfatto sono sensi collegati all’ippocampo, che è una struttura a forma di banana che – assieme ad altre – forma il sistema limbico, ossia la base neurale delle emozioni e sede della memoria a lungo termine. Sarà benissimo. Fatto sta che – come la madeleine inzuppata nel tè richiama a Marcel tutto quello che sappiamo, l’odore fragrante di rinuncia del corpo del monaco richiama alla giovane prostituta un passato che altro che Combray.]

Allora Abramo vede il collo di cigno di Maria torcersi ancora, questa volta per nascondere il pianto. Ma esso è irrefrenabile ed escala in un grido. Povera me, grida, me sventurata, me così sola. Ma il padrone la rimprovera bonario, con quella bonarietà terribile mostrata sempre da chi ha potere. Signora Maria, cosa succede; sei qui da due anni e non ti sei mai lamentata, che ti accade? E lei: beata me se fossi morta tre anni fa. Abramo capisce che non è ancora pronta al disvelamento. Beata me se fossi morta. La memoria risvegliatasi in Maria è una memoria triste, è la nostalgia disperata di qualcosa di irrecuperabile. Allora il monaco insiste in questa incredibile, terribile, dolcissima sceneggiata, e quasi si unisce al rimprovero del padrone: siamo qui insieme, Maria, per divertirci: e tu vieni a parlarmi dei tuoi peccati? Lei lo guarda: non ha mai parlato dei suoi peccati. Abramo ordina di portare del vino, della carne arrostita e dei pimenti, mangia e beve di gusto – lui che non ricordava neppure di aver mai mangiato carne o bevuto altro che acqua.

Ora la ragazza è in piedi e lo attira in una camera separata, dove si stende sul giaciglio invitandolo a raggiungerla. Abramo si stende accanto a lei.

A questo punto il narratore originale della storia – che è il grande Efrem il Siro, innografo, musicista e santo – non ce la fa più a narrare, e bisogna lasciare spazio direttamente al suo lamento: O vera sapienza secondo Dio! O vera intelligenza spirituale! O vero discernimento della salvezza, da proclamare! Per cinquant’anni di astinenza non ha mai mangiato pane: adesso senza esitazione, per salvare un’anima perduta, ha mangiato carne. Il coro degli angeli santi si stupì delle cose che alacremente, senza incertezza alcuna, mangiò e bevve per strappare un’anima impaludatasi nel fango (questa cosa degli intelletti incorporei che si meravigliano della voracità è abbastanza gustosa). Venite, ammiriamo questa semplicità, venite, proviamo timore per questo capovolgimento: in che modo, cioè, quest’uomo perfetto e sapiente, pieno di discernimento e prudente, si è fatto idiota e incapace di discernere, per trar fuori dalla bocca del leone un’anima inghiottita e sciogliere dalle catene e dal carcere tenebroso un’anima prigioniera e vinta. Come chiamarti, che nome darti, o perfettissimo atleta di Cristo, davvero non lo so (e io immagino questo antico scrittore che scuote la testa, a metà fra l’ammirato e il preoccupato, dinanzi a tante pazzie). Ti potrei definire continente o incontinente? Sapiente o insipiente? Pieno di discernimento o privo di discernimento? Durante i cinquant’anni della tua vita di conversione ti sei coricato su una piccola stuoia: e come ora sali con fermezza su un letto di tal genere? Ma hai fatto tutte queste cose a lode e gloria di Cristo, sia intraprendendo un lunghissimo viaggio attraverso gli ostelli, sia mangiando carne e bevendo vino, sia recandoti in un postribolo. Noi invece, se ogni tanto vogliamo dire al prossimo una parola utile, valutiamo tutte le cose in maniera inopportuna.

Hai ragione, Efrem. Abramo si è fatto idiota e temerario per avvicinarsi più possibile a lei che amava e voleva salvare. Noi valutiamo le cose, pensiamo al da farsi, e siamo più idioti di lui. Nei vagoni della metropolitana la signora borghese scruta attentamente il mendicante dallo sguardo ambiguo e si domanda, stringendo le dita adunche sulla monetina da un euro con l’uomo vitruviano sul dorso, che cosa ne farebbe quello se glielo desse. Certo non si comprerebbe il pane. Forse se lo berrebbe. Forse si drogherebbe. Forse c’è un racket dell’accattonaggio. Meglio non darlo, meglio fare una donazione natalizia alla Caritas. Dimenticando che – come scrive Bernanos - un ventre de misérable a plus besoin d’illusion que de pain.

Così come era abituata a fare con i clienti, Maria toglie all’uomo i calzari. Abramo la stringe a sé, come volesse baciarla. Figlia mia Maria, non mi riconosci? Che ti è successo, figlia mia, chi ti ha uccisa? Io avrei preso su di me qualunque tuo peccato. Perché mi hai sprofondato in questa orribile tristezza? Chi è senza peccato, poi, se non Dio solo? Maria è come di pietra. Solo, le tremano le mani, piccole e bianche, e lui gliele prende nelle sue forti e ruvide, come con quella bimba di ventidue anni prima. Non mi parli, figlia mia Maria, non mi parli? Sopra di me sia il tuo peccato, io renderò conto a Dio di te nel giorno del giudizio. Non disperare, Maria: se anche i tuoi peccati fossero come montagne, la sua misericordia supera ogni cosa.

Segue un gran pianto. Uno di quei pianti che durano tutta una notte. Perfino il padrone dell’alloggio ne è toccato, sa che Maria è perduta, eppure chiude la porta a tutti e dice alle ragazze di fare silenzio. Maria piange e piange, e dice ogni tanto Cosa potrò darti, o Dio, in cambio di tutto questo.

Ora Maria è tornata nella sua cella. Più che cantare i salmi di David re, piange e parla a Dio con l’effusione del suo cuore. Quando all’eremo giunge qualcuno, lei si prostra confessando ad alta voce il proprio passato, in pace e in modestia lo confessa. E c’è chi – grazie all’incontro con lei - si scopre guarito dai mali del corpo, chi sollevato dai pesi del cuore.

E termina Efrem il siro, Efrem il diacono: Mi stupisco di me stesso, di come ogni giorno cado e di come ogni giorno faccio penitenza; in certi momenti edifico e in altri momenti distruggo ciò che ho costruito. La sera dico: Domani mi pento; venuta la mattina trascorro la giornata nell’orgoglio. Di nuovo la sera dico: Di notte veglierò e con le lacrime supplicherò il Signore perché perdoni i miei peccati; quando poi viene la notte, invece, vengo preso dal sonno. Abbi misericordia di me, o Dio, tu che solo sei senza peccato, nessun altro conosco né in altri credo.


Perché non sarà la coerenza a salvarci: ma quel grandioso ‘nonostante tutto’ che regge i cuori dei santi, e che fa loro dire che, nonostante il peccato, essi mai e poi mai cesseranno di supplicare che Tu, o Tu, dia loro la grande misericordia.

lunedì 1 maggio 2017

Quoniam dilexerunt multum. Seconda strana coppia: Pelagia e Nonno

Nonno: il nome in greco vuol dire puro, santo, venerabile. Nonno fa onore al suo nome anche adesso, sotto il portico bianco della basilica che lo protegge dal sole di Antiochia: è figura veramente venerabile. Gli hanno preparato un sedile un po’ più alto degli altri che sono con lui, un piccolo gruppo di vescovi e presbiteri locali riunitisi al fine di discutere di alcuni affari ecclesiastici. Il giovane arcidiacono si prende cura di lui con ammirazione e devozione, lui però sembra indifferente, ha il cranio calvo e lucido, la barba lunga e candida, il mento poggiato sul petto coperto da un logoro omoforion bianco a grandi croci nere. Socchiude gli occhi azzurrissimi, circondati da piegoline della pelle come raggi di un ostensorio. E’ stanco. Sogna il suo deserto, da cui l’obbedienza l’ha strappato per convocarlo in città e ordinarlo episcopo e primate. Sogna la sua grotta, le sue notti trascorse in piedi guardando l’oriente, le sere in cui passava ogni tanto qualche confratello, e si benedivano e abbracciavano reciprocamente, ma poi subito si lasciavano e ritornavano alla gioiosa solitudine d’amore. Antiochia ribolle di calore malsano – lui sogna il vento secco e infuocato fra le rocce, i vescovi parlano e parlano – lui sogna il belato della sua capretta. L’arcidiacono lo guarda, intenerito e preoccupato: conosce i termini delle questioni proposte, e vi risponde come può e sa, facendo scudo al raccoglimento o alla vaghezza del vecchio vescovo.

Ora però l’arcidiacono sembra distratto. C’è movimento nella piazza, i bambini corrono qua e là, un cane abbaia, ci sono grida di uomini e tintinnii nell’aria. Il chierico è in piedi, afferra per un braccio un ragazzotto che cerca un posto più alto per vedere. Che succede, gli chiede. Voglio vederla, risponde. Chi. Pelagia la danzatrice, il sogno di Antiochia. Pelagia la prostituta, vuoi dire. Quel che è: in giro si dice che della sua bellezza non si potrebbero saziare gli uomini di tutto il mondo. Vattene ragazzo, e lo allontana con una spinta. Eccola infatti, ecco la sua portantina, ecco i suoi servitori che la precedono e la seguono, ecco il profumo acuto che si mescola con l’aria densa. La lettiga ha le cortine aperte, si vede il suo volto impastato di colori, si vedono i suoi occhi resi cupi dall’indaco che li circonda, si vedono le sue braccia nude istoriate di henné. I vescovi ora si sono alzati, si voltano dalla parte opposta, tuffano gli occhi nell’incavo dei gomiti per non vedere. L’arcidiacono va verso la portantina, grida a quella gente di andarsene, di tenersi lontano dai padri santi, i servi lo sfottono, Pelagia non sembra accorgersi di nulla. Più lentamente di quel che il chierico avrebbe voluto, il piccolo corteo scompare, la gente si disperde, i suoni si attutiscono, i profumi svaniscono. Si volta verso il portico ed ecco cosa vede.

