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martedì 2 maggio 2017

Quoniam dilexerunt multum. La vecchia donna cinese e il monaco ch'an

Per quest’ultima, breve storia ci spostiamo più in oriente, e lasciamo anche il continente cristiano, geografico, cronologico e culturale. Siamo in Cina, nel nonsoquando che potrebbe essere ogni istante, perfino ieri, o venti secoli fa. In realtà più che di una coppia dovremmo parlare di un terzetto, perché c’è anche una fanciulla di mezzo: ma, come vedremo, ha una funzione più secondaria e strumentale.



C’è questa vecchia donna cinese, che possiede un po’ di terra adatta alla vita solitaria. Arriva un monaco che pratica il ch’an, quella via che in Giappone e in Occidente sarà conosciuta come zen.

Dire che cos’è lo zen non è possibile: per definizione esso è privo di definizione. I praticanti trascorrono la vita in uno stato di grande concentrazione e contemporaneamente di decentrazione, con molti momenti dedicati a ciò nell’assoluta immobilità. Gli attaccamenti, le brame, i desideri, i pensieri, l’io stesso, tutto cade come foglie secche da un albero autunnale. Appare /ecco!/ il Sé originale, il Sé eterno, o la natura-di-Buddha. Ma di questo non si può parlare se non sbagliando. Imparare lo Zen è trovarci / trovarci è dimenticarci / dimenticarci è trovare la natura di Buddha / la nostra natura originale, dirà Eihei Dogen Roshi, il grande Maestro giapponese che si recò in Cina nel XIII secolo e ne portò in patria il suo tesoro.

Il monaco chiede alla vecchia donna se può stabilirsi sulla vetta di un monte che fa parte dei suoi possedimenti, e che gli sembra adatto per meditare. La vecchia guarda il giovane asceta dagli occhi lucenti, e acconsente. Del resto, per i laici d’oriente, mantenere i monaci è una grande opportunità per guadagnare meriti per le successive esistenze. Il monaco, col suo piccolo bagaglio in spalla, scompare fra gli alberi. Passano gli inverni, ne passano venti. La vecchia donna ora è molto più vecchia. Questo è un inverno arido e ventoso. Le torna in mente il monaco che aveva chiesto di meditare sulla montagna. Si chiede se sia ancora lì, se sia vivo, se segua ancora la Via, se abbia fatto progressi. Chiama allora una sua serva, giovane e bella e piena di desiderio. Le dice: Vai all’eremo, cerca un monaco, e se lo vedi abbraccialo a lungo e con passione: e poi gli chiederai: Adesso?. L’ancella si avvia. Dopo la lunga salita, vede profilarsi sul crinale la figura del monaco, ormai non più così giovane, il cranio perfettamente rasato, seduto nella postura solidissima della meditazione, immobile come solo i non naturalmente immobili riescono ad essere. Obbediente, la ragazza si avvicina, saluta, forse anche canta un po’ per farsi coraggio. Il monaco non dà segno di averne sentito la presenza, eppure ha gli occhi semiaperti e vigili. Lei scherza, danza, lo abbraccia, lo accarezza, dice perfino Adesso?: niente. Perfetta serena immutabile immobilità: il vento marino gonfia le grandi maniche e agita il kesa, che schiocca con rumore di fuoco e di bandiera, ma lui non se ne cura. Un po’ delusa, un po’ sollevata, molto stupita, la ragazza attende qualche ora al gelo sotto il portico del piccolo romitaggio. Quando sta per andarsene sente, profondissime, sonore, melodiose, forti come un tuono, le parole dell’eremita:

Un vecchio albero su una fredda roccia. Pieno inverno: non è rimasto più calore in alcun luogo.

Ora la ragazza discende dalla montagna correndo, e ripetendo tra sé le parole da riferire alla padrona: è ormai notte. Eccola davanti alla vecchia a riferirle. La vecchia scuote la testa, visibilmente delusa.

Per vent’anni ho mantenuto quel buono a nulla!

La mattina del giorno seguente, una piccola carovana di uomini e asini coperti di fascine secche sale il sentiero che conduce alla vetta della montagna. Circondano la zona dell’eremo con le fascine, e appiccano il fuoco. La notte il monte ancora brucia, e il vento piega la fiamma verso est.


