Bisognerebbe guardarci bene – noi mortali – dall’interagire
con gli dei e con le dee, e soprattutto dall’avere storie d’amore con loro.
Ci sono due signori colti, un po’ anziani, in visita alla
Galleria Borghese di Roma. Sono fermi davanti al gruppo marmoreo di Gian
Lorenzo Bernini, dove Apollo cerca di ghermire Dafne, ninfa bellissima e figlia
del dio-fiume, Fluß-Gott des Bluts, dove lei cerca di
sottrarsi, e dove il padre-fiume la trasforma in albero d’alloro, ed ecco ha
già un piede radice e le palme foglie. I due signori guardano la statua in
silenzio. Poi passano all’altro capolavoro del Bernini, dove Proserpina figlia
di Giove e della dea delle messi, mentre raccoglie fiori, viene afferrata dal
terribile Plutone signore degli Inferi, e dove lei è come una lepre inseguita
dal cupo cacciatore e dal tricipite cane Cerbero, e dove lui l’ha già presa, e
lei è già sua, e sotto le dita del rapitore cede la carne morbida della sua
coscia, e tutto questo è candido marmo durissimo morbidissimo. Uno dei due
visitatori, con l’accento francese, dice all’altro: “Due capolavori dell’arte
occidentale. E – in effetti – rappresentano due stupri…”
L’altro è uno psicoanalista, e ricorda allora che Freud - in
qualche punto della sua sterminata opera - sostiene che una delle funzioni
delle rappresentazioni religiose consiste nel poter attribuire alle figure
divine, notoriamente al di sopra del bene e del male, degli atti che noi vorremmo
compiere, ma non possiamo (perché c’è il super Io e l’etica e le relazioni e la
legge e la polizia e la rispettabilità e insomma queste cose non si fanno).
In realtà , io vorrei prendere la giovane vicina di casa che vedo uscire al
mattino con i capelli color miele e i pantaloni strappati sul ginocchio a mostrarne
la forma perfetta rivestita di pelle dorata, vorrei trascinarla in cantina e
possederla. Naturalmente non posso,
non devo, e la parte più alta e
nobile di me neppure vuole farlo. Ma
il desiderio brado – in me - sogna. E il sogno assume la forma del vecchio
Plutone che è preso di passione per la figlia di Demetra, e – con la potenza
vigorosa e pre-morale tipica degli dei – la conduce nell’abisso dove vive e la
fa sua.
Così fanno gli dei. D’altra parte non ce li vedi – gli Olimpi
(ma neanche i più colorati e polimorfi cugini indiani) – corteggiare l’amata,
mandarle i fiori, portarle i cioccolatini, sedersi sulla panchina del parco a
guardare le stelle, leggerle delle poesie, essere da lei presentato alla
famiglia, frequentare il corso per fidanzati della parrocchia, andare a scegliere
la lista di nozze e le bomboniere di ceramica col cacciatore e il bracco,
sposarsi in chiesa con l’organo che suona l’aria sulla quarta corda di Bach, ricevere i chicchi di riso in faccia, dopo la festa attraversare la soglia di casa con lei in braccio, poi i
preliminari, e poi il sesso del sabato sera. Gli dèi quando toccano, toccano
così, toccano forte (noi arriviamo fin
qui, / questo è nostro, di toccarci così, più forte / ci gravano gli Dei. Ma è
cosa degli Dei, scrive Rilke nella sua seconda elegia di Duino). Gli dei non hanno una psicologia, e
quando desiderano il loro desiderio si trasforma in atto. A noi mortali il loro
comportamento sembra violento, sprezzante, brutale, ma per loro, i celesti
spensierati, non è che la normalità.