Vede i vescovi nuovamente seduti ai loro posti, le facce rosse, le fronti corrugate, gli zigomi tesi. In mezzo a loro, Nonno è in piedi, alto e dritto, ha fra le mani l’evangelario, e il suo volto è pieno di luce e privo di stanchezza, gli occhi aperti fissi sul punto in cui la lettiga è scomparsa. L’arcidiacono si avvicina: Padre, gli dice, e non aggiunge altro. Non ti rallegra, gli dice piano piano il vescovo, poi, con voce più alta, fratelli, non vi rallegra una così grande bellezza? Tutti tacciono, con le parole e con gli sguardi. Padre, dice l’arcidiacono, e non aggiunge altro. E’ seduto ora, il venerabile, e piange: le sue lacrime cadono sul libro santo, e ne bagnano le pagine. Alza la testa, è tornato stanco e curvo, ma la voce è ancora forte: io mi sono rallegrato molto, e molto mi è piaciuta la sua bellezza, e vi dico: Dio la metterà al primo posto, e la stabilirà davanti al suo tremendo tribunale, per giudicare noi e il nostro episcopato. Padre, dice l’arcidiacono, padre, e non aggiunge altro.

Ad aggiungere qualcosa è un giovane vescovo dai capelli neri e dallo sguardo in fiamme. Padre, cosa dici! Cosa ha a che fare la bellezza dello spirito con quel fantoccio impiastricciato per attirare i suoi clienti! Risponde a lui il primate: con quanta cura, fratello mio, quella donna si adorna per il piacere dei suoi amanti, che oggi sono e domani non sono più; noi, invece, non soltanto non orniamo la nostra anima, ma neppure laviamo il nostro cuore per presentarci davanti all’Amore stesso.


C’è il caso, e c’è la Grazia: a volte danzano insieme. Sarà che forse l’indifferenza di Pelagia non era proprio tale, e che anche lei è stata colpita da quanto è accaduto davanti a quel portico. Sarà che Nonno, con la sua voce di miele, incantava la gente parlando dalla sua cattedra. Sarà che niente di tutto questo, e che ogni evento fu propiziato dagli angeli. Ma ora Pelagia, che mai era entrata in una chiesa, che mai era stata neppure sfiorata dall’inquietudine della coscienza, ora Pelagia – circondata dai suoi servi che gli fanno scudo dagli sguardi di desiderio, dagli sguardi di riprovazione, e dagli sguardi, la maggioranza, che sono insieme di desiderio e di riprovazione – è in piedi nella basilica dove Nonno sta predicando. Come sempre, Pelagia si accorge di ciò che prova perché il corpo glielo dice: un po’ stupefatta sente le lacrime scendergli sulle guance. Le lacrime, aratri ardenti, aprono un solco sulla resistente crosta del trucco.

Pelagia è ora davanti a Nonno, si è inginocchiata davanti al suo sguardo calmo e azzurro. Padre. gli dice, imita il tuo Maestro e riversa su di me la grande misericordia; Padre, fa di me una cristiana. Come ti chiami, sorella mia, dice il vescovo. Pelagia, gli risponde lei, Pelagia che vuol dire mare, ed ecco i miei peccati sono un mare, e i miei orrori un abisso. L’arcidiacono – che ha visto e udito - guarda il vescovo. Padre, gli dice, e non aggiunge altro.

Il vescovo vede la donna ai suoi piedi. Il monaco del deserto conosce le belve, e sa bene la loro imprevedibilità. A volte un brontolio sommesso annuncia il pericolo più di un tonate ruggito. Ma non ha mai incontrato una fiera più pericolosa di lei. Come sempre succede quando soffia il vento scompigliante dello Spirito che non si sa dove viene e dove va, ci si rifugia nella capanna della Legge. E, quando sente l’arcidiacono dire a Pelagia che i santi canoni impediscono di ammettere al battesimo una prostituta se non dopo molto tempo passato sotto la guida di persone esperte che garantiranno che essa non torni ai suoi peccati, chiude gli occhi e annuisce. Pelagia, che non ha mai cessato di piangere, con le lacrime bagna i piedi del vescovo e coi capelli li asciuga, facendo rivivere il suo prototipo evangelico.

Adesso però si è alzata, e guarda Nonno con uno sguardo dardeggiante, implacabile. Padre, dice, renderai conto a Dio della mia anima; io ricadrò nel mio peccato: ma sarai tu a portarne la colpa; non avrai parte con Dio e con i santi, sarai ritenuto da lui un adoratore di idoli, se tu adesso non mi salverai dalle mie iniquità, se non mi farai sposa di Cristo e non mi offrirai a lui. Il vescovo comprende chi parla in lei, e prontamente, monasticamente, obbedisce. Si prepari il sacro Fonte, ordina. Padre, dice l’arcidiacono, e non aggiunge altro. Sorella, conclude Nonno, ti lascerò il nome del mare.

Pelagia, battezzata e rivestita della veste bianca, rimane per otto giorni distesa sulla pietra della basilica, i piedi nudi, le braccia in croce. Ha dato gli ordini ai servitori di disfarsi di tutte le sue ricchezze donandole ai poveri. Poi depone l’abito candido dei neofiti, indossa una logora veste color del deserto, e scompare.

Anni trascorrono, e il vescovo è oramai vecchissimo,. Un giorno riceve dei monaci di un cenobio molto remoto: ha sempre piacere di incontrarli e di sentire il profumo della vita e dell’amore da cui amore e vita lo hanno costretto a allontanarsi. I monaci gli parlano di un santo eremita, un recluso, l’abitante di una grotta strapiombante su una falesia; loro gli portavano del cibo, pochissimo, e lui, forse nella notte scendeva, o volava chissà, e lo prendeva. Ma da tempo il cibo non viene più toccato e si suppone che l’anacoreta sia morto. Pelagio, aggiungono, era il suo nome. Il volto di Nonno si apre in un sorriso di comprensione. Manderò dei chierici a raccogliere le spoglie del recluso, dice, perché desidero che siano venerate in questa chiesa. Padre, dice l’arcidiacono. Ma questa volta aggiunge: manda me.


Vanno i chierici con l’arcidiacono, che è l’unico a non stupirsi quando trovano il corpo di una donna, di Pelagia, la santa prostituta, ritiratasi nell’alcova di pietra per deliziare con la sua bellezza l’Amore divino. 

Se qualcuno oggi sale sul tetto del Duomo di Milano, e perde il suo sguardo nel fantastico popolo di figure in quel vistoso giardino marmoreo, come ebbe a definirlo Hermann Hesse, ossia alle statue collocate solo per l'occhio di Dio e degli angeli su vertiginose guglie di marmo, potrebbe incontrare - fra le milleottocento - quella di Pelagia la prostituta. Ma non è facile, perché ama nascondersi

sabato 29 aprile 2017

Quoniam dilexerunt multum. Prima strana coppia: Maria e Zosima

Zosima è monaco, monaco perfetto, primo della classe dello spirito, stacanovista dell’ascesi, valedictorian del monastero; nasce santo e poi non pago lo diventa anche; non commette mai peccati, osserva acribicamente ogni minima regola, e dove non ci sono regole ce ne mette lui di rigidissime; anno dopo anno e sono già cinquantatre, giorno dopo giorno e sono già diciannovemila, ora dopo ora e sono già cinquecentomila, istante dopo istante e sono già infiniti, medita la Scrittura, apre la bocca e il cuore a una salmodia ininterrotta, chiude le mani e la mente nell’incessante lavoro dell’intreccio dei canestri; quando dorme, e dorme pochissimo, sogna di salmodiare, sogna di lavorare.

Zosima è monaco, monaco perfetto ma non contento, possibile che sia tutto qui, tutto in questa osservanza, tutto in questa perfezione, possibile che non ci sia altro da imparare, possibile non ci sia oltre dove andare. Lascia il suo monastero per cercare nuove sfide alla sua volontà ascetica, raggiunge un cenobio presso il fiume Giordano, e ivi trova tanti altri se stesso; qui sono tutti perfetti, sempre a salmodiare, sempre a lavorare, pochissime parole e mai una oziosa, pochissimi pensieri e mai uno al denaro o all’amore ma solo al cielo; hanno abbandonato la vita e i suoi dolori, hanno scelto la morte al mondo, i loro corpi assottigliati dal digiuno sono la pura occasione perché l’anima si trattenga a fare vita quasi angelica prima di volar via in un battito impercettibile d’ali.

Zosima è monaco, monaco perfetto ma non contento, ora fra altri monaci perfetti ma che siano contenti o meno non lo si sa. Arriva la Quaresima e ognuno di loro si fa un fagotto di poche cose e pochissimo cibo e si inoltra solitario nel deserto, sempre più al largo nell’oceano rossastro di pietra e sabbia, fino a che anche la minima riva di una relazione orizzontale sia scomparsa e possano essere finalmente soli col Solo. Zosima va anche lui, e il fagotto è più leggero di quello degli altri, ma il cuore molto pesante per quella strana, bizzarra scontentezza. Zosima va e sente la stanchezza, perché le cinquecentomila ore perfette gli gravano sulle spalle come piombo.

Zosima un giorno si sveglia dopo aver dormito qualche ora con le rocce come cuscino a somiglianza del patriarca Giacobbe, ma senza fare alcun sogno; si alza e pensa di stare sognando adesso, invece, perché gli sembra di vedere lontano muoversi l’ombra di un corpo umano: sottilissima, velocissima, leggerissima; Zosima mette le mani a tettuccio sugli occhi, e vede che è una donna, una donna completamente nuda, il corpo annerito dall’arsura solare, i capelli candidi, e fugge via come il vento.