Sorride la vecchia donna, pensando che ora in quel luogo c’è molto calore.

Quoniam dilexerunt multum. Terza strana coppia: Maria e lo zio Abramo

Mettono la mano piccola e bianca di lei nella sua, forte e ruvida, quando Maria la bimba ha sette anni, ed è rimasta orfana. Sono venuti a trovarlo nel suo deserto proprio per affidargliela: lei non ha più nessuno e lui, lo zio monaco, è l’unico parente rimastole. Da quel momento, per vent’anni sarà la sua tortora, la sua agnella, il suo angelo. Le ha costruito una cella contigua alla sua, e la notte cantano a due voci i salmi di David re.

Un giorno Abramo si allontana in cerca di acqua e di fascine per il fuoco. Il cammino è lungo, ha sonno, e, con la naturalezza dell’animale selvatico, si rannicchia a riposare nell’incavo ombroso di una roccia.

Proprio allora, sul sentiero di sassi che passa accanto all’eremo, ecco arrivare un giovane uomo. E’ un monaco, che l’accidia spinge a muoversi sempre col cuore e con le gambe, e a non sostare mai. E’ uno di quelli che san Benedetto conosce bene e detesta, e che chiama girovaghi, semper vagi et numquam stabiles, et propriis voluntatibus et gulae illecebris servientes: sempre vagabondi, mai stabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola Il monaco girovago sente una voce che prega, un mormorio come di fonte, e non è allenato a custodire l’animo dalla vana curiositas. Guarda dalla finestrella senza far rumore, e vede quell’incanto, la giovane Maria che saltella con la voce sui salmi di David re. Egli si accorge di aver sete di vita, la tristezza preme sulle sue spalle come un giogo. Entra nell’eremo come un falcone in un nido di allodole. Maria si volta, e per farlo il suo collo di cigno si piega in un modo che il linguaggio umano non è in grado di descrivere. Quando il monaco esce, riprende il cammino, nell’indifferenza apparente del deserto, trascinato via dalla tirannica tristezza che lo domina.

Maria, alzandosi dal giaciglio, si sente perduta, ma non è il peccato di lussuria a provocare quel sentimento. La lussuria è come una carica di cavalleria: è un movimento, un’agitazione, ci sono grida, zoccoli di cavalli, scintillare di sciabole, suoni acuti di trombe. Il demone della lussuria è violento, ma di scarsa tenuta, è un incendio vivace, ma che dura molto poco. Il punto è che quando – sul campo di battaglia che è l’anima – l’incendio della lussuria si spegne, l’anima stessa si trova occupata dalla possente e tenace fanteria della disperazione, che già vi ha portato i suoi carriaggi, vi costruisce i caposaldi, vi scava le trincee. Maria è disperata. Si percuote la faccia e il corpo con le mani. Pensa di gettarsi da una rupe, pensa a mille modi per darsi la morte, pensa a tutto eccetto che a confessare con semplicità allo zio quanto è accaduto.

Se la speranza è estasi d’attesa, la disperazione invece non tollera l’immobilità e il silenzio. Maria si cambia d’abito e fugge dal romitaggio. Edessa, la grande città, coi suoi colori e i suoi rumori, la attrae come un’enorme stella. A lei, sconvolta, sembra di non sapere dove andare, ma la disperazione dentro di lei lo sa benissimo. Conosce perfino il luogo preciso di quel pubblico albergo in cui si scambia merce con altra merce viva e palpitante.

Abramo ora è sveglio. Abituato al sonno del leone o del monaco, un sonno profondo eppure vigile, breve eppure ristoratore, vivo ma privo di immagini, egli è molto stupito. Questa volta. strano, ha sognato, e si ricorda il sogno. C’era la sua casa di fango e di frasche: e serpenti fischianti, enormi scolopendre, ragni e altre forme orribili si insinuavano nelle fenditure e entravano dentro. Abramo lascia le fascine e i secchi, e corre verso l’eremo. Ancora questo non si vede e lui sa che certamente qualcosa è accaduto, lo scorge di lontano e sa che si tratta di Maria, arriva e l’assenza di lei gli racconta tutto.

