Per quest’ultima, breve storia ci spostiamo più in oriente,
e lasciamo anche il continente cristiano, geografico, cronologico e culturale.
Siamo in Cina, nel nonsoquando che potrebbe essere ogni istante, perfino ieri,
o venti secoli fa. In realtà più che di una coppia dovremmo parlare di un
terzetto, perché c’è anche una fanciulla di mezzo: ma, come vedremo, ha una
funzione più secondaria e strumentale.
C’è questa vecchia donna cinese, che possiede un po’ di
terra adatta alla vita solitaria. Arriva un monaco che pratica il ch’an, quella via che in Giappone e in
Occidente sarà conosciuta come zen.
Dire che cos’è lo zen non è possibile: per definizione esso
è privo di definizione. I praticanti trascorrono la vita in uno stato di grande
concentrazione e contemporaneamente di decentrazione, con molti momenti
dedicati a ciò nell’assoluta immobilità. Gli attaccamenti, le brame, i
desideri, i pensieri, l’io stesso, tutto cade come foglie secche da un albero
autunnale. Appare /ecco!/ il Sé originale, il Sé eterno, o la natura-di-Buddha. Ma di questo non si
può parlare se non sbagliando. Imparare
lo Zen è trovarci / trovarci è dimenticarci / dimenticarci è trovare la natura
di Buddha / la nostra natura originale, dirà Eihei Dogen Roshi, il grande
Maestro giapponese che si recò in Cina nel XIII secolo e ne portò in patria il
suo tesoro.
Il monaco chiede alla vecchia donna se può stabilirsi sulla
vetta di un monte che fa parte dei suoi possedimenti, e che gli sembra adatto
per meditare. La vecchia guarda il giovane asceta dagli occhi lucenti, e
acconsente. Del resto, per i laici d’oriente, mantenere i monaci è una grande
opportunità per guadagnare meriti per le successive esistenze. Il monaco, col
suo piccolo bagaglio in spalla, scompare fra gli alberi. Passano gli inverni,
ne passano venti. La vecchia donna ora è molto più vecchia. Questo è un inverno
arido e ventoso. Le torna in mente il monaco che aveva chiesto di meditare
sulla montagna. Si chiede se sia ancora lì, se sia vivo, se segua ancora la
Via, se abbia fatto progressi. Chiama allora una sua serva, giovane e bella e piena di desiderio. Le dice: Vai
all’eremo, cerca un monaco, e se lo vedi abbraccialo a lungo e con passione: e
poi gli chiederai: Adesso?. L’ancella
si avvia. Dopo la lunga salita, vede profilarsi sul crinale la figura del
monaco, ormai non più così giovane, il cranio perfettamente rasato, seduto
nella postura solidissima della meditazione, immobile come solo i non
naturalmente immobili riescono ad essere. Obbediente, la ragazza si avvicina,
saluta, forse anche canta un po’ per farsi coraggio. Il monaco non dà segno di
averne sentito la presenza, eppure ha gli occhi semiaperti e vigili. Lei scherza,
danza, lo abbraccia, lo accarezza, dice perfino Adesso?: niente. Perfetta serena immutabile immobilità: il vento
marino gonfia le grandi maniche e agita il kesa,
che schiocca con rumore di fuoco e di bandiera, ma lui non se ne cura. Un po’
delusa, un po’ sollevata, molto stupita, la ragazza attende qualche ora al gelo
sotto il portico del piccolo romitaggio. Quando sta per andarsene sente,
profondissime, sonore, melodiose, forti come un tuono, le parole dell’eremita:
Un vecchio albero su
una fredda roccia. Pieno inverno: non è rimasto più calore in alcun luogo.
Ora la ragazza discende dalla montagna correndo, e ripetendo
tra sé le parole da riferire alla padrona: è ormai notte. Eccola davanti alla
vecchia a riferirle. La vecchia scuote la testa, visibilmente delusa.
Per vent’anni ho
mantenuto quel buono a nulla!
La mattina del giorno seguente, una piccola carovana di
uomini e asini coperti di fascine secche sale il sentiero che conduce alla
vetta della montagna. Circondano la zona dell’eremo con le fascine, e appiccano
il fuoco. La notte il monte ancora brucia, e il vento piega la fiamma verso
est.
Sorride la vecchia donna, pensando che ora in quel luogo c’è
molto calore.
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