Zosima adesso corre, corre come quando era giovane, come se di ore ne avesse solo centomila, e neanche il peso sul cuore lo rallenta, Zosima corre corre corre e chiede e supplica la donna di fermarsi e di benedirlo, e ogni tanto dà un’occhiata al cuore ed ecco è pieno di una dolcezza inspiegabile e mai provata, e poi non ce la fa più, lei è così più veloce, e cade a terra, e piange, e grida basta, ti prego, benedicimi.

Maria, così si chiama la donna, si ferma, si gira verso Zosima il monaco, e si prostra davanti a lui, chiedendo a propria volta di essere benedetta. Rimangono così per molte ore, che per Zosima si aggiungono alle cinquecentomila ma hanno proprio un altro sapore. Due figurette distese e allungate nel mezzo del niente, nel mezzo del sole e del vento e della pietra. Vento e sole passano su di loro, la pietra invece rimane ferma, ed ecco che è notte. Si leva nel cielo una luna crescente, preludio del plenilunio pasquale: intorno tutto è nitidissimo, con i margini ritagliati su uno sfondo d’ombra. Zosima si inginocchia, Zosima comincia a salmodiare, lui fa solo questo da sempre, però guarda lei, miodio come è leggera, sembra che possa levarsi da terra in ogni istante. Ecco: si è levata: ora danza nel cielo. Zosima pensa ora che qualcuno di molto forte e di molto malvagio lo stia ingannando, non è forse il deserto patria di spettri e di demoni? Chiude gli occhi, mormora un esorcismo, li riapre. Ora la donna è più vicina, non la vede ma ne sente la voce. Davanti a lui tutto è pieno di stelle.

Maria dice: sono una donna. Sono solo una donna: ma battezzata. Sono peccatrice: ma battezzata. Sono brace, sono cenere, sono carne bruciata: ma battezzata. Sono incapace anche di un solo pensiero spirituale: eppure, sono battezzata. Zosima tace, immobile, genuflesso: è solo ascolto. Maria continua: nacqui in Egitto. A dodici anni sono fuggita da casa con una carovana di mercanti che passava. Mi presero con loro, e presero la mia verginità, lasciandomi ad Alessandria. Da allora vivo nell’incendio dei sensi. Per diciassette anni passai da un abbraccio a un altro, da un giaciglio all’altro, dal ricco al povero, dal soldato al mercante al prete. Mi volevano pagare: rifiutavo. Mi facevano regali: li sdegnavo. Mi appagava il piacere di quegli incontri, e insieme non mi appagava. Stretta ad un uomo, pensavo già al prossimo. Un giorno, al porto, vidi ricchi pellegrini imbarcarsi su una nave, cristiani che andavano a Gerusalemme. In cerca di occasioni di piacere, volli andare con loro; non avevo denaro ma il capitano sapeva che avevo modo di pagarlo anche senza. Gerusalemme mi piaceva: prendere al laccio del mio fascino i cuori dei pellegrini e al laccio delle mie braccia e delle mie gambe i loro corpi mi dava una strana soddisfazione, godevo a stare fra il loro desiderio di essere santi e la loro incapacità di esserlo. Però accadde che un mattino – il sole non era ancora sorto – vidi una folla di loro, donne e uomini, affrettarsi alla chiesa dell’Anastasis con la faccia contenta. Li seguii, senza saper perché, ma questa volta non per le mie voglie. Entrarono, e volli seguirli ancora. Fu allora che successe. Io sono stata toccata da mille uomini, so cosa sono i loro abbracci, so cosa sono le loro botte, e so quando non si può dire se siano abbracci o botte: ma questo tocco io non l’avevo mai provato. Era il tocco di un maschio, ma nessun maschio toccava così. Era un muro su cui sbattevo e allo stesso tempo un blocco interiore. Mi respingeva, ed era un attrarmi. Mi lasciava i lividi sul corpo, ma nessuna carezza mi ha mai onorato così. Sta di fatto che io – nella chiesa – non potevo entrare, perché una misteriosa forza me lo impediva. Una immensa Potenza dominava il luogo. Vidi sull’architrave della porta un’icona della Madre di Dio, due occhi enormi e scuri che scintillavano su uno sfondo d’oro. Io, la lussuriosa, osai guardare la Vergine, io, Maria, guardai Maria. Non so dire quanto durò, quando si piange il tempo è come se si curvasse, ma, quando ritornai in me, la medesima forza che prima mi sbarrava l’ingesso del tempio mi ci trascinò dentro col medesimo impeto: mi ritrovai in un istante nel Santo dei Santi, con la mia fronte poggiata sulla pietra del sepolcro, i miei capelli sparsi sulla pietra del sepolcro, le mie lacrime cadevano sulla pietra del sepolcro. Poi, la Forza mi trasse fuori e mi scagliò verso il deserto come si scocca una freccia. Uscii dalla porta che dà sulla strada per Gerico. Io correvo e mi svestivo dei miei abiti colorati eppure un altro correva e mi svestiva. Non so come attraversai il fiume, ricordo solo che mi trovai dall’altra parte. Saranno quarant’anni adesso. Abba.

Maria ora tace, per Zosima è come lo svegliarsi da un sogno. Guarda la donna, il suo corpo nudo e castissimo, modellato dal Sommo scultore con lo scalpello dell’astinenza. L’esperto di ogni strategia ascetica intuisce davanti a lei la possibilità di acquisirne una ancora. Le chiede: Madre, dimmi una parola. Che è il modo usato fra i monaci del deserto per dire: Dammi un consiglio spirituale. Maria non dice nulla, continua a guardarlo con occhi calmi. Zosima insiste: Madre, vedo che sei stata vittoriosa su tutti i demòni. Ti prego, insegnami come.

Maria risponde subito: No, Abba, io non ho vinto niente. La carne che tu vedi brucia ancora di tutte le passioni di prima. E’ come un tizzone imbiancato dal fuoco, basta che ci soffi sopra appena e diventa tutto rosso. Un vento, poi, lo farebbe fiammeggiare. No, Abba, non ho vinto niente. L’altra Maria, però, la santa Vergine, è sempre stata con me, mia compagna di romitaggio. Lei mi dona il pianto, e le lacrime bagnano quei fuochi e li smorzano.

Amma, ma reciterai i salmi – dice adesso Zosima, e torna per un attimo il primo della classe – Amma, ma leggerai la Scrittura! Salmi, risponde calma Maria, non so di cosa parli, padre mio. Ma dopo tanti anni canto al mio Amato con le voci degli uccelli, col bramito delle antilopi, col gracchiare dei corvi, col ronzare degli insetti, col ruggire delle fiere: così io chiedo a Lui che ogni giorno possa ricevere la grande misericordia.

Fanno silenzio. Per quelle due anime la parola è uno sforzo, un salto, e il silenzio il luogo dove subito si ricade e si riposa. Maria si alza, è esile come un soffio di brezza. e fa per allontarsi. Zosima la chiama: Madre, vieni con me, perché fra pochi giorni è Pasqua, madre, vieni con me al cenobio, perché fra pochi giorni è Pasqua, madre, riceverai i Santi e Terribili Misteri, il Corpo e il Sangue del Signore, perché fra pochi giorni è Pasqua. Maria risponde: il mio Diletto mi ha chiamato al deserto, come potrei venire da altri uomini, qui Lui dimora in me e io in Lui, l’amata sta dove l’Amato vuole; ma se tu, Abba, vuoi aver la grazia di portarmi il Divino Calice, tra un anno, a Pasqua, sotto questa stessa luna, io sarò qui a riceverlo e Lui ti ricompenserà grandemente. Zosima si volta, fa per dir qualcosa ma lei è ormai lontanissima, una macchia bruna sulle rocce rosse.

Cinquecentomila ore Zosima ha passato in monastero, ma le poche migliaia di questo anno sono lunghe mille ciascuna. Per la prima volta egli attende qualcosa che non è l’apocalisse, o la propria morte. Attende una donna. Primavera estate autunno inverno e ancora primavera, e dodici lune nel cielo. Zosima chiede all’Igumeno la santa benedizione e si dirige nel deserto stringendo al petto i Santi Doni. Ecco, è sulla riva del Giordano. Lei non c’è – anche gli amori spirituali obbediscono a regole ferree – lei non c’è. Davanti al ritardo di lei crolla come un castello di carte tutta la struttura ascetica costruita pazientemente dal monaco: come in preda alle passioni piange, supplica, e intanto guarda guarda guarda. Si chiede, se verrà, come attraverserà il fiume. Ora lei arriva, e il Giordano non lo vede nemmeno, il suo corpo leggerissimo lo attraversa camminando sulle acque. Nuda, le braccia incrociate sul petto, riceve dalla mano del monaco i santi Misteri, poi si volta e fa per andarsene. Zosima fa qualche tentativo per trattenerla almeno un poco, prova a seguirla, la prega di portare con sé un po’ di cibo. Tutto inutile: non è questione di durata, ma di intensità, nei grandi amori. Maria gli dice soltanto di pregare per lei e di ricordarsi della sua miseria. Gli chiede di ritornare per la Pasqua successiva, e se ne va senza voltarsi. Zosima si ferma, realizzando l’impossibilità di trattenere quella sostanza sottilissima di cui lei è fatta.