Il monaco Abramo chiede agli angeli e ai corvi, alle carovane di passaggio e agli anacoreti che pregano negli eremi vicini, e soprattutto a Dio, di ritrovargli Maria. Passano però due lunghi anni. Ecco che un mercante arriva da lui, si siede all’ombra, riceve l’acqua che Abramo gli offre, e la benedizione. L’ho vista, padre – gli dice – e, credimi, non vorresti sapere dove sta e cosa fa; non cercarla più: tua nipote Maria è perduta; fa che per te sia come morta; dille le preghiere per i morti. Abramo si alza, va nell’oratorio, e torna con il libro dei salmi di David re. Dice al mercante: prendi, vale molto questo libro, ci guadagnerai; voglio in cambio abiti come i tuoi, un largo cappello come il tuo, un mantello e delle scarpe come tu hai. Tieni il libro, padre mio – risponde il mercante – prega piuttosto per me, per la mia vita; ti lascio un cavallo, lo riprenderò qui da te, quando passerò ancora. Dio ti consigli però, padre, e ti impedisca di fare ciò che intendi.



Abramo si sveste della sua cocolla del color della notte e indossa gli abiti dalle tinte sgargianti che ha ricevuto. Quello stesso giorno è a Edessa, e si fa indicare l’albergo. Chiede al padrone – un uomo grasso e calvo -  di Maria. Maria, risponde lui, Maria costa molto. Senza una parola, il monaco travestito fa cadere sulla tavola alcune monete d’argento, frutto della vendita al mercato di Edessa del libro dei salmi di David re. Signora Maria! grida il padrone, e lei appare col volto dipinto e l’abito logoro e scintillante delle prostitute. Abramo sente il cuore serrarglisi in una morsa, lei non lo riconosce più. Fino all’ultimo aveva sperato che il travestimento non fosse sufficiente, che sarebbe bastato uno sguardo. Non è così. Chiama a raccolta le sue virtù virili e monastiche: per non piangere, per non urlare. Comprende che manifestarsi subito provocherebbe una nuova fuga di lei. Sa che prima del disvelamento c’è un calvario da salire.

Maria lo conduce in per prima cosa alla tavola: scherza, gli abbraccia la testa, lo bacia, e mentre lo bacia sente provenire dal corpo di lui, inconfondibile, l’odore dell’astinenza.

[Ecco, l’odore. L’odore è un senso primario, elementare, e che proprio per questo ha molto a che fare con lo spirito. L’odore di santità, oppure l’odore di zolfo: è sempre il naso che scova più presto degli altri sensi il diavolo o l’angelo. Il paradossale lezzo della putrefazione che appena poche ore dopo la morte proviene dal corpo dello starec Zosima – nei Fratelli Karamazov – metterà in grave crisi perfino il fedelissimo Alësa. Ma, al di là dei riferimenti letterari, è un’esperienza che tutti facciamo. Il nostro odore dipende dall’anima (o, come direbbero alcuni pensando di essere aggiornati, dallo stato della mente): in certe occasioni dopo mezz’ora dalla doccia già puzziamo. Giorgio Gaber, il filosofo del Giambellino, lo descrive perfettamente nella sua canzone L’odore (…oddio l’odore è mio l’odore è mio…vuoi vedere che sono io? vuoi vedere che sono io?) Sì, sull’odore ci sarebbe da soffermarsi a lungo. Qui quel che serve dire è che Maria, che abbraccia e bacia lo zio senza riconoscerlo, d’un tratto viene trafitta dal caratteristico odore dell’astinenza. Quello non lo ha dimenticato. Gli studiosi del cervello dicono che gusto e olfatto sono sensi collegati all’ippocampo, che è una struttura a forma di banana che – assieme ad altre – forma il sistema limbico, ossia la base neurale delle emozioni e sede della memoria a lungo termine. Sarà benissimo. Fatto sta che – come la madeleine inzuppata nel tè richiama a Marcel tutto quello che sappiamo, l’odore fragrante di rinuncia del corpo del monaco richiama alla giovane prostituta un passato che altro che Combray.]