Arianna figlia di Minosse, re di Creta, aiuta Teseo a
sconfiggere il Minotauro con la famosa vicenda del labirinto, si innamora di lui
e con lui fugge verso Atene. Tuttavia commette l’errore di rivelare a Teseo l’intenzione
di sposarlo. Credo che le dicerie che vorrebbero Teseo come figlio illegittimo
di Poseidone dio degli abissi marini siano false, perché Teseo si comporta in
questo frangente in un modo che più umano non si potrebbe. Fa sosta a Nasso, e
mentre lei è addormentata, risale sulla nave e salpa via (da cui pare venga l’espressione
‘piantare in (N)asso’. Ridestatasi, Arianna piange tutte le sue lacrime e
invoca la morte. Il mito ha diverse versioni e diversi finali, ognuno dei quali
potrebbe essere esplorato con molto interesse. Hugo von Hoffmansthal – nel libretto
per l’opera Ariadne auf Naxos sceglie
il finale più celebre. Giunge Dioniso, la vede e la desidera, ma nel modo in
cui un dio vede e desidera, e vuol portarla via.
Dice Arianna:
Lo so, così è laggiù
dove mi guidi!
Chi là dimora, tutto
presto scorda!
La parola finisce ed
il respiro!
Là è il riposo un
continuo riposo dal riposo –
nessuno là si
consuma nel pianto, –
dimentichiamo ciò che
ci affliggeva:
nulla conta di ciò che
qui contava, lo so.
E Bacco soggiunge:
Se sono un dio, se un
dio m’ha creato,
se le fiamme hanno
ucciso mia madre,
quando tra fiamme mio
padre le apparve
non mi ha toccato la
magia di Circe,
perché sono immune,
etere e balsamo
non sangue umano
nelle vene mi scorre.
Ascoltami, creatura
che ho davanti,
ascoltami, tu che vuoi
morire:
le stelle eterne
moriranno prima
che la morte ti
strappi dal mio abbraccio!
Ai mortali che si innamorano delle dee non va certo meglio.
C’è Artemide, la saettatrice, che, in una notte d’arsura in opaca silva Gargaphia, depone le vesti e si bagna nuda in un
lago. E c’è il nobile Atteone anche lui a caccia nella selva oscura, con la sua
muta di cani addestrati all’uccisione del cervo. C’è uno sguardo, soltanto uno
sguardo, fra la dea e il mortale: ma è più che troppo. Egli vede ciò che è
oltre la misura di ogni pensiero umano e perde il senno, o lo acquista. E lei,
ilare, come un’adolescente timida e divertita, compie il gesto più innocuo che
si possa immaginare: raccoglie un po’ d’acqua con la mano e gliela spruzza in
volto. Come un gioco benedicente. Ma, sul versante umano, queste gocce assumono
il significato di indignazione e di condanna del sacrilegio, ed ecco Atteone
trasformarsi egli stesso in preda, in cervo, ed essere divorato dai suoi stessi
cani.
C’è poi da notare che il sesso agli dèi piace moltissimo, lo
fanno abbondantemente senza riguardo ai sentimenti, alle età, ai contesti,
persino alle stesse forme e specie. Ma sembra che piaccia loro un sesso senza
procreazione. Quando devono procreare, lo fanno in modo diverso. Atena esce armata
di tutto punto dal cranio di Giove, Afrodite sorge dalla spuma del mare.
Anche il dio dei deserti, dei pastori e dei fuochi da campo,
il dio che scelse Abramo, Isacco e Giacobbe, non era certo, almeno
inizialmente, un tipo raccomandabile. Oltre a mostrare la consueta divina indifferenza verso la sorte umana,
non aveva neppure la raffinatezza del club degli olimpi. Era sanguigno e scabro
come la terra in cui si aggirava. Gli piaceva l’odore della carne arrostita, e
non credo sia completamente escluso dagli studiosi che abbia domandato a
qualcuno dei suoi primi devoti anche qualche bambino. Si dice anche che abbia
avuto una moglie, Asherah, Grande Madre e Regina dei Cieli. Però, col tempo, è
cambiato. Tutta la narrazione biblica è la storia del suo addomesticamento da
parte degli uomini: lenta, lentissima, e non senza svolte e passi indietro.