Primavera estate autunno inverno e ancora primavera, e dodici lune nel cielo, e Zosima è nel deserto, stessa trepidazione, stessa attesa. Zosima sente il rumore di sassi che si muovono sulle rocce, e i suoi occhi allenati scorgono un branco di capre nubiane discendere velocemente da un costone, un po’ a destra, oltre il Giordano. Due aquile volano ad ampi cerchi nel cielo. Sembra che da sotto ogni pietra un irace si sporga, e proceda saltellando e emettendo piccole grida nella stessa direzione. Ci sono ronzii di insetti nell’aria. E’ come se il deserto fosse diventato improvvisamente vivo. Zosima si cala sulla sponda del fiume aggrappandosi ai ciuffi di ginestra polverosi, e ne risale per un breve tratto il corso. D’un tratto vede, sull’altra riva, un gigantesco leone maschio avanzare lentamente, la criniera appena mossa dal vento; anche il leone lo vede, si ferma, lo guarda per istanti infiniti con i suoi occhi gialli, emettendo un brontolio sonoro e costante: poi riprende la sua strada. I piccoli stambecchi gli danzano davanti, ma il felino non se ne cura, procede quasi con pacatezza, e poi scompare dietro uno spuntone roccioso. Zosima, con i peli del corpo dritti dal terrore, si accorge che in quel punto il fiume è guadabile. Sospira, dà addio alla sua vita terrena (non che gliene avesse mai importato molto), e attraversa il Giordano per seguire il leone. Lo trova disteso, assorto, vigile, accanto al corpo morto di Maria, che è dorato e leggero come una foglia secca.

Quoniam dilexerunt multum: tre strane coppie dell'oriente vicino, più una dell'oriente lontano

Sume citharam, circui civitatem, meretrix oblivioni tradita; bene cane, frequenta canticum, ut memoria tui sit
Prendi la cetra, gira per la città, prostituta consegnata all’oblio; suona con abilità, moltiplica i canti, perché qualcuno si ricordi di te
Isaia 23, 16

Fasciculus murrae dilectus meus mihi: inter ubera mea commorabitur. Dilectus meus misit manum suam per foramen, et venter meus intremuit ad tactum eius. Surrexi ut aperirem dilecto meo: manus meae stillaverunt murra, digiti mei pleni murra probatissima pessulum ostii.
Un sacchetto di mirra l’amato mio per me: tra i miei seni passa la notte. Il mio amato ha messo la mano nella fessura e il mio ventre fremette al suo tocco. Mi sono alzata per aprire al mio amato, le mie mani stillavano mirra, le mie dita mirra purissima sulla maniglia del chiavistello.
Cantico dei Cantici 1,12; 5,4-5)

Gesù parla con severità, nel Vangelo, di denaro e di sesso. Più severamente e ampiamente di denaro che di sesso: e questo potrebbe sorprendere, visto che poi la Chiesa è stata ben più rigida e occhiuta sul secondo. In questi ambiti l’insegnamento di Gesù è rigorosissimo, e niente affatto easy going. Proprio in un solo capitolo di Matteo (il diciannovesimo), prima i farisei gli domandano se sia lecito ripudiare la propria moglie: e lui, appellandosi a ciò che accadeva agli albori della creazione, risponde di no, e che farlo equivale all’adulterio, e i suoi discepoli allora scuotono la testa e dicono che forse è meglio non sposarsi, e lui replica col misterioso detto dei castrati per natura, di quelli resi così dagli uomini, e di quelli che si sono fatti tali per il Regno; pochi versetti dopo incontra il cosiddetto giovane ricco, che vorrebbe seguirlo ma è trattenuto dai molti beni, il giovane ricco, l’unico essere umano di cui viene detto che Gesù lo ama di un amore personale e diretto, il giovane ricco che se ne va via come giovane triste, e Gesù se ne esce con la celebre metafora del cammello e della cruna dell’ago, e i suoi discepoli scuotono ancora la testa e si domandano chi mai potrà salvarsi, e Gesù risponde che ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio. Se però si cerca nel Vangelo come il Figlio di Dio razzolava, oltre che come predicava, vediamo che Egli amava frequentare gente non tanto perbene sia rispetto al denaro (prende un esattore delle tasse dell’occupante romano fra i suoi, va in casa di Zaccheo il truffatore, loda in parabola l’amministratore disonesto, sembra esaltare lo spreco talvolta a scapito della carità verso i poveri), che rispetto al sesso. Anche le donne che Gesù predilige non sono esattamente delle personcine perbene: l'adultera che sta per essere lapidata, e per la quale Egli compie il misteriosissimo gesto di scrivere sulla sabbia chissà cosa; la samaritana al pozzo, che aveva avuto cinque mariti e il cui attuale uomo non è il marito. Ce ne sono poi altre tre, che la tradizione cristiana riassume nella figura di Maria di Magdala, la peccatrice guarita e perdonata, che sarà presente sotto la croce e che danzerà con Lui, nel giardino della risurrezione, la danza meravigliosa del nolimetangere: una che all'inizio della vita pubblica di Gesù, mentre si nasconde da chi la giudica e la condanna, gli bagna i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli, ingenerando una diffidenza nel suo ospite Simone, la seconda che nell'imminenza della fine gli cosparge il capo con unguento prezioso, provocando l'indignazione di Giuda Iscariota, la terza - sorprendentemente - la Maria sorella di Marta e di Lazzaro, quella che siede ai piedi del Maestro mentre l'altra lavora e serve, e che neanche il verificarsi dell'episodio più scenografico del Vangelo - quello della rianimazione del fratello avvolto da bende è già in stato di putrefazione - riuscirà a far uscire di casa. Quindi la Chiesa ha indentificato in una prostituta, in una peccatrice, l'archetipo della vita contemplativa. E' una cosa che - come si dice - dà da pensare. La vita contemplativa cristiana non è fatta per chi ha estinto in sé il desiderio, ma per chi ne avvampa. Il desiderio dovrà essere liberato dal Cristo, ma il desiderio liberato non coincide con la liberazione dal desiderio.



Le prime tre coppie di cui sto per raccontare dobbiamo pensarle nel IV secolo, in Egitto, Siria e Palestina: è l'ambito storico in cui sono state elaborate le celebri storie dei cosiddetti padri del deserto. Il cristianesimo è appena diventato 'lecito' nei confini dell'impero, con la conseguenza che non vi sono più martiri, e che la terra non è più irrigata dal loro sangue nutriente e generativo. Nasce la necessità di una sostituzione, e questa è la vita monastica. Si va nel deserto alla ricerca di un martirio incruento. Questi uomini, veri giganti dello spirito, sono degli atleti della mistica, e proprio la loro athlesis li espone al serio rischio di non aver più bisogno di Cristo, di credere di potersi autoperfezionare e autorealizzare. E allora ogni tanto giunge qualche donna a ricordare loro che non c'è compimento, spiritualità, mistica, senza la misericordia di Gesù. Pur raggiungendo talvolta livelli straordinari di ascesi, rimane chiarissima nelle donne del deserto la grazia femminile del loro prototipo, colei che siede ai piedi del Maestro ed è tutta nel suo sguardo e nelle sue parole. Non dobbiamo dimenticare tuttavia che non est masculus neque femina (Gal 3, 28) e che, ad alcuni monaci venuti a visitarla, amma Sarra – una di queste donne – disse: Io sono un uomo, voi siete donne. Risposta strana, forse immediatamente irritante, ma se la si coglie in un epoca in cui la parola uomo alludeva a certe virtù quali la forza, l’autonomia, il coraggio, l’energia, e la parola donna a limiti quali la debolezza, la dipendenza, il timore, si capisce che si tratta di una risposta femminista: per madre Sarra ciò che fa di una persona un uomo (nel senso di essere umano detentore di quelle virtù) o una donna (recante il segno di quei limiti) non è certamente il sesso biologico. È da notare che le vite di queste sante prostitute sono state composte e lette in ambito monastico maschile: servivano a ricordare a coloro che potevano pensarsi perfetti nelle loro grotte e nei loro cenobi che senza quello sguardo non c'è ascesi che valga.

sabato 25 marzo 2017

In Annunciatione Beatae Mariae Virginis (con più di sette motivi per non fidanzarsi con gli dei)

Bisognerebbe guardarci bene – noi mortali – dall’interagire con gli dei e con le dee, e soprattutto dall’avere storie d’amore con loro.

Ci sono due signori colti, un po’ anziani, in visita alla Galleria Borghese di Roma. Sono fermi davanti al gruppo marmoreo di Gian Lorenzo Bernini, dove Apollo cerca di ghermire Dafne, ninfa bellissima e figlia del dio-fiume, Fluß-Gott des Bluts, dove lei cerca di sottrarsi, e dove il padre-fiume la trasforma in albero d’alloro, ed ecco ha già un piede radice e le palme foglie. I due signori guardano la statua in silenzio. Poi passano all’altro capolavoro del Bernini, dove Proserpina figlia di Giove e della dea delle messi, mentre raccoglie fiori, viene afferrata dal terribile Plutone signore degli Inferi, e dove lei è come una lepre inseguita dal cupo cacciatore e dal tricipite cane Cerbero, e dove lui l’ha già presa, e lei è già sua, e sotto le dita del rapitore cede la carne morbida della sua coscia, e tutto questo è candido marmo durissimo morbidissimo. Uno dei due visitatori, con l’accento francese, dice all’altro: “Due capolavori dell’arte occidentale. E – in effetti – rappresentano due stupri…”

L’altro è uno psicoanalista, e ricorda allora che Freud - in qualche punto della sua sterminata opera - sostiene che una delle funzioni delle rappresentazioni religiose consiste nel poter attribuire alle figure divine, notoriamente al di sopra del bene e del male, degli atti che noi vorremmo compiere, ma non possiamo (perché c’è il super Io e l’etica e le relazioni e la legge e la polizia e la rispettabilità e insomma queste cose non si fanno). In realtà , io vorrei prendere la giovane vicina di casa che vedo uscire al mattino con i capelli color miele e i pantaloni strappati sul ginocchio a mostrarne la forma perfetta rivestita di pelle dorata, vorrei trascinarla in cantina e possederla. Naturalmente non posso, non devo, e la parte più alta e nobile di me neppure vuole farlo. Ma il desiderio brado – in me - sogna. E il sogno assume la forma del vecchio Plutone che è preso di passione per la figlia di Demetra, e – con la potenza vigorosa e pre-morale tipica degli dei – la conduce nell’abisso dove vive e la fa sua.