Allora Abramo vede il collo di cigno di Maria torcersi ancora, questa volta per nascondere il pianto. Ma esso è irrefrenabile ed escala in un grido. Povera me, grida, me sventurata, me così sola. Ma il padrone la rimprovera bonario, con quella bonarietà terribile mostrata sempre da chi ha potere. Signora Maria, cosa succede; sei qui da due anni e non ti sei mai lamentata, che ti accade? E lei: beata me se fossi morta tre anni fa. Abramo capisce che non è ancora pronta al disvelamento. Beata me se fossi morta. La memoria risvegliatasi in Maria è una memoria triste, è la nostalgia disperata di qualcosa di irrecuperabile. Allora il monaco insiste in questa incredibile, terribile, dolcissima sceneggiata, e quasi si unisce al rimprovero del padrone: siamo qui insieme, Maria, per divertirci: e tu vieni a parlarmi dei tuoi peccati? Lei lo guarda: non ha mai parlato dei suoi peccati. Abramo ordina di portare del vino, della carne arrostita e dei pimenti, mangia e beve di gusto – lui che non ricordava neppure di aver mai mangiato carne o bevuto altro che acqua.

Ora la ragazza è in piedi e lo attira in una camera separata, dove si stende sul giaciglio invitandolo a raggiungerla. Abramo si stende accanto a lei.

A questo punto il narratore originale della storia – che è il grande Efrem il Siro, innografo, musicista e santo – non ce la fa più a narrare, e bisogna lasciare spazio direttamente al suo lamento: O vera sapienza secondo Dio! O vera intelligenza spirituale! O vero discernimento della salvezza, da proclamare! Per cinquant’anni di astinenza non ha mai mangiato pane: adesso senza esitazione, per salvare un’anima perduta, ha mangiato carne. Il coro degli angeli santi si stupì delle cose che alacremente, senza incertezza alcuna, mangiò e bevve per strappare un’anima impaludatasi nel fango (questa cosa degli intelletti incorporei che si meravigliano della voracità è abbastanza gustosa). Venite, ammiriamo questa semplicità, venite, proviamo timore per questo capovolgimento: in che modo, cioè, quest’uomo perfetto e sapiente, pieno di discernimento e prudente, si è fatto idiota e incapace di discernere, per trar fuori dalla bocca del leone un’anima inghiottita e sciogliere dalle catene e dal carcere tenebroso un’anima prigioniera e vinta. Come chiamarti, che nome darti, o perfettissimo atleta di Cristo, davvero non lo so (e io immagino questo antico scrittore che scuote la testa, a metà fra l’ammirato e il preoccupato, dinanzi a tante pazzie). Ti potrei definire continente o incontinente? Sapiente o insipiente? Pieno di discernimento o privo di discernimento? Durante i cinquant’anni della tua vita di conversione ti sei coricato su una piccola stuoia: e come ora sali con fermezza su un letto di tal genere? Ma hai fatto tutte queste cose a lode e gloria di Cristo, sia intraprendendo un lunghissimo viaggio attraverso gli ostelli, sia mangiando carne e bevendo vino, sia recandoti in un postribolo. Noi invece, se ogni tanto vogliamo dire al prossimo una parola utile, valutiamo tutte le cose in maniera inopportuna.

Hai ragione, Efrem. Abramo si è fatto idiota e temerario per avvicinarsi più possibile a lei che amava e voleva salvare. Noi valutiamo le cose, pensiamo al da farsi, e siamo più idioti di lui. Nei vagoni della metropolitana la signora borghese scruta attentamente il mendicante dallo sguardo ambiguo e si domanda, stringendo le dita adunche sulla monetina da un euro con l’uomo vitruviano sul dorso, che cosa ne farebbe quello se glielo desse. Certo non si comprerebbe il pane. Forse se lo berrebbe. Forse si drogherebbe. Forse c’è un racket dell’accattonaggio. Meglio non darlo, meglio fare una donazione natalizia alla Caritas. Dimenticando che – come scrive Bernanos - un ventre de misérable a plus besoin d’illusion que de pain.

