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martedì 2 maggio 2017

Quoniam dilexerunt multum. La vecchia donna cinese e il monaco ch'an

Per quest’ultima, breve storia ci spostiamo più in oriente, e lasciamo anche il continente cristiano, geografico, cronologico e culturale. Siamo in Cina, nel nonsoquando che potrebbe essere ogni istante, perfino ieri, o venti secoli fa. In realtà più che di una coppia dovremmo parlare di un terzetto, perché c’è anche una fanciulla di mezzo: ma, come vedremo, ha una funzione più secondaria e strumentale.



C’è questa vecchia donna cinese, che possiede un po’ di terra adatta alla vita solitaria. Arriva un monaco che pratica il ch’an, quella via che in Giappone e in Occidente sarà conosciuta come zen.

Dire che cos’è lo zen non è possibile: per definizione esso è privo di definizione. I praticanti trascorrono la vita in uno stato di grande concentrazione e contemporaneamente di decentrazione, con molti momenti dedicati a ciò nell’assoluta immobilità. Gli attaccamenti, le brame, i desideri, i pensieri, l’io stesso, tutto cade come foglie secche da un albero autunnale. Appare /ecco!/ il Sé originale, il Sé eterno, o la natura-di-Buddha. Ma di questo non si può parlare se non sbagliando. Imparare lo Zen è trovarci / trovarci è dimenticarci / dimenticarci è trovare la natura di Buddha / la nostra natura originale, dirà Eihei Dogen Roshi, il grande Maestro giapponese che si recò in Cina nel XIII secolo e ne portò in patria il suo tesoro.

Il monaco chiede alla vecchia donna se può stabilirsi sulla vetta di un monte che fa parte dei suoi possedimenti, e che gli sembra adatto per meditare. La vecchia guarda il giovane asceta dagli occhi lucenti, e acconsente. Del resto, per i laici d’oriente, mantenere i monaci è una grande opportunità per guadagnare meriti per le successive esistenze. Il monaco, col suo piccolo bagaglio in spalla, scompare fra gli alberi. Passano gli inverni, ne passano venti. La vecchia donna ora è molto più vecchia. Questo è un inverno arido e ventoso. Le torna in mente il monaco che aveva chiesto di meditare sulla montagna. Si chiede se sia ancora lì, se sia vivo, se segua ancora la Via, se abbia fatto progressi. Chiama allora una sua serva, giovane e bella e piena di desiderio. Le dice: Vai all’eremo, cerca un monaco, e se lo vedi abbraccialo a lungo e con passione: e poi gli chiederai: Adesso?. L’ancella si avvia. Dopo la lunga salita, vede profilarsi sul crinale la figura del monaco, ormai non più così giovane, il cranio perfettamente rasato, seduto nella postura solidissima della meditazione, immobile come solo i non naturalmente immobili riescono ad essere. Obbediente, la ragazza si avvicina, saluta, forse anche canta un po’ per farsi coraggio. Il monaco non dà segno di averne sentito la presenza, eppure ha gli occhi semiaperti e vigili. Lei scherza, danza, lo abbraccia, lo accarezza, dice perfino Adesso?: niente. Perfetta serena immutabile immobilità: il vento marino gonfia le grandi maniche e agita il kesa, che schiocca con rumore di fuoco e di bandiera, ma lui non se ne cura. Un po’ delusa, un po’ sollevata, molto stupita, la ragazza attende qualche ora al gelo sotto il portico del piccolo romitaggio. Quando sta per andarsene sente, profondissime, sonore, melodiose, forti come un tuono, le parole dell’eremita:

Un vecchio albero su una fredda roccia. Pieno inverno: non è rimasto più calore in alcun luogo.

Ora la ragazza discende dalla montagna correndo, e ripetendo tra sé le parole da riferire alla padrona: è ormai notte. Eccola davanti alla vecchia a riferirle. La vecchia scuote la testa, visibilmente delusa.

Per vent’anni ho mantenuto quel buono a nulla!

La mattina del giorno seguente, una piccola carovana di uomini e asini coperti di fascine secche sale il sentiero che conduce alla vetta della montagna. Circondano la zona dell’eremo con le fascine, e appiccano il fuoco. La notte il monte ancora brucia, e il vento piega la fiamma verso est.


Sorride la vecchia donna, pensando che ora in quel luogo c’è molto calore.

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