Così fanno gli dei. D’altra parte non ce li vedi – gli Olimpi (ma neanche i più colorati e polimorfi cugini indiani) – corteggiare l’amata, mandarle i fiori, portarle i cioccolatini, sedersi sulla panchina del parco a guardare le stelle, leggerle delle poesie, essere da lei presentato alla famiglia, frequentare il corso per fidanzati della parrocchia, andare a scegliere la lista di nozze e le bomboniere di ceramica col cacciatore e il bracco, sposarsi in chiesa con l’organo che suona l’aria sulla quarta corda di Bach, ricevere i chicchi di riso in faccia, dopo la festa attraversare la soglia di casa con lei in braccio, poi i preliminari, e poi il sesso del sabato sera. Gli dèi quando toccano, toccano così, toccano forte (noi arriviamo fin qui, / questo è nostro, di toccarci così, più forte / ci gravano gli Dei. Ma è cosa degli Dei, scrive Rilke nella sua seconda elegia di Duino). Gli dei non hanno una psicologia, e quando desiderano il loro desiderio si trasforma in atto. A noi mortali il loro comportamento sembra violento, sprezzante, brutale, ma per loro, i celesti spensierati, non è che la normalità.

Arianna figlia di Minosse, re di Creta, aiuta Teseo a sconfiggere il Minotauro con la famosa vicenda del labirinto, si innamora di lui e con lui fugge verso Atene. Tuttavia commette l’errore di rivelare a Teseo l’intenzione di sposarlo. Credo che le dicerie che vorrebbero Teseo come figlio illegittimo di Poseidone dio degli abissi marini siano false, perché Teseo si comporta in questo frangente in un modo che più umano non si potrebbe. Fa sosta a Nasso, e mentre lei è addormentata, risale sulla nave e salpa via (da cui pare venga l’espressione ‘piantare in (N)asso’. Ridestatasi, Arianna piange tutte le sue lacrime e invoca la morte. Il mito ha diverse versioni e diversi finali, ognuno dei quali potrebbe essere esplorato con molto interesse. Hugo von Hoffmansthal – nel libretto per l’opera Ariadne auf Naxos sceglie il finale più celebre. Giunge Dioniso, la vede e la desidera, ma nel modo in cui un dio vede e desidera, e vuol portarla via.

Dice Arianna:
Lo so, così è laggiù dove mi guidi!
Chi là dimora, tutto presto scorda!
La parola finisce ed il respiro!
Là è il riposo un continuo riposo dal riposo –
nessuno là si consuma nel pianto, –
dimentichiamo ciò che ci affliggeva:
nulla conta di ciò che qui contava, lo so.

E Bacco soggiunge:
Se sono un dio, se un dio m’ha creato,
se le fiamme hanno ucciso mia madre,
quando tra fiamme mio padre le apparve
non mi ha toccato la magia di Circe,
perché sono immune, etere e balsamo
non sangue umano nelle vene mi scorre.
Ascoltami, creatura che ho davanti,
ascoltami, tu che vuoi morire:
le stelle eterne moriranno prima
che la morte ti strappi dal mio abbraccio!

Ai mortali che si innamorano delle dee non va certo meglio. C’è Artemide, la saettatrice, che, in una notte d’arsura in opaca silva Gargaphia, depone le vesti e si bagna nuda in un lago. E c’è il nobile Atteone anche lui a caccia nella selva oscura, con la sua muta di cani addestrati all’uccisione del cervo. C’è uno sguardo, soltanto uno sguardo, fra la dea e il mortale: ma è più che troppo. Egli vede ciò che è oltre la misura di ogni pensiero umano e perde il senno, o lo acquista. E lei, ilare, come un’adolescente timida e divertita, compie il gesto più innocuo che si possa immaginare: raccoglie un po’ d’acqua con la mano e gliela spruzza in volto. Come un gioco benedicente. Ma, sul versante umano, queste gocce assumono il significato di indignazione e di condanna del sacrilegio, ed ecco Atteone trasformarsi egli stesso in preda, in cervo, ed essere divorato dai suoi stessi cani.

C’è poi da notare che il sesso agli dèi piace moltissimo, lo fanno abbondantemente senza riguardo ai sentimenti, alle età, ai contesti, persino alle stesse forme e specie. Ma sembra che piaccia loro un sesso senza procreazione. Quando devono procreare, lo fanno in modo diverso. Atena esce armata di tutto punto dal cranio di Giove, Afrodite sorge dalla spuma del mare.

Anche il dio dei deserti, dei pastori e dei fuochi da campo, il dio che scelse Abramo, Isacco e Giacobbe, non era certo, almeno inizialmente, un tipo raccomandabile. Oltre a mostrare la consueta divina indifferenza verso la sorte umana, non aveva neppure la raffinatezza del club degli olimpi. Era sanguigno e scabro come la terra in cui si aggirava. Gli piaceva l’odore della carne arrostita, e non credo sia completamente escluso dagli studiosi che abbia domandato a qualcuno dei suoi primi devoti anche qualche bambino. Si dice anche che abbia avuto una moglie, Asherah, Grande Madre e Regina dei Cieli. Però, col tempo, è cambiato. Tutta la narrazione biblica è la storia del suo addomesticamento da parte degli uomini: lenta, lentissima, e non senza svolte e passi indietro. Grazie alla relazione con quei pastori, egli ha a poco a poco scoperto di essere lui stesso il D-o, l’Origine radicale, il Principio e il Destino di ogni cosa, il Reggitore dell’Universo. Poiché noblesse oblige, dovette rinunciare a alcuni suoi comportamenti non compatibili: smettere di essere un giovane e focoso capo militare alla conquista di Canaan e incamminarsi (forse con un poco di malinconia) verso la trascendenza assoluta. Ora: il Totaliter Aliter non poteva godere nello scannare il Gebuseo: quindi perse a poco a poco la primitiva fisionomia per assumere quella solenne e esangue dell’Antico dei Giorni, e alla fine si ritirò nel Qadosh ha-Qodashim, consegnandosi irreversibilmente all’immaterialità e all’irrappresentabilità (gli rimase tuttavia il gusto della carne arrostita che continuò a esigere gli fosse arsa davanti: non si può d’altronde pretendere tutto).

Irreversibilmente irrappresentabile? In un certo senso sì. Ma a forza di stare insieme agli uomini cominciò a voler loro bene. Si poneva un nuovo problema: a innamorarsi degli uomini (ovverosia delle donne) non era l’Adunatore di nembi o Lossia l’arciere o Poseidone signore dei mari, dei terremoti e dei cavalli. Ora il D-o degli dèi, l’al di là di tutto, l’oltre ogni forma, era lui ad amare gli uomini, a volerli salvare dalla morte (gli olimpi ne ridevano, perché non la capivano), a volerli far diventare simili a lui. Per far questo decise di diventare come loro. E fu incantato, lui D-o reggitore delle galassie e delle quattro interazioni fondamentali (elettromagnetica, gravitazionale ed nucleare forte e debole), da una vergine ebrea – avrà avuto sedici anni - che lo aveva servito nel Tempio fino al menarca, e poi era andata in sposa a un giusto in Israele. Ma, anziché piombare su di lei come un falco su una tortora, prese la forma bellissima dell’Arcangelo Forzadiddio, afferrò una verga da pellegrino (ingentilita poi dai pittori in un ramo gigliato) e andò da lei.

La tradizione ortodossa – che è più fiorita e immaginativa della latina, e si rifà ai racconti apocrifi – articola questo incontro in due differenti scene. La prima vicino a una fontana, dove Forzadiddio cominciò a sussurrarle di gioire, perché era benedetta: la vergine è spaventata, cerca e non trova chi le parla così, e corre in casa. Di questo sgomento non c’è traccia nell’iconografia tradizionale, e il dipinto che più ne rende ragione è la celebre Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto. Ma Forzadiddio la segue, le si inginocchia davanti umilmente, e le dice che avrebbe concepito per la sua parola. Dovrò io concepire per opera del Signore Iddio vivente, e partorire poi come ogni donna partorisce?. Lui, restando in ginocchio, la guarda e sorride: No, non così, Maria! Ti coprirà, infatti, con la sua ombra, la potenza del Signore. Perciò l'essere santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio dell'Altissimo. Gli imporrai il nome Gesù… Questa volta è la vergine a inchinarsi: Davanti a lui è la sua ancella. In me si compia la sua parola.

Forzadiddio la lascia in fretta, ora deve entrare nei sogni di Giuseppe il giusto. Nel grembo di Maria, Santo dei Santi non costruito da mano d’uomo, ma forgiato da D-o stesso, cova la felicità nuova dell’embrione del Teantropo.


Gli olimpi guardarono silenziosi il corteggiamento divino e il successivo concepimento. Eros, in particolare, ne fu molto stupito.


giovedì 9 marzo 2017

La Madonna di Medjugorje, san Giuseppe che dorme e altri postini

Che a Francesco non piacesse questa cosa delle apparizioni di Medjugorje, questo lo si sapeva benissimo. Il suo giudizio su di esse è sempre stato piuttosto sferzante, ai limiti del dileggio. Recentemente, in un’udienza concessa ai Superiori Generali maschili, è tornato a ironizzare sulla Madonna capufficio delle Poste che manda un messaggio al giorno. Curioso semmai è che, nel corso della medesima udienza, il Papa abbia raccontato come nella sua camera conservi una statuetta di san-Giuseppe-che-dorme (e che sogna, aggiungo io, soprattutto che sogna, Giuseppe è nomen/omen di gran sognatori), e come – quando è oppresso da qualche problema – lui scriva un biglietto e lo metta sotto tale statuetta, in modo da riposare tranquillo e senza angoscia. Chissà se - sotto qualche cappa, qualche lana monastica, qualche scapolare, qualche saio – qualcuno dei presenti si è reso conto di questa deliziosa flagrante contraddizione relativa al sistema postale (e ai postini) da e per l’Oltremondo.