Così come era abituata a fare con i clienti, Maria toglie all’uomo i calzari. Abramo la stringe a sé, come volesse baciarla. Figlia mia Maria, non mi riconosci? Che ti è successo, figlia mia, chi ti ha uccisa? Io avrei preso su di me qualunque tuo peccato. Perché mi hai sprofondato in questa orribile tristezza? Chi è senza peccato, poi, se non Dio solo? Maria è come di pietra. Solo, le tremano le mani, piccole e bianche, e lui gliele prende nelle sue forti e ruvide, come con quella bimba di ventidue anni prima. Non mi parli, figlia mia Maria, non mi parli? Sopra di me sia il tuo peccato, io renderò conto a Dio di te nel giorno del giudizio. Non disperare, Maria: se anche i tuoi peccati fossero come montagne, la sua misericordia supera ogni cosa.

Segue un gran pianto. Uno di quei pianti che durano tutta una notte. Perfino il padrone dell’alloggio ne è toccato, sa che Maria è perduta, eppure chiude la porta a tutti e dice alle ragazze di fare silenzio. Maria piange e piange, e dice ogni tanto Cosa potrò darti, o Dio, in cambio di tutto questo.

Ora Maria è tornata nella sua cella. Più che cantare i salmi di David re, piange e parla a Dio con l’effusione del suo cuore. Quando all’eremo giunge qualcuno, lei si prostra confessando ad alta voce il proprio passato, in pace e in modestia lo confessa. E c’è chi – grazie all’incontro con lei - si scopre guarito dai mali del corpo, chi sollevato dai pesi del cuore.

E termina Efrem il siro, Efrem il diacono: Mi stupisco di me stesso, di come ogni giorno cado e di come ogni giorno faccio penitenza; in certi momenti edifico e in altri momenti distruggo ciò che ho costruito. La sera dico: Domani mi pento; venuta la mattina trascorro la giornata nell’orgoglio. Di nuovo la sera dico: Di notte veglierò e con le lacrime supplicherò il Signore perché perdoni i miei peccati; quando poi viene la notte, invece, vengo preso dal sonno. Abbi misericordia di me, o Dio, tu che solo sei senza peccato, nessun altro conosco né in altri credo.


Perché non sarà la coerenza a salvarci: ma quel grandioso ‘nonostante tutto’ che regge i cuori dei santi, e che fa loro dire che, nonostante il peccato, essi mai e poi mai cesseranno di supplicare che Tu, o Tu, dia loro la grande misericordia.

lunedì 1 maggio 2017

Quoniam dilexerunt multum. Seconda strana coppia: Pelagia e Nonno

Nonno: il nome in greco vuol dire puro, santo, venerabile. Nonno fa onore al suo nome anche adesso, sotto il portico bianco della basilica che lo protegge dal sole di Antiochia: è figura veramente venerabile. Gli hanno preparato un sedile un po’ più alto degli altri che sono con lui, un piccolo gruppo di vescovi e presbiteri locali riunitisi al fine di discutere di alcuni affari ecclesiastici. Il giovane arcidiacono si prende cura di lui con ammirazione e devozione, lui però sembra indifferente, ha il cranio calvo e lucido, la barba lunga e candida, il mento poggiato sul petto coperto da un logoro omoforion bianco a grandi croci nere. Socchiude gli occhi azzurrissimi, circondati da piegoline della pelle come raggi di un ostensorio. E’ stanco. Sogna il suo deserto, da cui l’obbedienza l’ha strappato per convocarlo in città e ordinarlo episcopo e primate. Sogna la sua grotta, le sue notti trascorse in piedi guardando l’oriente, le sere in cui passava ogni tanto qualche confratello, e si benedivano e abbracciavano reciprocamente, ma poi subito si lasciavano e ritornavano alla gioiosa solitudine d’amore. Antiochia ribolle di calore malsano – lui sogna il vento secco e infuocato fra le rocce, i vescovi parlano e parlano – lui sogna il belato della sua capretta. L’arcidiacono lo guarda, intenerito e preoccupato: conosce i termini delle questioni proposte, e vi risponde come può e sa, facendo scudo al raccoglimento o alla vaghezza del vecchio vescovo.