Grazie alla relazione con quei pastori, egli ha a poco a poco scoperto di
essere lui stesso il D-o, l’Origine radicale, il Principio e il Destino di ogni
cosa, il Reggitore dell’Universo. Poiché noblesse
oblige, dovette rinunciare a alcuni suoi comportamenti non compatibili:
smettere di essere un giovane e focoso capo militare alla conquista di Canaan e
incamminarsi (forse con un poco di malinconia) verso la trascendenza assoluta.
Ora: il Totaliter Aliter non poteva
godere nello scannare il Gebuseo: quindi perse a poco a poco la primitiva
fisionomia per assumere quella solenne e esangue dell’Antico dei Giorni, e alla
fine si ritirò nel Qadosh ha-Qodashim,
consegnandosi irreversibilmente all’immaterialità e all’irrappresentabilità
(gli rimase tuttavia il gusto della carne arrostita che continuò a esigere gli
fosse arsa davanti: non si può d’altronde pretendere tutto).
Irreversibilmente irrappresentabile? In un certo senso sì.
Ma a forza di stare insieme agli uomini cominciò a voler loro bene. Si poneva
un nuovo problema: a innamorarsi degli uomini (ovverosia delle donne) non era l’Adunatore
di nembi o Lossia l’arciere o Poseidone signore dei mari, dei terremoti e dei
cavalli. Ora il D-o degli dèi, l’al di là di tutto, l’oltre ogni forma, era lui
ad amare gli uomini, a volerli salvare dalla morte (gli olimpi ne ridevano,
perché non la capivano), a volerli far diventare simili a lui. Per far questo
decise di diventare come loro. E fu incantato, lui D-o reggitore delle galassie
e delle quattro interazioni fondamentali (elettromagnetica, gravitazionale ed
nucleare forte e debole), da una vergine ebrea – avrà avuto sedici anni - che
lo aveva servito nel Tempio fino al menarca, e poi era andata in sposa a un
giusto in Israele. Ma, anziché piombare su di lei come un falco su una tortora,
prese la forma bellissima dell’Arcangelo Forzadiddio, afferrò una verga da
pellegrino (ingentilita poi dai pittori in un ramo gigliato) e andò da lei.
La tradizione ortodossa – che è più fiorita e immaginativa
della latina, e si rifà ai racconti apocrifi – articola questo incontro in due
differenti scene. La prima vicino a una fontana, dove Forzadiddio cominciò a
sussurrarle di gioire, perché era benedetta: la vergine è spaventata, cerca e
non trova chi le parla così, e corre in casa. Di questo sgomento non c’è
traccia nell’iconografia tradizionale, e il dipinto che più ne rende ragione è
la celebre Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto. Ma Forzadiddio la segue,
le si inginocchia davanti umilmente, e le dice che avrebbe concepito per la sua parola. Dovrò io concepire per opera del Signore Iddio vivente, e partorire poi
come ogni donna partorisce?. Lui, restando in ginocchio, la guarda e
sorride: No, non così, Maria! Ti coprirà,
infatti, con la sua ombra, la potenza del Signore. Perciò l'essere santo che
nascerà da te sarà chiamato Figlio dell'Altissimo. Gli imporrai il nome Gesù…
Questa volta è la vergine a inchinarsi: Davanti
a lui è la sua ancella. In me si compia la sua parola.
Forzadiddio la lascia in fretta, ora deve entrare nei sogni
di Giuseppe il giusto. Nel grembo di Maria, Santo dei Santi non costruito da
mano d’uomo, ma forgiato da D-o stesso, cova
la felicità nuova dell’embrione del Teantropo.
Gli olimpi guardarono silenziosi il corteggiamento divino e
il successivo concepimento. Eros, in particolare, ne fu molto stupito.