Monsignor Ratko Peric, vescovo di Mostar (la diocesi che include Medjugorje) adesso riafferma la sua netta contrarietà rispetto a quanto sta avvenendo tra il brutto chiesone intonacato di bianco e il montarozzo sassoso di nome Podbrdo. Al netto delle ostilità che da tempo immemorabile vedono contrapposti clero diocesano e frati francescani – gelosi custodi della chiesa delle apparizioni – il vescovo così pensa dell’apparizione:
-              è una figura ambigua;
-              non parla mai per prima;
-              ride in maniera strana;
-              a certe domande scompare, poi ritorna;
-              obbedisce – pur controvoglia – ai veggenti e certe volte addirittura al parroco;
-              le tremano le mani;
-              certe volte ha con sé un misterioso bambino che alcuni veggenti scorgono e altri no;
-              da tempo promette un segno eclatante e irrefutabile, ma non mantiene mai tale promessa;
-              provoca svenimenti, nervosismo, e altri fenomeni bizzarri nei veggenti;
-              certe volte si lascia perfino toccare – l’espressione è toccamenti scandalosi – non solo sul mantello, ma anche sul suo stesso corpo.
Insomma, conclude il prelato, si tratta di un gioco magico e non del Vangelo di Cristo.

Devo ammettere di essere stato una volta a Medjugorje, e fu quando non era ancora molto famosa, agli inizi degli anni ’80. Ah, io ero così diverso da come sono adesso – dentro e fuori – che mi sembra davvero di parlare di un’altra persona. In piedi, nella sacrestia, quando i veggenti caddero in ginocchio, per quanto mi trovassi vicinissimo non provai alcuna emozione significativa, anche se non ebbi la sensazione di assistere a una recita. Uno del nostro gruppo era amico di una delle veggenti: e così trascorsi un pomeriggio a casa di lei bevendo succo di frutta e tè freddo e giocando nel giardino. Mi sono preso perfino un secchio d’acqua che la ragazza rovesciò ridendo da una finestra del piano superiore, il che mi fa appartenere a pieno titolo al club piuttosto esclusivo degli esseri umani colpiti da un gavettone di una veggente. Sono salito sulla montagna di notte a pregare: anche lì nulla di straordinario. Le benedizioni di padre Jozo – con tanto di contorsioni e svenimenti – mi provocarono invece una sensazione di nausea (e un po’ di sentore di zolfo), mentre non posso negare che lo schieramento di sacerdoti confessori sul lato della chiesa, all’aperto, e mai che fossero senza un penitente genuflesso vicino, fosse una cosa mai vista e piuttosto toccante. Quanto ai messaggi, già allora erano banalissimi ma innocui, esortazioni semplici alla penitenza, al rosario, al digiuno, solo leggermente intimidatori. Niente a che vedere con gli abissi tremendi (e con più di un risvolto politico: la guerra, il bolscevismo, il nazismo) delle apparizioni di Fatima, o alla sorgente di inspiegabili guarigioni (nonché conferma di un controverso dogma) che fu quanto avvenne a Lourdes o alle spaventose vicende de La Salette ("Non riesco più a trattenere il braccio vendicativo di mio Figlio!") che tanto affascinavano il cupo fiammeggiante Leon Bloy. Complessivamente tornai a casa persuaso che, se non era diabolica, era comunque cosa sciocca e di scarso interesse. Ma ero giovane. E rigido. E – soprattutto – non ancora mai stato in India. Perché in India avrei scoperto cose molto importanti.


Per prima cosa ho imparato che il sacro è una materia viscosa e appiccicosa, è una marmellata di senso che nutre e assieme impiastriccia. Il sacro è denso e scuro come il sangue, non puro e trasparente come l’acqua. Il suo contatto provoca nausea e estasi assieme. Il sacro precede il divino nell’esperienza umana, e – per parafrasare un famoso frammento di Eraclito – è giorno-e-notte, estate-e-inverno, guerra-e-pace, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma; l’uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l’altra, per il sacro tutto è bello, buono e giusto. Il sacro non è presentabile in società, neanche – e particolarmente – nelle società religiose, per quanto ciò possa apparire paradossale, e ciò esattamente a causa di questa sua natura ambivalente e talora indecorosa e indecente.

[Excursus: un giorno ebbi l’occasione di ascoltare lo scrittore e studioso di cultura sarda Bachisio Bandinu. Raccontava di quando – per dilettare i turisti dei ghetti per ricchi della costa nord dell’isola – un’amministrazione comunale di una cittadina molto glamour ebbe l’idea di invitare i Mamuthones, figure terribili della Sardegna profonda, esito dell’imbestiamento sacro – ottenuto rivestendosi di maschere, pelli, cinghie e campanacci - in onore di Dioniso o di numi nuragici ancora più antichi e misteriosi. La speranza era quella di offrire ai ricchi villeggianti una sfilata di tipo carnevalizio, seppur fuori stagione, e di fargliela godere in tranquillità, mentre loro sorseggiavano il mirto o il vermouth nei dehors dei localini à la page. Fino a un certo punto andò bene. Poi accadde qualcosa di strano: Dioniso, o l’arcaico nume, si rese realmente presente nei figuranti, e la sua manifestazione esplose in violenza e furore. Il clima cambiò d’improvviso, non si vide più l’acqua turchese nelle baie dalla sabbia fine e candida, si velò il sole e il cielo virò nel cupo, addio porticcioli fighetti con gli yacht e le boutiques con i marchi prestigiosi. L’ira del dio – o sarebbe più giusto dire la sua misericordia -  si riversò nelle strade, rovesciò i tavoli, spaccò le vetrine. I villeggianti si rifugiarono negli hotel e si chiusero nelle camere, mentre la polizia cercava di mettere ordine nella disordinata danza di ciò che era ormai tutto fuorché un carnevale. Non si convoca il sacro senza esporsi al rischio della sua imprevedibilità, recando sempre con sé il sacro il suo aspetto perturbante]

Ma in India ho appreso anche altro. E cioè che esiste tutto un popolatissimo mondo sospeso tra l’essere e il non essere. In India questo è facile da capire, perché l’induismo medesimo nasce dall’impatto tra l’astratta, rigorosa, luminosa, diurna, desertica, sacrificale visione vedica (recata dai bianchi, nordici, ariani conquistatori provenienti dall’Iran) e i misteriosi culti dravidici del sud: scuri, sanguinosi, di foresta, di fiumi, di giungla, di fiere, di notte. Tale scontro geologico-spirituale ha sprigionato un intermondo multiforme, multicolore, inclusivo, pieno di dei e dee dai mille volti e dalle centomila braccia, ma ognuno di essi soglia, porta, accesso al divino purissimo e quintessenziale, senza immagine e forma o dualità. In questo intermondo l’indiano si muove con disinvoltura sorprendente, non avendo una concezione digitale (on/off) dell’esistere, ma piuttosto l’esperienza di un continuum analogico.

Ciò che in India è palese, tuttavia, accade ovunque, e l’intermondo cristiano – per esempio - è policromo e interessantissimo. Beninteso: gli abitatori di questo luogo intermedio non sono totalmente assimilabili – non so – agli archetipi junghiani o all’inconscio collettivo. Essi hanno una forma di esistenza parzialmente indipendente dalla psiche di chi interagisce con loro vedendoli, parlandoci, pregandoli, sognandoli, a volte avendoci relazioni sessuali (come accadeva frequentemente nell’epoca classica in occidente e tuttora accade in oriente), a volte avendo a che fare con loro in modi ancora più strani (l’incantevole Gemma Galgani aveva l’angelo custode che le preparava il caffè, e soprattutto che le recapitava la posta al suo direttore spirituale (anche qui la posta: ma è più che naturale che gli intermondiali abbiano la vocazione mercuriale di facilitare le comunicazioni e le connessioni). Essi sono il frutto di un incontro: Dio soffia sulla ribollente, greve – e talora malsana - palude del sacro che c’è nell’universo, e il suo soffio anima un’infinità di forme divine che poi vivono tra gli uomini e danzano con loro. Ma come gli uomini, spiriti incarnati o carni spiritate, non possono prescindere dalla pesantezza e dalle limitazioni dei loro corpi, così tali forme non possono interamente liberarsi dalla viscosità carica di ambivalenza che caratterizza il sacro della cui stoffa son fatte: e questo spiega il senso di disagio che ci prende quando si manifestano, come se fossimo al cospetto di qualcosa che non è fatto solo di luce. La più vertiginosa anima mistica del Novecento, Santa Teresa di Lisieux (e dico del Novecento ben consapevole che ne morì sulla soglia) ottenne da una di tali forme divine la liberazione da una malattia chiaramente psicosomatica: la Vergine infatti le apparve e lei fu guarita. Bambina, confidò alle sorelle che aveva visto. Ma era una bambina dallo spirito lucido e tagliente come una spada, e fino alla morte ripensò a questo contatto dubitando, soffrendo, perfino autoaccusandosi di menzogna. Lei cercava altro, e le fu dato: la nudità del Dio al di là dell’Essere.

Il vescovo di Mostar tenta un mystical profiling: la donna che trema, che ride, che si fa toccare le membra, che si nasconde, ecco: questa donna non sembra corrispondere al profilo della Vergine Maria. Che cos’è dunque? Un gioco magico, tuona il prelato, intendendo screditare. Ma il gioco magico è bellissimo, ed è bellissimo quando Dio fa l’illusionista e gioca con le forme da lui stesso inabitate per potersi, nel rivelarsi così, nascondere ancora.


Nel frattempo questa vicenda creerà un grattacapo al Papa. Il quale, prima di addormentarsi, scriverà un biglietto con scritto ‘Medjugorje’ e lo infilerà sotto la statua di San Giuseppe che dorme, e lui, abitante dell’intermondo esattamente come la Vergine che ride , troverà il modo di occuparsene.


giovedì 9 febbraio 2017

Non solum in memoriam. Sed in intentionem.