Ora però l’arcidiacono sembra distratto. C’è movimento nella piazza, i bambini corrono qua e là, un cane abbaia, ci sono grida di uomini e tintinnii nell’aria. Il chierico è in piedi, afferra per un braccio un ragazzotto che cerca un posto più alto per vedere. Che succede, gli chiede. Voglio vederla, risponde. Chi. Pelagia la danzatrice, il sogno di Antiochia. Pelagia la prostituta, vuoi dire. Quel che è: in giro si dice che della sua bellezza non si potrebbero saziare gli uomini di tutto il mondo. Vattene ragazzo, e lo allontana con una spinta. Eccola infatti, ecco la sua portantina, ecco i suoi servitori che la precedono e la seguono, ecco il profumo acuto che si mescola con l’aria densa. La lettiga ha le cortine aperte, si vede il suo volto impastato di colori, si vedono i suoi occhi resi cupi dall’indaco che li circonda, si vedono le sue braccia nude istoriate di henné. I vescovi ora si sono alzati, si voltano dalla parte opposta, tuffano gli occhi nell’incavo dei gomiti per non vedere. L’arcidiacono va verso la portantina, grida a quella gente di andarsene, di tenersi lontano dai padri santi, i servi lo sfottono, Pelagia non sembra accorgersi di nulla. Più lentamente di quel che il chierico avrebbe voluto, il piccolo corteo scompare, la gente si disperde, i suoni si attutiscono, i profumi svaniscono. Si volta verso il portico ed ecco cosa vede.

Vede i vescovi nuovamente seduti ai loro posti, le facce rosse, le fronti corrugate, gli zigomi tesi. In mezzo a loro, Nonno è in piedi, alto e dritto, ha fra le mani l’evangelario, e il suo volto è pieno di luce e privo di stanchezza, gli occhi aperti fissi sul punto in cui la lettiga è scomparsa. L’arcidiacono si avvicina: Padre, gli dice, e non aggiunge altro. Non ti rallegra, gli dice piano piano il vescovo, poi, con voce più alta, fratelli, non vi rallegra una così grande bellezza? Tutti tacciono, con le parole e con gli sguardi. Padre, dice l’arcidiacono, e non aggiunge altro. E’ seduto ora, il venerabile, e piange: le sue lacrime cadono sul libro santo, e ne bagnano le pagine. Alza la testa, è tornato stanco e curvo, ma la voce è ancora forte: io mi sono rallegrato molto, e molto mi è piaciuta la sua bellezza, e vi dico: Dio la metterà al primo posto, e la stabilirà davanti al suo tremendo tribunale, per giudicare noi e il nostro episcopato. Padre, dice l’arcidiacono, padre, e non aggiunge altro.

Ad aggiungere qualcosa è un giovane vescovo dai capelli neri e dallo sguardo in fiamme. Padre, cosa dici! Cosa ha a che fare la bellezza dello spirito con quel fantoccio impiastricciato per attirare i suoi clienti! Risponde a lui il primate: con quanta cura, fratello mio, quella donna si adorna per il piacere dei suoi amanti, che oggi sono e domani non sono più; noi, invece, non soltanto non orniamo la nostra anima, ma neppure laviamo il nostro cuore per presentarci davanti all’Amore stesso.


C’è il caso, e c’è la Grazia: a volte danzano insieme. Sarà che forse l’indifferenza di Pelagia non era proprio tale, e che anche lei è stata colpita da quanto è accaduto davanti a quel portico. Sarà che Nonno, con la sua voce di miele, incantava la gente parlando dalla sua cattedra. Sarà che niente di tutto questo, e che ogni evento fu propiziato dagli angeli. Ma ora Pelagia, che mai era entrata in una chiesa, che mai era stata neppure sfiorata dall’inquietudine della coscienza, ora Pelagia – circondata dai suoi servi che gli fanno scudo dagli sguardi di desiderio, dagli sguardi di riprovazione, e dagli sguardi, la maggioranza, che sono insieme di desiderio e di riprovazione – è in piedi nella basilica dove Nonno sta predicando. Come sempre, Pelagia si accorge di ciò che prova perché il corpo glielo dice: un po’ stupefatta sente le lacrime scendergli sulle guance. Le lacrime, aratri ardenti, aprono un solco sulla resistente crosta del trucco.