Massimo Papini
22 giugno 1942 - 7 febbraio 2017


DOLORE IGNOTO

Poggio
sul mio dolore
invisibile,
ignoto
come
rossa la vela sul suo vento.


POCO A POCO

guarisco lentamente della notte


CREPUSCOLO

L'ombra scompare
prima della luce


PROMESSA

Notte senza attesa di sole.

Al bambino nel buio
sugli scalini dell'immenso

intatta nel cielo senza lacrime
l'universo promise
la curva lieve delle stelle dell'Orsa.


[da Estenuante memoria del corpo, 1997]







lunedì 16 gennaio 2017

Silence: verità, misericordia, e putrefazione di Dio

J


Non credo che i due giovani gesuiti protagonisti di Silence, l’ultimo film di Martin Scorsese -  l’uno (Rodriguez) fulvo e della mascella volitiva, l’altro (Garrpe) scavato e già quasi nipponiforme, come plasmato dal suo desiderio, entrambi coi corpi atletici/ascetici stretti nella talare nera e il fuoco che divampa negli occhi – pensassero ai sei modi di evangelizzazione della Chiesa elencati dal Cardinal Martini in una lettera pastorale degli inizi degli anni ’90 (ossia per proclamazione, per convocazione, per attrazione, per irradiazione, per contagio, per lievitazione) quando, nelle prime scene, chiedono, pretendono e alla fine ottengono dal Provinciale Alessandro Valignano di partire dall’India per il Giappone. Sapevano che in quel paese ai confini del mondo la situazione per i cristiani era cambiata, che era in corso una feroce persecuzione, e che del loro antico e amato maestro e mentore (Ferreira) non si avevano notizie se non che forse aveva abiurato. Come segugi della fede, fiutavano odore di oriente, di avventura, di sangue, di eroismo e di martirio. Bastava.

Non credo che avesse chiare le sei modalità neanche quell’infaticabile errabondo di Dio che ebbe nome Francesco Saverio, e che cinquant’anni prima si stremò nelle Indie – tanto che il braccio gli doleva a furia di amministrar battesimi e la gola gli bruciava per le continue recitazioni del Credo ai neofiti – che si spinse poi fin nelle Molucche e nella Nuova Guinea, ma il cui vero, autentico amore fu il Giappone, furono i giapponesi, da lui ritenuti il popolo migliore del mondo, per poter predicare ai quali corteggiò nobili e principi fino al Celeste Sovrano, e al fine di rendere ancor più efficace tale annuncio – visto che i giapponesi non ritenevano potesse esistere una dottrina giusta non accolta dalla Cina – poi partì per la Cina e vi morì sfinito dalla febbre, indomito, lui a cui neppure il Padre e Maestro Ignazio riuscì a mettere briglie e finimenti, e a destinarlo a incarichi non di prima linea.

Semplicemente, questi uomini erano persuasi di portare una verità di tipo tutto speciale. Non (solo) un pacchetto di nozioni su Dio, intendiamoci: ma una verità capace di salvare l’uomo e portarlo in Cielo. Una veritas saluti necessaria, per dirla con l’Aquinate. Al fine di poterla comunicare anche a una sola anima erano pronti a andare non solo all’altro capo del mondo, ma su Marte, qualora si fosse trovato il vascello adatto, perché per quell’anima erano in gioco vita e morte (eterne): Qui crediderit et baptizatus fuerit salvus erit, qui vero non crediderit condemnabitur (Mc16,16). Poi, quando ci saranno le astronavi, la missione verso gli alieni sarà certamente più simile, invece, a quella descritta dall’olandese Michel Faber nel bellissimo libro di fantateologia Book of Strange New Things (2014), ossia problematica, dubbiosa, estenuata: ma questa è un’altra storia. Anzi: è la stessa.

Al tempo degli eventi immaginati nel film, in Giappone furoreggiava appunto la persecuzione del periodo Tokugawa. La comunità cristiana, che aveva raggiunto il ragguardevole numero di trecentomila anime, e che comprendeva anche anime illustri (si pensi che – al tempo di Toyotomi Hideyoshi, ossia pochi decenni prima, lo stesso sommo Maestro dell’arte del Tè Sen No Rikyu, vertice della raffinatissima cultura zen, fu sospettato di essere cristiano). Insomma, il cristianesimo andava abbastanza di moda, era abbastanza cool. Ma gli Shogun sospettavano i cristiani – e in particolare i gesuiti – di intrigare con l’Imperatore ai loro danni; si accorgono che Olanda, Portogallo, Inghilterra e Spagna – le ‘quattro concubine bellissime’ dell’uomo saggio Giappone – litigano fra loro per il primato e il saggio potrà cacciarle e tornare in pace: non così potrà fare con la ‘donna brutta’ ossessionata dall’amore per lui, presa in un attrazione fatale per lui, ossia il cristianesimo; quella dovrà ucciderla, per sposarsi infine con una donna del suo paese, che lo capisca. C’era inoltre stata la grande ribellione Shimabara, guidata dal giovane samurai cristiano Shiro Amakusa, e conclusasi nel massacro di oltre quarantamila convertiti.

Giunti sulle coste occidentali del Giappone meridionale, i due gesuiti vengono in contatto con comunità clandestine e catacombali di cristiani (kirishitan) di villaggio. Poverissimi e fervidissimi, i contadini si sono organizzati senza sacerdoti e quindi senza sacramenti. C’è un capo (Jisama) che amministra l’unico sacramento possibile, il battesimo, ai bimbi, ci sono dei catechisti che insegnano le pochissime parole in portoghese storpiato, ci sono riunioni di preghiera davanti a immagini sacre cesellate nel legno, c’è soprattutto la carità fraterna e la possibilità di morire in ogni momento. Per il resto è una specie di marranismo al contario: tutti pagano le tasse, onorano i Buddha nei templi, e vivono la loro vera fede soltanto nelle nebbie notturne (il film qui ha una profusione di bellissime inquadrature caravaggesche). Il loro timore è che venga un mitico inquisitore a metterli di fronte alla scelta di calpestare un’immagine sacra o essere uccisi.



I nostri due sono colpiti ed edificati dal fervore di queste comunità (è deliziosa la scena in cui, dopo aver condiviso delle aringhe salate, i preti si gettano sul cibo mentre i giapponesi piamente si fanno prima il segno della croce: Benedic, Domine, nos et haec tua dona quae de tua largitate sumus sumpturi) ma è evidente che il nascondimento non soddisfa la loro sete di eroismo. L’uscire dal nascondiglio per loro preparato innescherà una serie di eventi che porteranno infine al manifestarsi del leggendario inquisitore.

Questa è – a mio avviso – la figura più riuscita. La sua fama terribile di Torquemada buddista si implementa in realtà in un vecchietto artritico, intollerante al sole, al caldo, alle mosche, e con una vocetta sfalsettante (nella versione inglese Scorsese ha usato per lui la voce dei ‘vecchietti da film western’, tipo How’dy Pa’t’ner). Alla sua crudelissima raffinatezza, fatta di spettacoli di terrificanti torture unita a dialoghi teologici sottolineati dal vibrare di ventagli di carta di riso, il film affida la trasformazione del vero protagonista, il giovane Rodriguez. L’altro, Garrpe, ha in sorte una fine tutto sommato più semplice e bella: mentre alcuni cristiani giapponesi vengono fatti salire su una barca per essere gettati in mare  legati in stuoie di paglia, riesce a sottrarsi a chi lo trattiene, si slancia in acqua, li raggiunge a nuoto, e muore annegato anche lui, abbracciato a una bambina neobattezzata con la quale si inabissa nell’azzurro. Sembra strano, ma in quel momento lo si invidia.

Quattrocento anni dopo, un Pontefice Romano di nome Benedetto (e al Pontefice Romano i gesuiti fanno voto speciale di obbedienza circa missiones) dirà che la Chiesa non fa proselitismo, ma cresce per attrazione (omelia della Messa di inaugurazione della V Conferenza generale dell’Episcopato latinoamericano, Aparecida, 13 maggio 2007). Ancora vivente Benedetto (dopo aver compiuto l’atto più postmoderno della storia, ossia dimettersi da Pater Patrum, atto che nessun padre carnale di figli carnali avrebbe mai il cuore e il diritto di fare) il suo successore Francesco radicalizzerà questa affermazione a più riprese: in interviste al laico Pontefice Scalfari dirà che il proselitismo è una solenne sciocchezza (2013, su Repubblica) e che addirittura esso è peccaminoso, è un atteggiamento peccaminoso (intervista a Ulf Jonson, in occasione del suo viaggio in Svezia). Attrazione – beninteso - è una delle sei modalità individuate dal gesuita padre Martini.

Chissà che cosa ne avrebbe pensato Garrpe mentre moriva affogando assieme alla sua neofita. Posso però dire che cosa ne penso io. E penso che il disprezzo del proselitismo non mi piace, ma è inevitabile. La verità – bongré malgré – non siede più sul trono dei beni, non è più il bene più alto. Io stesso sono pieno di orrore nel pensare a un mondo tutto romano cattolico, un luogo in cui a Roma, New York, Delhi, Beijing, Tokyo, Nairobi, Teheran, Tel Aviv tutte le mattine delle figurette vestite di rosso o di verde o di bianco salgano sull’altare a dire In nomine Patris… e innalzino piccoli dischi di pane azzimo, e che questa sia la modalità dell’esperienza religiosa di tutta l’umanità. Io non potrei vivere in un mondo dove il Signore Krsna non danzi con le pastorelle al suono incantato del suo flauto, in cui i minareti non piangano gli appelli alla preghiera all’Unico e al Più Grande, in cui monaci vestiti di zafferano non vivano secondo gli insegnamenti del Sublime Gautama, in cui misteriose forze animiche non ruggiscano nelle foreste africane, in cui fanciulle e madri non accendano al venerdì sera le due luci del santo Shabbat. Non soltanto sono d’accordo con Simone Weil quando dice che non darebbe venti soldi per un’opera missionaria e che per un uomo cambiare religione sia pericoloso quanto per uno scrittore cambiare lingua, e quando afferma l’assurdità di obbligare le persone a rinnegare ciò che per i loro padri è stato sacro per millenni e adottare come libro santo la storia di un piccolo popolo a loro sconosciuto (Lettera a un religioso, 1951), ma sono persuaso che la teodiversità sia l’unica possibilità per rendere sostenibile all’uomo l’esperienza religiosa. Ciò significa che per me, Benedetto XVI e Francesco I non avrebbe senso partire dal Portogallo per convertire un giapponese, e che anzi in qualche modo questo potrebbe perfino integrare una colpa religiosa. Ciò significa che io, Benedetto XVI e Francesco I abbiamo un’idea di verità che non corrisponde irreversibilmente più a quella che era nelle menti e dei cuori del vero Saverio e degli immaginati Garrpe e Rodriguez. Dici poco. Che la abbia io, quest’idea, non conta nulla, ovvio. Ma i due Papi. E la stragrande maggioranza dei cristiani sul pianeta. Insomma.

E tuttavia non è il relativismo religioso dell’inquisitore Inoue a trasformare Rodriguez. Egli vi resiste testardamente (e un po’ sbiaditamente, dal punto di vista teologico). Il relativismo non è la causa, ma sarà un effetto della sua trasformazione. Il giovane religioso incontra alla fine il suo antico maestro Ferreira, malinconicamente ormai integrato nella società dei letterati giapponesi: non solo ha effettivamente e formalmente abiurato più volte, ma ha moglie e figli e un nome giapponese. Passa il tempo nei templi scrivendo libri di astronomia e scienze naturali, nonché un elenco di errori del cristianesimo intitolato ‘Gengiroku’ (Inganno rivelato). E’ convinto che i fervidi contadini incontrati dai due preti all’inizio del loro incontro fossero in realtà dei superstiziosi, e che la loro devozione a immagini e parole cristiano-portoghesi fosse infinitamente distante dalla fede in Cristo. E ha visto che c’è chi muore martire per la fede, ma molto di più ve ne sono che muoiono a causa di superstizioni, nella speranza di un Parais privo di tasse, fatica, sfruttamento e signorotti. Conclude che non ne vale la pena, e rifiuta la testardaggine con cui la Chiesa si ostina a predicare il Vangelo in Giappone provocando solo il versarsi di sangue giapponese. Ma, ancora, Rodriguez resiste, non è convinto.



Il problema, per Rodriguez, è il silenzio di Gesù, il suo ostinato tacere davanti al massacro dei suoi. Come possa tacere di fronte alla bimba gettata in mare perché battezzata, al vecchio esposto per giorni alle spaventose ondate dell’oceano, al sacerdote legato al palo e cosparso di acqua bollenti con piccoli mestoli forati che ne ritardassero la morte aumentando la sofferenza delle ustioni. Questo silenzio lo strazia. L’immagine del volto di Cristo di El Greco – da lui custodito nei pensieri e negli affetti come un innamorato fa col volto dell’amata – è terribile nel suo mutismo. Vuol dire che è morto? La persecuzione giapponese come Auschwitz, lo stesso silenzio impotente, e Rodriguez si aggrega a Primo Levi e Paul Celan. Si può pensare Dio dopo Auschwitz? Siamo di fronte il problema dei problemi. Elie Wiesel se lo chiede di fronte alla prolungata agonia di un ragazzino tredicenne impiccato nel campo di sterminio, l’angelo dagli occhi tristi, si chiede dove sia Dio, e sente una risposta: “Dio sta morendo su quella forca”.

E’ il venerdì santo speculativo di Hegel, dal quale ancora non siamo affatto usciti. Non è soltanto il tragico, feroce e vitale annuncio dello Zarathustra di Nietzsche, non è solo la solenne, sognante e gotica proclamazione del Cristo morto di Jean Paul (Johann Paul Friedrich Richter) che dall’alto dell’edificio del mondo annuncia a tutti che non vi è alcun Dio (“Siamo tutti orfani, io e voi, senza Padre”), non è solo l’affilato ateismo dei filosofi analitici oxoniensi degli anni ’50 (cosa fa un padre umano se vede un figlio ammalato di cancro alla gola e potrebbe guarirlo? lo fa, altrimenti non è padre; dunque dire che Dio è padre non ha alcun senso, e se lo si dice si condanna la parola padre a non avere alcun significato, con buona pace dell’analogia), non è solo la confessione della moglie del missionario interplanetario del romanzo di Faber (“Non c’è nessun Dio che agisce in modi misteriosi, nessun Dio che persegue chissà quale sublime obiettivo… Mi sono illusa”). Non solo questo. Siamo noi che lo viviamo, il venerdì santo senza Pasqua. Davanti al puzzo della morte, di ogni morte, e davanti all’orrore del silenzio perdurante di un Dio che non può avere scuse se non perché Egli stesso morto.

E allora ci saranno le riflessioni dello stesso Wiesel, di Hans Jonas (Des Gottesbregriff nach Auschwitz), di tanta parte della teologia del novecento. La teologia dopo la morte di Dio: ma essa non basta a uscire dal terribile venerdì del pensiero. Dio è morto, va bene, ma non risorge affatto “in ciò che noi vogliamo e crediamo”, come cantavano Guccini e i Nomadi negli anni ’60. Anzi, c’è – in tutto il suo immenso, prepotente ingombrare – il suo cadaverone disteso sul mondo e sulla storia. Che ne faremo? Articoleremo un’azione sociale, un’attitudine misericordiosa, rizzeremo un ospedale da campo per i feriti del cuore e dell’anima, e tutto questo etsi deus non daretur? Intanto – come ha detto recentemente il cardinale guineano Robert Sarah – i fedeli disertano le Chiese sopraffatti dal fetore del Dio morto (io non credo che mai un’espressione più drammatica e significativa sia stata pronunciata da un’autorità religiosa cristiana dell’epoca moderna).

Una notte, nella prigione, Rodriguez sente gemere e russare. “Come fa questa guardia a russare mentre il prigioniero soffre!” si indigna. Ma nessuno russa. Sono quattro cristiani condannati alla ‘fossa’, ossia avvolti in un sacco e appesi a testa in giù in un buco, con una ferita sul collo che impedisce che il sangue alla testa li faccia svenire e in attesa di una morte lentissima e dolorosa. “Se lei abiura”, dice il carceriere giapponese “saranno immediatamente liberati”. Viene posta davanti a lui l’immagine del Cristo da calpestare. “Cosa farebbe Cristo se fosse al suo posto?”. Ferreira è al suo fianco, lo incoraggia: “Ora compirai l’atto d’amore più doloroso che sia mai stato fatto…” E – finalmente – Gesù stesso, il Gesù di El Greco, parla:”Calpesta! Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini!”. E Rodriguez calpesta, in uno straordinario gesto che è anche assieme capovolgimento, prostrazione e bacio. Si crocifigge alla sua abiura nel nome della misericordia: che – compiutasi finalmente la trasformazione – siede sul trono del bene supremo, prima occupato dalla verità.



Diventato un secondo Ferreira, con nome giapponese, moglie e figli, abiurerà ancora molte volte con meno drammaticità e più scioltezza. Verrà utilizzato dai giapponesi per evitare che le navi europee introducano in Giappone oggetti cristiani. E, dopo la morte, sarà cremato da buddista, anche se la moglie farà segretamente scivolare fra le sue mani un crocifissino di legno intagliato e a lui donato dai primi – superstiziosi – contadini cristiani.

Ci sarebbe anche da dire della figura niente affatto secondaria del debole Kichijiro, a tutti gli effetti un Giuda seriale che tradisce e poi chiede perdono e poi tradisce e poi chiede perdono e poi ancora e ancora. Chissà, forse è la vera soluzione del tragico enigma del film.

Ah, comunque, il gesuita Hubert Cieslik, in Monumenta Nipponica (1974) sostiene che il personaggio ‘vero’ della storia, padre Cristovao Ferreira, abbia alla fine della sua vita ritrovato la fede, l’abbia confessata pubblicamente e sia morto martire. A Nagasaki. Dove, 312 anni dopo, per una questione meteo che impediva la visibilità della città di Kokura, fu dirottato (in qualità di obiettivo secondario) il B29 americano che vi sganciò sopra The Fat Man, il grassone, nome dato alla bomba contenente 6,4 chili di plutonio-239, e che sterminò quasi centomila persone – tra cui alcuni sopravvissuti al bombardamento di Hiroshima. E anche in quel caso non sembra che gli dèi (d’oriente e d’occidente) abbiano alzato la loro voce.

Sono andato a vedere Silence non appena il film è uscito nelle sale, ossia il venerdì 13 alle 14.50 al cinema Odeon di Milano. Pensavo ci fosse folla, invece eravamo una ventina. Tutti solitari, tutti senza un compagno o una compagna di visione. Accanto a me: a sinistra era seduta una signora che riceve una telefonata prima che inizino le anteprime e sussurra concitata di essere al lavoro e di non avere tempo per parlare, e che alla fine mi ha chiesto Le è piaciuto il film? e io le ho detto Non tanto; a destra una ragazza bruna con i capelli lisci e lunghi, che succhiava un chupa chups, e che non ha mai cessato – durante tutto il film – di guardare il suo Iphone, nascondendone la luce rosata sotto il cardigan bianco di pizzo e creando un effetto niente affatto spiacevole da paralume liberty. Uscito all’aria aperta mi accolgono da un negozio di Corso Vittorio Emanuele le parole di una canzone dell’ultimo album dei Baustelle:

Betty / ha provato di morire / sulla circonvallazione / prima ancora di soffrire / era già in putrefazione / un bellissimo mattino / senza alcun dolore / senza più dolore.


Un bellissimo mattino senza più dolore.