Pelagia è ora davanti a Nonno, si è inginocchiata davanti al suo sguardo calmo e azzurro. Padre. gli dice, imita il tuo Maestro e riversa su di me la grande misericordia; Padre, fa di me una cristiana. Come ti chiami, sorella mia, dice il vescovo. Pelagia, gli risponde lei, Pelagia che vuol dire mare, ed ecco i miei peccati sono un mare, e i miei orrori un abisso. L’arcidiacono – che ha visto e udito - guarda il vescovo. Padre, gli dice, e non aggiunge altro.

Il vescovo vede la donna ai suoi piedi. Il monaco del deserto conosce le belve, e sa bene la loro imprevedibilità. A volte un brontolio sommesso annuncia il pericolo più di un tonate ruggito. Ma non ha mai incontrato una fiera più pericolosa di lei. Come sempre succede quando soffia il vento scompigliante dello Spirito che non si sa dove viene e dove va, ci si rifugia nella capanna della Legge. E, quando sente l’arcidiacono dire a Pelagia che i santi canoni impediscono di ammettere al battesimo una prostituta se non dopo molto tempo passato sotto la guida di persone esperte che garantiranno che essa non torni ai suoi peccati, chiude gli occhi e annuisce. Pelagia, che non ha mai cessato di piangere, con le lacrime bagna i piedi del vescovo e coi capelli li asciuga, facendo rivivere il suo prototipo evangelico.

Adesso però si è alzata, e guarda Nonno con uno sguardo dardeggiante, implacabile. Padre, dice, renderai conto a Dio della mia anima; io ricadrò nel mio peccato: ma sarai tu a portarne la colpa; non avrai parte con Dio e con i santi, sarai ritenuto da lui un adoratore di idoli, se tu adesso non mi salverai dalle mie iniquità, se non mi farai sposa di Cristo e non mi offrirai a lui. Il vescovo comprende chi parla in lei, e prontamente, monasticamente, obbedisce. Si prepari il sacro Fonte, ordina. Padre, dice l’arcidiacono, e non aggiunge altro. Sorella, conclude Nonno, ti lascerò il nome del mare.

Pelagia, battezzata e rivestita della veste bianca, rimane per otto giorni distesa sulla pietra della basilica, i piedi nudi, le braccia in croce. Ha dato gli ordini ai servitori di disfarsi di tutte le sue ricchezze donandole ai poveri. Poi depone l’abito candido dei neofiti, indossa una logora veste color del deserto, e scompare.

Anni trascorrono, e il vescovo è oramai vecchissimo,. Un giorno riceve dei monaci di un cenobio molto remoto: ha sempre piacere di incontrarli e di sentire il profumo della vita e dell’amore da cui amore e vita lo hanno costretto a allontanarsi. I monaci gli parlano di un santo eremita, un recluso, l’abitante di una grotta strapiombante su una falesia; loro gli portavano del cibo, pochissimo, e lui, forse nella notte scendeva, o volava chissà, e lo prendeva. Ma da tempo il cibo non viene più toccato e si suppone che l’anacoreta sia morto. Pelagio, aggiungono, era il suo nome. Il volto di Nonno si apre in un sorriso di comprensione. Manderò dei chierici a raccogliere le spoglie del recluso, dice, perché desidero che siano venerate in questa chiesa. Padre, dice l’arcidiacono. Ma questa volta aggiunge: manda me.


Vanno i chierici con l’arcidiacono, che è l’unico a non stupirsi quando trovano il corpo di una donna, di Pelagia, la santa prostituta, ritiratasi nell’alcova di pietra per deliziare con la sua bellezza l’Amore divino. 

Se qualcuno oggi sale sul tetto del Duomo di Milano, e perde il suo sguardo nel fantastico popolo di figure in quel vistoso giardino marmoreo, come ebbe a definirlo Hermann Hesse, ossia alle statue collocate solo per l'occhio di Dio e degli angeli su vertiginose guglie di marmo, potrebbe incontrare - fra le milleottocento - quella di Pelagia la prostituta. Ma non è facile, perché ama nascondersi